di Francesco Paolo Diana (1912)
Chi oggi vede la Piazza del Municipio di Girgenti, col suolo ben pavimentato, circondata di palazzi con facciate pulite, arieggiata e inondata di sole, non può immaginare l’aspetto deforme e triste, che aveva prima del 1860.
Quel piazzale, che si denominava Piano San Domenico, era ingombrato da fabbricati sconnessi e di vecchio colore, che costituivano una confusione di curve, di angoli e di stretti tortuosi, i quali lasciavano angusti passaggi per le vie adiacenti. I nostri antenati non avevano il sentimento del decoro della città e il senso dell’estetica; non esisteva nel loro cervello l’idea di dare a certi luoghi deformi e antigienici decoro, aria e luce, fattori di civiltà e di salute.
Ti presento all’immaginazione, o lettore, il piazzale San Domenico, com’era prima del 1860, avvegnaché nessuno, per quanto ne sappia, ce ne ha tramandata la memoria.
Erano dal lato nord, e sono tuttavia esistenti, la grande chiesa di San Domenico, la più grande delle numerose chiese di Girgenti, dopo quella monumentale di San Gerlando, il convento dei monaci domenicani, trasformato in palazzo del municipio dopo la soppressione degli ordini religiosi, e le due viuzze delle Orfane e del Teatro.
Dal lato est erano il convento dei padri filippini e due botteghe contigue, che attraversavano la via principale presso la casa Sileci, tra il vicolo Vullo e il muro del convento, e che lasciavano un angusto passaggio. A sud-ovest esistevano la chiesa di San Sebastiano e il fabbricato di San Giovanni di Dio, il quale pure si denominava del Trentatré, che si estendevano sino alla casa originaria di Poli, oggi grande palazzo, che fu proprietà del senatore De Luca, e formavano un angolo e uno stretto, che sboccava nella via Sferri, oggi Garibaldi. In quel luogo erano due chiese, due grandi conventi e un ricovero di donne; che prima era un conventino dei padri Agostiniani.
Chi conosce il numero sproporzionato delle chiese e dei conventi di Girgenti, che prima del 1860 contava appena 20.000 abitanti, ne rimane sorpreso; ma la sorpresa cessa, quando si pensa che nei nostri antenati il dominio dell’idea religiosa era portato sino alla esagerazione. Gran parte della vita dei cittadini si svolgeva in quel tempo intorno alla chiesa; il loro perfezionamento morale si faceva consistere nello spegnere i desideri dell’anima verso le cose sensibili. L’indirizzo dell’educazione, in generale, era religioso.
Il fanciullo doveva confessarsi, digiunare, imparare il catechismo, recitare tutte le sere il rosario con i suoi genitori, e il lunedì non era ammesso andare a scuola, se non presentava al precettore il biglietto del confessore, attestante che la domenica si era confessato.
Numerosi operai e contadini, nel tempo della quaresima, per espiare con la penitenza i loro peccati, si chiudevano per due settimane nei conventi di San Vito e dei Cappuccini, con i padri missionari, che ordinariamente erano gesuiti o liguorini, e ne uscivano in processione, a due a due, convertiti, taluni chiedendo continuamente ad alta voce perdono dei peccati commessi, gli altri a capo chino e con le braccia conserte, percorrendo, accompagnati dai padri spirituali, la via maestra.
Prima del 1860, esistevano in Girgenti trentacinque chiese, nove tra conventi e conventini e quattro monasteri. Non vi erano case per scuole, eccetto il seminario dei chierici, non edifici per le pubbliche amministrazioni, che del tutto mancavano; non si curava lo sviluppo materiale della città, che giaceva in un com-3 abbandono; si edificavano invece chiese e conventi contigui o alla distanza di pochi metri. E i conventi rigurgitavano di monaci, i monasteri di monache e di educande, la città di preti.
La Chiesa di San Sebastiano, che aveva la porta verso il piano che ne conserva il nome e occupava gran parte del piazzale, fu demolita nel 1838; il fabbricato di Giovanni di Dio, un tempo conventino detto di San Sebastiano, che fu abolito nel 1 785, e adibito prima per ricovero delle orfanelle di San Giovanni di Dio e come asilo di povere donne nubili di civile condizione, fu espropriato per deliberazione del consiglio comunale del 1 Luglio 1864, demolito, rifabbricato, allineato con la via Garibaldi, e trasformato in locale scolastico, nel quale presentemente é un corso di scuole femminili elementari; il convento di San Domenico fu nell’interno ampliato di molte stanze, tra le quali un’aula magnifica le adunanze del consiglio comunale, abbellito e adattato a casa del comune; le botteghe sopra accennate, che attraversavano la via, tra il vicolo Vullo e muro presso la porta d’ingresso del convento dei padri filippini, furono demolite nell’anno 1863, e il convento fu ingrandito del piano superiore, nel quale vi é presentemente l’Istituto Tecnico Michele Fodera.
Piazzale di San Domenico, che era prima del 1860 quasi chiuso con edifici di sapore medioevale, ora é aperto e spazioso, ha l’aspetto di piazza moderna, e l’aria, patrimonio prezioso di ogni comune, vi circola benedetta dal raggio del sole.
Ai lati della porta d’ingresso della casa comunale si vedono due lapidi di marmo commemorative. Leggi, o lettore, i nomi che su di essa sono incisi.
Quella a destra fu posta nell’anno 1881, e ricorda i nomi di Gerlando Bianchini, avvocato Giovanni Gramitto, dell’avvocato Francesco Deluca, di Mariano Gioeni e di Vincenzo Barresi, i quali, quando fu spenta la rivoluzione siciliana 848, non furono compresi nel decreto di amnistia per i reati politici e si rifugiarono: i primi tre a Malta, Gioeni a Genova, e ignoro dove Barresi sia andato a finire i suoi giorni di esilio.
Furono cittadini intelligenti e ardimentosi, amanti della patria e della libertà, i quali osarono lavorare per la sua redenzione, mentre ava il sospetto e feroce Borbone, e come tanti altri patrioti morirono lungi dalla patria amata e dai cari congiunti: Bianchini vecchio e oppresso si avvelenò nel marzo del 1852, Gramitto morì a 1 Agosto del 1850, Deluca a 22 Novembre l853 e Gioeni in Genova.
Nell’altra a sinistra, che fu posta a 14 Marzo 1887, sono incisi i nomi di Alfonso Contino, di Giuseppe Noto Millefiori, di Carlo Palazzotto e di Antonino Quartararo, i quali, insieme con altri soldati italiani, nel 26 Gennaio 1887, in Abissinia, capitanati dal colonnello De Cristofaris, rinnovando la gloria dei trecent delle Termopili, pugnando da prodi, lasciarono la vita a Dogali.
E Girgenti, orgogliosa di questi suoi figli, ha voluto con quelle due lapidi tramandare loro nomi alle venture generazioni.
Fra i nomi ricordati in quelle due lapidi, merita un ricordo speciale Gerlando Bianchini, per i servizi resi a Girgenti nella rivoluzione siciliana del 1848 e per altre sue benemerenze.
Egli era uomo di senno energico ed aveva l’aureola di soldato valoroso. Nel 1806, giovanissimo, era stato per il suo valore, nominato capitano dei granatieri e godeva la stima ed il rispetto dei suoi superiori. In quell’anno, combatté da prode a Gaeta, bombardata dalla flotta francese, sino a che, ferito alla testa da una scheggia di bomba, fu costretto a lasciare il posto di combattimento.
Dopo la capitolazione di quella fortezza, fece ritorno a Girgenti. Le autorità locali governative, conoscendone il valore, gli affidarono il pericoloso e difficile incarico di sottrarre Girgenti e i comuni circonvicini alle rapine e alle crudeltà della terribile banda di briganti, capitanata dai fratelli Saieva.
Si mise all’opera, e in pochi mesi consegnò quei manigoldi alla giustizia punitiva, e furono tutti decapitati.
Nel 1848, che fu anno di anarchia, di truci delitti e di lutti, nel quale si era invocata dai cittadini la sicurezza di vivere e di godere dei propri beni, egli, col suo senno e con la sua autorità, concorse a mantenere l’ordine pubblico nella nostra città.
Nel mese di Gennaio di quell’anno torvo, per prevenire i disordini della plebe, che agognava rapine e saccheggi e il sopravvento sulle classi civili, le più elette intelligenze della nostra città si costituirono in comitato, e lo acclamarono presidente. Il popolo lo acclamò generale e con questo titolo veniva generalmente nominato.
Il comitato venne diviso in sottocomitati, ai quali vennero affidati i diversi servizi della cosa pubblica, e Bianchini fu l’anima e la mente direttiva di ogni decisione.
Il primo decreto che emise, come presidente del comitato, fu quello di evitare, in quel tempo di lotta contro la delinquenza, i furti, ai quali miravano gli ingordi malviventi; e ordinò che il furto sarebbe stato punito con la pena di morte. E il domani di quel decreto furono trovati due uomini uccisi, presso la chiesa di San Francesco di Paola, sul petto dei quali era una striscia di carta, su cui stava scritto: Ucciso perché ladro.
E un altro esempio di giustizia spicciativa, dato in quei giorni torbidi, elevò il prestigio delle autorità, che era assai scosso, ispirò lo sgomento negli animi dei facinorosi, e rimise per alquanto tempo l’ordine e la tranquillità nel comune. Abitava nella casa dirimpetto il palazzo Panitteri, ora di Giudice, nella via Atenea, un vecchio e buon sacerdote di nome Fardella. Non aveva parenti e viveva con un servitore .
Era ritenuto ricco e, a scopo di furto, venne di notte tempo barbaramente assassinato nella propria abitazione e derubato del denaro e degli oggetti preziosi, che teneva in casa. Fatto giorno, la notizia di quel crudele assassinio si sparse celermente per tutta la città, che ne restò sgomentata e commossa a dolore. Si scopersero gli assassini, che erano il servitore, il quale era fuggito, e due girgentini di cognome Romano e Carrabba: si trovarono gli oggetti rubati e il denaro, e gli assassini furono arrestati. Accertata in modo assoluto la prova del reato, si riconobbe l’inutilità del processo e i due arrestati furono condannati a morte.
Si riunì subito tutta la guardia nazionale; i condannati furono condotti nella chiesa di San Giovanni, che esisteva dov’è attualmente l’atrio dell’ospedale civile. Si invitarono per assisterli i primi due sacerdoti che si incontrarono per via, e verso l’ora di mezzogiorno, mentre si celebravano le esequie, nella chiesa di San Francesco di Assisi, per il sacerdote assassinato, la campana della chiesa di San Giovanni suonava a lenti rintocchi l’agonia dei condannati, che furono condotti fuori Porta di Ponte, presso la chiesuola della Madonna della Grazia, dove vennero fucilati da tutta la guardia nazionale. E l’esempio fu efficacissimo. La legge non permette ai giorni nostri questi esempi di giustizia punitrice, ma in certi casi sarebbero desiderabili.
L’anarchia, intanto, in tutta la Sicilia era al colmo. Nessun cittadino era sicuro della sua persona e delle sue sostanze, perché si consumavano giornalmente ed impunemente ogni sorta di reati. E il re Borbone, profittando del disordine che era in tutta l’isola, nel mese di Aprile 1849, mandò Filangieri con un esercito per riconquistarla. Catania resistette, ma invano.
Le altre città, e tra queste Girgenti, furono sollecite a spedire commissioni per dichiarare la loro sottomissione. Palermo voleva resistere; sapendo che Bianchini si trovava in quella città, fu dal popolo palermitano acclamato presidente del comitato di guerra, per opporlo a Filangieri, e condotto in carrozza, con vivo entusiasmo del popolo, per le vie.
Ma egli, conoscendo il disordine che era in ogni cosa e i tradimenti che covavano, conobbe l’inutilità della resistenza contro un esercito ben disciplinato ed agguerrito, ed emigrò a Malta, dove, solo, lontano dalla patria e dai suoi e stanco della vita, si avvelenò