
Scoppiata a Palermo il 12 gennaio 1848 per il malessere sociale e per i molti risentimenti che serpeggiavano nella popolazione, si propagò rapidamente in ogni parte della Sicilia
e coinvolse tutti i ceti sociali. « Nei villaggi e nelle città si verificarono sommosse per il pane e si attaccarono i circoli in cui i galantuomini in genere si riunivano » (Denis Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna). Furono uccisi molti greggi di pecore e vennero bruciati diversi ettari di boschi mentre i funzionari governativi fuggivano per mettersi in salvo. Il disordine regnava ovunque; ogni forma di governo venne meno e in tutta la Sicilia si formarono molte squadre di armati, alcune delle quali non erano altro che bande di briganti guidati da un capo della malavita locale al soldo dei Borboni o dei baroni, mentre altre erano autonome.
Tutte quante ricevevano una paga che spesso era imposta alla popolazione per un numero maggiore di armati rispetto a quello che costituiva realmente la banda.
I principali capi della rivolta, però, esaltati dai successi ottenuti, rifiutarono le offerte chiedendo la totale indipendenza siciliana da Napoli. Il parlamento siciliano che era composto da rappresentanti di tutta l’isola, inoltre, il 13 aprile proclamò l’indipendenza della Sicilia e la deposizione del re Ferdinando.
Decise anche di reclutare una guardia nazionale per proteggere la proprietà e stabilire l’ordine venuto meno con la rivoluzione e per la presenza delle bande armate che talvolta si combattevano tra di loro ed esercitavano numerose angherie : soprusi contro la popolazione. La guardia nazionale era guidata da aristocratici e per imporsi dovette anche contrarsi con le bande armate che prima erano servite per la cacciata dei borboni.
Aragona, accomunata al resto della Sicilia per il malessere sociale e per i molti risentimenti, partecipò attivamente alla rivoluzione antiborbonica e si unì agli altri combattenti nella cacciata dell’esercito regio. Un clima di rivoluzione regnava in tutto il paese fin dal 1847 e molti aragonesi non attendevano altro che il segnale della rivolta per prendere le armi. Animatori del movimento rivoluzionario aragonese furono i fratelli Salvatore e Giulio Di Benedetto presso cui segretamente si riunivano tutti coloro che erano animati dal sentimento di riscossa.
Essi operarono in stretto rapporto con i dirigenti del movimento di Agrigento nella cui città « serpeggiava un vivo fermento rivoluzionario tra il popolo e la borghesia assecondato dal vescovo Mons. Loiacono, il quale lasciava liberi gli ecclesiastici di seguire le idee liberali. Molti sacerdoti di Aragona apertamente, anche nelle prediche, manifestavano le loro idee patriottiche incitando alla rivoluzione» (Appunti sulla storia di Aragona del dott. Guerrera).
Ad Aragona circolava anche il proclama redatto a Palermo da Francesco Bagnasco. Era stato portato da Don Giuseppe Guerrera e distribuito in diverse copie scritte a mano tra la popolazione. Non appena in Aragona giunse la notizia della rivolta di Palermo del 12 gennaio, i fratelli Di Benedetto inalberarono il vessillo tricolore nella Chiesa del SS. Rosario mentre una gran folla si accalcava in piazza inneggiando alla rivoluzione.
Non si hanno notizie di scontri armati per le strade di Aragona e sicuramente i rivoltosi riuscirono a soppiantare l’ordine borbonico senza incontrare alcuna resistenza. I funzionari borbonici dovettero fuggire come era avvenuto in tutta la Sicilia, oppure cambiarono bandiera passando dalla parte dei rivoltosi. Dopo la cacciata dei Borboni e con l’istituzione del parlamento siciliano che si riunì per la prima volta a Palermo il 25 marzo, Aragona elesse il principe Baldassare Naselli suo rappresentante al parlamento dell’isola. Il principe pertanto assunse il titolo di « pari », appellativo con cui venivano chiamati i parlamentari.
All’inizio del mese di febbraio anche ad Aragona come in molte pari della Sicilia si formò una banda armata che ben presto si rese protagonista di molte violenze e malvagità che si protrassero per tutto il 1848 fino a quanto la guardia nazionale di Agrigento non intervenne per debellare e giustiziare il suo capo, il 6 gennaio 1849. La banda, capeggiata da un certo Alfonso Cannistraro, era composta da un centinaio di armati provenienti anche da Grotte, Favara e Comitini.
La guardia nazionale di Agrigento, il cui intervento era stato invocato dalla popolazione locale,
venne ad Aragona guidata da Francesco Sala e imprigionò il Cannistraro e lo fucilò davanti al palazzo principe. Di questi avvenimenti ci parla lo storico agrigentino Giuseppe Picone che visse in quegli anni.
« In Aragona, egli scrive, comune ad otto miglia da Girgenti, una mano di briganti, fin dall’inizio del 1848, aveva preso il sopravvento sul popolo, e, con alla testa un giovane contadino nominato Cannistraro, commetteva qualunque specie di misfatto. La buona gente avvilita, insultata nell’onore, spogliata dall’avidità di quella bruzzaglia da galera, chiese soccorso a Girgenti, e fu per tanto, che il 6 gennaio, con un freddo inconsueto, partiva una compagnia della nostra guardia nazionale, capitanata dal cavaliere Francesco Sala, con due pezzi di artiglieria da campagna, a rimettervi l’ordine già da più tempo perturbato, anzi annullato.
E questo fu rimesso, mercè il coraggio e la prudenza dei capi. Il Cannistraro, in men di ventiquattr’ore dall’arrivo dei Girgentini, fu fucilato sotto i balconi del palazzo del principe, e furono sbandati i suoi compagni ». Un’altra testimonianza relativa agli avvenimenti della banda di Alfonso Cannistraro ci è data dalla relazione che venne fatta sulla spedizione della guardia nazionale ad Aragona nella quale si legge:
« Con il rivolgimento politico del 1948, sin dal febbraio dello stesso anno, alcuni tristi flagellarono Aragona con molte violenze, questi malvagi, le guardie municipali, e a capo di esse un Alfonso Cannistraro ancor più tristo dei tristissimi compagni suoi (Quivi non fu mai istituita la guardia nazionale). Il numero dei malvagi avanzava a più centinaia e commettevano gli eccessi più scandalosi. Erano formate da gente collettizia dei Comuni di Grotte, Favara, Comitini. Il 4 gennaio 1849 partiva la spedizione alla volta di Aragona, e siccome si credette conveniente incontrare di notte quella masnada si occupò il Comune.
Le dianzi 5 gennaio han mandato un messaggio ai ribaldi che dal loro campo si sciogliessero ed un campo aveano essi nella selva dei PP. Cappuccini, che il capo dei municipali Alfonso Cannistraro si arrendesse. Il 5 gennaio stesso viene occupato il campo ed arrestato Cannistraro. Il 6 gennaio chiedeva il giudice locale di interrogare il capo dei Municipali e gli si spedia accompagnato dalla forza creata nello stesso giorno ad Aragona.
Il popolo era furente e nell’alta sua ira irrompe avverso lo sciagurato,
lo strappa a viva forza da mano di chi lo conduceva, lo traduce innante il Palazzo del Principe, e in men che uom non pensi, il fa cadere a cento colpi di moschetto. Miserando spettacolo! Ma spettacolo di esempio salutare; era egli quell’infame che mise a taglia un comune, era egli quel popolo che vide contaminata la vergine onesta e i talami innocenti.
Era egli quel popolo che avrebbe fatto macello degli altri suoi ribaldi se a ciò virilmente non si fosse opposta tutta la forza comandata dal prode e sagacissimo Capitano Francesco Sala. Quel giorno stesso (6 gennaio) il Consiglio Civico e i notabili del Comune finivano di organizzare sotto la direzione del sig. Sala tre compagnie di guardia nazionale ».
La guardia nazionale ad Aragona veniva costituita ad opera dei fratelli Di Benedetto coadiuvati dal dott. Don Alfonso Calleya, da don Giuseppe Guerrera, dal barone Antonino Rotulo e da don Antonino Maggiordomo che veniva nominato anche a presiedere il Comune.
Dopo il fallimento del-la rivoluzione siciliana i Borboni tornarono al potere ed iniziarono le persecuzioni diffondendo il terrore tra la popolazione. I fratelli Salvatore e Giulio Di Benedetto, colpevoli di aver capeggiato e fomentato la rivolta, furono processati e condannati al carcere per undici mesi. La loro prigionia fu resa ancor più dura dalle molte vessazioni che furono esercitate contro tutta la loro famiglia. Le persecuzioni furono estese anche agli altri rivoltosi, ma non esiste alcuna testimonianza di quello che dovettero subire così come non esiste alcuna testimonianza sui rapporti che intercorsero tra i fratelli Di Benedetto e la banda di Alfonso Cannistraro.
FRANCESCO GRACEFFA