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Carrapipi si dice, carrapipani i suoi abitanti

22 Marzo 2018 //  by Elio Di Bella

Carrapìpi si dice, carrapipàni i suoi abitanti; nomi andati in apologo. Carrapipànu tuttora si dice per ciò ch’è nostrano, propriamente di Sicilia; ma di una realtà inzaccherata e polverosa, non ancora borghese, priva di legami nobiliari anche nell’apparenza, anzi completamente popolana. Una parola — carrapipànu — che non ha a che fare nemmeno con il mare.

Quelli dell’isola dei Porri, di punta delle Formiche, di Portopalo nel Capo Passero, Marzameni,      Vendicari — per parlare dei luoghi di marina che stanno attorno, alla

lontana al paese divenuto cosi emblematico — quelli di Calabernardo o di punta del Cane, del Murro di Porco, di Panagia, Magnisi, mai si è potuto intendere che fossero carrapipàni. Fra le separazioni profonde che lasciano individuare varie parti della Sicilia, zone e genti, quella di mare e di campagna rimane fra le più radicali.

Eppure andando per coste, girato il Capo delle Correnti non è più Jonio ma un altro mondo: il Mediterraneo; passata Trapani, ancora un altro mare (un diverso mondo): il Tirreno. Il modo di vivere, di operare — di sopportare la vita — la visione delle cose, pure fra gente dello stesso mestiere, ha dimensioni variate.

A Sciacca — altro paese emblematico, nei fatti, non anche nelle parole — mare e terra dànno semi e segni diversi; Accursio Miraglia campava con il commercio del pesce salato, ma organizzava i contadini: la sua cooperativa si chiamava “La madre terra”. Il mare resta un’avventura mitica, di lotte con i mostri in luoghi infidi e stranieri; la terra, pure con i suoi mostri, animali di cui ci si è già appropriati: anche se bisogna spietrarla, dissodarla, continuamente assoggettare ogni zolla contrastando con le ribellioni della natura (che sono rovi, lupini, gramigna, quando non sono — sull’Etna — lave: qualcosa di più metafisico).

Carrapipànu non è il siciliano marinaio, e — in terra — nemmeno il villano rifatto: il burgisi che ha accumulato le proprie fatiche e quelle degli altri in terre, case di campagna con le provviste, le bestie, casa di paese con la cassa del corredo, il pozzo, denari sotto il materasso e nell’impiantito, oro povero che luccica — più che altro — di rame. In mancanza di un proletariato economicamente definito, carrapipànu è il sottoproletariato che pullula — anch’esso — di televisori, automobili, frigoriferi, motorette, intasati nel catoio insieme all’asino e alla capra e a tutta la brulicante famiglia; ma il suo risentimento ha un livello linguistico e sentimentale (di sentimento della vita) che tracima una cultura completamente autonoma, non per questo chiusa all’osmosi.

Tutte le culture — e se ne può usare la parola se non in senso strettamente antropologico, l’unico privo di riflessi razzistici — vengono da una incessante ricerca; dalla formazione di certezze che sempre — volendo o non volendo — vengono confrontate all’interno dell’aggregazione di esse, e (all’esterno) nei rapporti inevitabili con le culture circostanti. Anch’esse, peraltro, hanno già influito nella formazione dell’interno.

Certo, se ci si va adesso, le immagini si ritrovano stinte in sostanze diversamente composte. Non c’è più il feudo, ch’è perdurato sin dopo l’agguato di morte al bandito Giuliano; sin dopo che in Sicilia si è messa l’autonomia regionale. Però non la scomparsa del feudo — che pure quel sottoproletariato, per alcuni segni, voleva — ha reso irriconoscibile l’ambiente del carrapipanu: la terra sarebbe ancora terra coltivata, e terra coltivabile; il paese sarebbe ancora paese, con lampade notturne da un vicolo all’altro; ma lo spopolamento dell’emigrazione — a cominciare dal servizio di leva, ché sempre di deportazione si tratta — e l’immigrazione di ritorno: dopo una mimetizzazione linguistica e delle altre abitudini ch’è (appunto) uno scimmiottamento, del parlare e degli usi esistenti nei posti dell’emigrazione, allo scopo di non farsi scoprire; di non provocare nuove cacce all’ilòta.

Tornato al paese, il carrapipanu pauroso pensa di mettersi in vantaggio sociale presentando quegli accenti e quegli usi — spesso espressi in modo approssimativo e goffo — di luoghi che dànno, oppure cerca di fare credere che diano, possibilità di sopravvivenza migliori. E, a parte questo genocidio, l’ambiente sottoproletario è reso irriconoscibile dal prevalere della non-cultura dei cosiddetti mass-media: radio, televisori, dischi, da cui vengono parole e musiche — ammirevoli, e da imitare, perché esteri (esterni) — quasi sempre del tutto artefatti perché non generati da  una necessità di espressione: ma sempre più gergati — rarefatti — da gerghi svincolati dalle condizioni di vita, attinenti invece quell’incomprensibile evento che adesso si chiama “tempo libero”.

Le parole incidono le cose come scalpelli. Ma le cose stesse — le pietre e gli alberi —si sono rese friabili. L’ambiente è mutato anche per effetto mediato dalle parole; per le azioni di disboscamento, per l’ampliamento delle cave, l’abbandono dei campi, la trasformazione dei fiumi in ruscelli, l’imperio delle fabbriche, il cambiamento delle dimensioni degli abitatiti: la ricerca della ricchezza devastando ricchezza.

E bisogna dire che un cambiamento assoluto si voleva — si è sempre voluto, da prima di Euno e tuttora — ma nel senso della liberazione dell’uomo, dell’affermazione sempre più libera della sua dignità: una capacità di sopravvivenza che possa essere vissuta meno tragicamente. Nelle zone occidentali della Sicilia questa impostazione è piuttosto confusa; in oriente — e forse lo si deve alla ragionata fortuna dei raccoglitori, Serafino Amabile Guastella e nel tempo nostro Antonino Uccello (per dire solo delle massime intelligenze in quei termini e in quei luoghi) — l’impostazione esce più limpida e organica: nei canti di campagna, nei canti di paese (occasioni religiose e carceri), non solo nelle Parità.

Non si può certo pensare ad opere di creazione collettiva, se mai a un diffuso convincimento raccolto da singoli autori e trasfuso nell’ambiente attraverso le composizioni: che la collettività fa proprie, adatta ai propri luoghi, appassionatamente o rabbiosamente ripete. L’invettiva, la protesta, il sogno, persino il sentirsi viscere della terra, prendono un più disteso modo di espressione argomentato con esempi; un’epica non più cantata, ma narrativa. L’onda alta in cui il canto si strazia diviene lunga e corposa, si stende in densità ampie.

Ancora non accoglieva quanto di beffardo suggerivano le Parità, e forse non poteva: quella era un’ottica dovuta a sofferenza più matura, meno istintiva e carnale.

Invece questo è un sistema per riferire, per fare rapporto di una situazione: sarà, dopo, un sistema per rappresentare; e, in ultimo, adesso uno sbocco di creazione. Ed è, sempre, un’occasione per giudicare; in parte indicando il futuro, mentre si pensa che si stia parlando del presente.

Questo riferire è piuttosto fotografico. Non è un caso che tanti scrittori — non solo Capuana e Verga — siano fotografi instancabili, proprio nell’uso della macchina fotografica. Essa fa àncora alla disperazione, impedisce che fluttui; facilita le necessità narrative. Siamo alle macchine primordiali, con lastra; non ancora a quelle sofisticate, in cui si arrotolano pellicole di fine trattamento tecnologico, che consentono di rappresentare (persino di fare delle riprese ironiche). Del resto le Parità non dovevano avere un humus vasto, una ampia rispondenza nell’animo popolare se non in quell’abitudine al dileggio — a quei tempi troppo bassa, volgare, quindi irríferibile — in cui sempre si è dato sfogo, con bestemmie, (Eschilo e Plauto insieme) alla rabbia meno istintiva: ripensata, ed eretta a difesa della propria disperata impotenza. Non è ancora ironia, ma sarcasmo che sbrana le carni; l’ironia, prima, graffia la pelle.

Continuando a semplificare, e intanto a segnare qualche esempio, il mondo senza ironia e senza sarcasmo è quello che Alessio Di Giovanni rappresenta: in occidente, nelle parti del Salso, tra feudi e zolfare.  Lì  vicino, verso il mare e chiusa adesso (la pirateria ha fatto sì che gli abitati marittimi volgessero le spalle alla riva in atteggiamento guardingo, in sottecchi), Girgenti — invece — è luogo di naturale ironia. Già quel fare di ogni piazzetta e vicolo un palcoscenico, di ogni porta e finestra un’apertura sulla scena, quell’abitudine a vivere mostrandosi, implica ironia istantanea — uno dei necessari tramiti di comunicazione — in chi recita la parte del recitante e in chi recita, di volta in volta, la parte dello spettatore.

A Carrapipi, si capisce, la situazione è lievemente diversa. E’ il luogo di transizione fra oriente e occidente, da un feudo all’a1tro, nella vera zona mediana della Sicilia. Aridità abbacinanti si frastagliano a boschi di fresca ombrosità omerica; quantunque in epoca di fascismo gli si sia voluto cambiare il nome (infimo sembrava quello di Carrapipi, ma con risultati operettistici quello di Valguarnera Caropepe) la sua realtà è in certe lapidi di saporosa lettura nel significato di ironia involontaria, in quelle scuole con lontanissimi ingressi per separare le scolare dagli scolari, in quelle iscrizioni fuse nel bronzo dei lampioni umbertini per eternare il nome aulico del senatore che per Carrapipi intercedette l’illuminazione pubblica (a Sant’Angelo Muxàro, da tutt’altra parte, un deputato povero — Guarino Amella — faceva con i santangelesi una laica festa del rullo compressore, che rendeva stabile la via di accesso al paese).

La realtà di Carrapipi è pure in quell’essere la porta delle due Sicilie isolane, fra le montuosità di Aidone e quelle che sovrastano il lago di Pergusa; porta e borgo rurale insieme. Francesco Lanza, così lungo e allampanato, con il cappello a sghimbescio quando —secondo la nota immagine spesso citata — passava a cavalcioni di un asino per le vie del paese faceva come tutti i sottoproletari della campagna; lo scandalo era che quelli camminavano da jurnatàra, da occupati a giornata, da piccolissimi proprietari, Lanza invece — piccoloborghese, privo dunque della sacertà (nobiliare) che nobilita ogni gesto — rompeva la dignità di quelle lapidi, dei lampioni senatoriali, delle separazioni di sessi e di classi.

Solo che queste estrosità si facevano pericolose, con i lunari per i contadini — l’insegnamento dei metodi di coltivazione e, umorosamente, di tutto quanto riguarda il lavoro della terra — non perché i contadini sapessero leggere, ma perché qualcuno poteva essere tentato di leggere per loro e perché loro stessi avrebbero potuto cadere nella tentazione (com’è poi avvenuto) d’imparare. Non è solo il timore di perdere il potere che si possiede attraverso la scrittura, e per il fatto stesso di leggere e scrivere; è anche il pericolo più immediato di vedere svanire l’indiscutibilità di certi ordini.

Banalmente, a dirne una, esistevano contratti fra i latifondisti e i produttori di concimi chimici. Sicché i proprietari, ai vari diritti di carne e di carnaggi e nelle spartizioni dei raccolti, aggiungevano l’obbligo dei contadini di coltivare i campi (e bruciarli: la consueta faccenda del cercare ricchezza distruggendola) con determinate dosi di concime chimico, ch’era interamente a loro spese. Il fatto di perdere i benefici del concime stallatico, che non ha costo, e indebitarsi per comprare quello degli amici del padrone può essere — secondo i luoghi — tragico, drammatico, comico.

L’esempio valga per quello che è. E così l’accenno a Girgenti.

Perché Carrapipi non è posto da farvi teatro, pure se non vorrei sminuire le commedie di Lanza, come si può vedere dai Mimi che — nonostante l’icastica nomenclatura — sono delle narrazioni di breve respiro, e di lunghissimo effetto, non storie da mettere in scena: Mimi perché hanno dentro il buffoneggiamento. La memoria storica (e letteraria) delle Parità, attraverso un percorso tortuoso, è tornata a rapprendersi di vita in un autore. Uno dei motivi del ritardo nella diffusione della Parità era nell’argomento; a parte quelle, vi era stata — sino a Verga, e continuava ad esservi con Alessio Di Giovanni pure se con interferenze di solfare — solo vita dei campi. De Roberto andrà dai campi in città, alla politica grassa. Navarro unisce Francia e Sicilia nel naturalismo, non solo Parigi a Catania, passando dalla metropoli al paese; la stranezza di scrivere della vita di paese escluderà Navarro dal panorama che in Sicilia è costruito unicamente con le campagne: sino a quando si sarà raggiunta — ed è avvenuto da poco — una prospettiva che faccia individuare i campi come una parte del panorama, altra parte la città, intanto i paesi.

Il naturalismo fa in modo che Navarro riscopra Sambuca. L’ironia determina, con qualche sortita, gli effetti letterari della riscoperta; in Lanza non solo Carrapipi e i carrapipàni emergono nella rappresentazione a invadere l’intera pagina scritta, ma tutti gli altri carrapipàni degli altri paesi di Sicilia. La lezione d’ironia consapevole che si dà Lanza giova nei luoghi e nel tempo, e nell’efficienza della scrittura. L’idiomatismo non viene da una ricerca di fedeltà, ma da una sintesi rappresentativa attraverso il rifacimento linguistico: sino al neologismo fulminante. La contemporanea presenza dell’autore nei vari posti corrisponde, in qualche ironico modo, ai resoconti dei primi inviati dei giornali. Lanza coglie il suo tempo e lo beffeggia, se ne serve per il suo scopo di scrittura ch’è di paesana solidarietà — attraverso l’ironia degli argomenti e dello stile — e, insieme, di autoironia.

Con essa anticipa i tempi — fatto straordinario: dalla piccola dimensione, formato gabinetto, della fotografia in quel modo rivisitata — intanto con l’ironia individua la non ancora esaurita linea della narrativa siciliana, a livello assoluto (non serve dire “europeo”, ché non si sa cosa possa significare). Le strade di Brancati. di Bonaviri. di Consolo, di D’Arrigo. del Torres di Bandiere di fili di paglia, pur cosi diversificate, più volte sono dovute passare dalla linea ai Lenza. Sarebbe quasi da dire che l’epica attuale, il romanzo-poema, non troverebbe giustificazione sintattica senza l’individuazione che Lanza ha segnato.

Peraltro, la vita di città si è già frantumata in vite di paesi l’uno dietro l’altro estesi. Chi fa vita di quartiere forse non si accorge che, in fondo, non è che vita di paese: diversa è solo l’alienazione.

Di Antonino Cremona

 

Categoria: Storia ComuniTag: agrigento, carrapipi, contadini siciliani

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