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Comuni della Provincia di Agrigento: Santa Elisabetta e le sue montagne

29 Maggio 2018 //  by Elio Di Bella

Santa Elisabetta

Allorché, andandovi d’Aragona, dopo aver traversato il fresco avvallamento che ha il curioso nome di Cinti Vucali si arriva a Santa Elisabetta, quello che si nota subito e una lunga strada a declivio in fondo alla quale domina l’orizzonte una bella ed aspra montagna. La strada non è veramente la sola dell’abitato, perché altre se ne trovano lateralmente ad essa, che è come dire il corso; ma ciò nonostante il paese non è che un villaggetto perduto tra le campagne, e di fondazione piuttosto recente. Esso infatti ebbe origine nel 1670, per opera di Nicolò Giuseppe Monteaperto, che volle popolare il suo fondo di Cometa, e che vuolsi gli abbia dato il nome della moglie, e non era in origine che una semplice baronia, solo più tardi, nel 1748, eretta in Ducato, che peraltro dava al suo signore il diritto di occupare il 24º posto nel parlamento siciliano.

La montagna, però, che chiude l’orizzonte della strada e storicamente più importante del paese, perché essa è Guastanella (Guastanedda), quella che il Malaterra ricorda durante la conquista normanna col nome di Gastaiel.

Sulla sua cima infatti sorse, forse in epoca bizantina, un fortilizio che diventò un fortissimo castello al tempo dei saraceni. E quando il conte Ruggero, nel 1087, secondo la data corretta dell’Amari, ebbe presa Girgenti, per rendersi anche padrone dei dintorni, si recò ad assediare questo castello. Di ciò il popolo anche oggi un vago ricordo, tanto che indica nelle sue vicinanze un Poggio del Seggio (Poiu seggiu) dove afferma che il famoso conte avesse posto i suoi accampamenti; certo si è, però, che la paura della bandiera bianca con la croce rossa doveva essere tanta in quegli anni, che, Guastanella, nonostante la sua fortissima posizione, fu ben presto prese assoggettata. E pare anzi che sin d’allora fosse data in feudo ai Monteaperto, uno dei quali faceva parte delle schiere del conquistatore, sarà dovuto segnalare nella soggiogazione di quei luoghi, ogni altura dei quali era una posizione saracena.

Il castello di Guastanella così fu riattato e mantenuto, e nel 1221, quando i saraceni si ribellarono all’imperatore Federico II, e si impadronirono del vescovo orso di girgenti, fu il nesso che lo rinchiusero e lo tennero per 14 mesi, sinché il prelato poté riscattarsi per denaro. Più tardi però, nell’epoca aragonese, quel feudo fu dato i Chiaramonte, che dove solo non poterono arrivare non posero le mani; ma lei si passò, non si sa come, ai Montecateno, e poi, ai tempi di re Martino, a Filippo Marino, dopo del quale non si trova alcun altro ricordo, e il castello dei cade a poco a poco in rovina, e non lascia che pochissimi ruderi che anche oggi il curioso riesce a trovare, in una posizione fortissima, che forma come un breve altopiano sulla montagna, dove l’accesso è sempre difficilissimo.

Oltre questa storica montagna però che si alza sino a 670 metri, e che da Santa Elisabetta è lontana, ad ovest, da tre a quattro km, un’altra se ne nota a nord-ovest del paese detta la Montagna del Comune, alta 630 metri, ed una terza più vicina ancora, quasi a ridosso dell’abitato, sempre dalla parte nord, e che ha soltanto 448 metri di elevazione.

Quest’ultime detta la Montagna Benedetto, ed è tutto un gran masso di solfato di calce, non molto puro all’apparenza, ma dai cristalli assai grandi, che danno gesso in quantità, senza quasi alcuna fatica per estrarlo. A sud di essa scende a declivio ed è coperta di terriccio coltivabile, ma nord di cade quasi a picco, mettendo in mostra tutto il suo gesto, e sovrastando una discreta pianura, che detta Margiu di Santu, per la quale si va verso Sant’Angelo Muxaro, il paese che ha dato di recente una enorme quantità di vasi così antichi dei non sapersi bene come classificarli, e di cui, con la nostra musulmani indifferenza, si sta lasciandosi su pare e sfruttare le vetuste necropoli.

La Montagna Benedetto intanto, nel suo lato nord, presenta anch’essa delle antichissime tracce dei popoli che vissero in queste contrade quando ancora la civiltà era in uno stadio assai primitivo. La sua roccia infatti è tutta traforata da una trentina di grotte al forno, con la bocca più piccola dell’interno, col fondo piano a base presso che circolare,  e con la volta a cupola, e di dimensioni piuttosto grandi, tanto che è in qualcuna ci si può stare a pena appena curvati. E sono evidentemente delle tombe sicule, tombe ognuna delle quali era destinato ad accogliere una famiglia intera, che, com’è noto, venivano chiuse dal di fuori mediante una lastra che faceva la sportello.

Ma oltre la strana impressione che arrecano queste tombe scavate nella pietra di gesso, perché non possono avere lisce le pareti interne, come quelle che rinvengonsi specialmente nel calcare tenero e gialliccio, una circostanza specie osa presentano, che per un momento fa restare perplesso l’osservatore: sul pavimento di alcune di esse, e sulle pareti di alcune altre (non di tutte) sono scavati dei fossi rettangolari, allungati, i quali non possono essere che loculi, nei quali si seppellirono delle persone in posizione distesa. La grotta, fra tutte più grande, anzi, e che detta di Santa Rosalia pare che consti di due tombe sicule appaiate, nel cui interno sono 4 o 5 loculi, relativamente grandi, così da far pensare che ognuno di essi abbia potuto accogliere più di un cadavere.

Collo scorrere dei secoli, è vero, sia per la fragilità della roccia, sia per l’opera incessante dei devastatori, così le grotte come loculi sono in gran parte rovinati; ma non tanto che non si possa leggere in essi una pagina di storia, che gli annali non hanno registrato e che il popolo ha dimenticato.

Un villaggetto siculo dovette sorgere sulla montagna al cominciare del primo millennio avanti Cristo, villaggio di cui non si riesce però a scoprire più la minima traccia. E quel popolo di scavatori, che abitava l’altura, nei fianchi del monte scavò le sue tombe a forno e chiuse sui morti, che soleva deporre quasi seduti attorno al centro dello scavo, con le spalle al muro, all’incirca nella stessa posizione nelle quali si stava entro le capanne, anch’esse circolari ed a volta (per necessità di costruzione lasciata conica), quando si sedevano attorno alla pietra del focolare, dove la vampa alzavasi a scaldare le membra degli astanti, o i cibi cucinati soffrivano a ristorarli, giacché le tombe non erano che la riproduzione delle case.

Ma gli anni secoli passarono e la gente che aveva lasciato in quel luogo sui morti sparì, forse allontanata dalle circostanze, forse fusa con le razze invaditrici e colonizzatrici. Man mano, per l’influenza fenice punica, ed anche per quella greca, essa cambiò il suo rito funebre, ed al seppellimento accoccolato sostituì quello disteso; dimenticò anzi totalmente il primo, così che non seppe più riconoscere le vecchie tombe, e sia per curiosità, sia per incoscienza, qualche volta anche per spogliarle, le violò e le vuotò. Forse sulla montagna Benedetto, dov’erano stati Siculi, forse laddove l’attuale paesello – giacché non vi sono indizi per precisarlo, e le nuove genti non cercavano più, come le antiche, le cime delle montagne, – un gruppo di cristiani si raccoglie. E quando ha da seppellire i morti non trova di meglio che invade le tombe sicule, scavare nei fianchi di esse i suoi loculi, e mettervi i cadaveri distesi, ricoperti da adatte lastre. La grotta di Santa Rosalia dovette anzi, come la più grande, servire probabilmente di cappella, sicchè si aveva così quello che per tanto tempo poi duro: il seppellimento nel luogo stesso sacro al culto e nelle sue immediate vicinanze.

Nessun’altra spiegazione all’infuori di questa ci sembra possibile di fronte a quando ci mostra la montagna Benedetto, che sovrasta al margine di Santu presso Santa Elisabetta, e noi quindi vediamo in questo luogo una piccola necropoli cristiana dei bassi tempi sovrapposto ad un’antica necropoli sicula.

Salvatore     Raccuglia

In rivista La Siciliana, Catania, giugno-luglio 1912

 

Categoria: Storia ComuniTag: santa elisabetta

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