Agrigento da me perduta due volte!
Manco da Agrigento dal 1964 anno in cui moltissimi frequentatori di questo sito non erano ancora nati. Nelle settimane scorse ho avuto la possibilità – grazie a FB – di avere intensi contatti con molti miei concittadini e ne sono stato felice. Mi sono sentito quasi rinnovato e tanti momenti degli anni che vi ho trascorso sono tornati alla mia mente. Ne ho fatto ricordi che mi ha fatto piacere scrivere e comunicare. Fino a quando i ricordi erano innocui bozzetti di questo o quel personaggio, questa o quella macchietta che Agrigento ha avuto come tutte le città, l’accoglienza è stata buona, positiva, quasi commossa. Sono stato invitato a continuare a scrivere a ricordare altro e così ho fatto per qualche tempo.
Quando dai ricordi sono passato ai miei giudizi sulla Agrigento di ieri e di oggi, sulla forza reazionaria che la blocca e che le impedisce di crescere, ho notato un raffreddamento dei miei concittadini e qualche presa di distanza. Ho sostenuto che Agrigento che cade a pezzi piuttosto che spendere per rimuovere le macerie che la stanno sommergendo dovrebbe farsi un nuovo piano regolatore basato sul focus della Valle dei Templi.Ad Agrigento qualcuno ha riservato il destino di potersi espandere verso Aragona. Io sono convinto che così come in tutte le città d’arte i monumenti ed i templi ne costituiscono il centro anche i templi potrebbero esserlo. Si potrebbe cominciare con lo spostare il Municipio, la Prefettura, la Questura accanto al tempio della Concordia ed agli altri templi. Naturalmente si dovrebbe costruire senza cemento in arenaria e pietra. Questa idea è sembrata folle a quanti si sono pronunziati. Discutendo di questo ho scoperto che la Valle dei Templi è pertinenza dell’Ente Parco e che gli agrigentini per accedervi debbono pagare il biglietto. Ho detto che considero l’Ente Parco e lo Ato vere e proprie disgrazie che affliggono la città e la sfruttano piuttosto che aiutarla. Guardate il costo dell’acqua e della immondezza che ha immiserito e reso disperati gli strati più poveri della popolazione.
Insomma ho toccato tasti “sbagliati” e come si dice politicamente non corretti. Non si mettono in discussione Ente Parco ed Ato che sono opera della classe politica. Mi rendo conto della radicalità della mia proposta (sciogliere l’Ato, sciogliere l’Ente Parco) ma la reazione è stata quasi incollerita. Qualcuno si è ricordato che sono “comunista” e che starei bene nella Russia di Stalin e nella Cina di Mao. Certo anche se detta con finalità offensiva non considero offensivo essere definito seguace di Stalin o di Mao anche se non lo sono pur considerandoli immensi personaggi della storia della liberazione umana. Ho avuto anche il torto di attaccare il ruolo della Curia Vescovile che io considero la catena che tyiene incollata Agrigento al suo passato e perciò alla sua miseria.
Per farla breve questo mio revival con la mia città è stato un disastro. A tanti giudiziosi benpensanti sono apparso certamente come un pazzo da catena per le mie idee imbarazzanti sulla città nella quale da la parte povera e la parte borghese si incontrano soltanto come l’una subalterna e soggetta all’altra. Sono stato gentilmente avvertito che ero fuori tema!!!
L’unica speranza che Agrigento ha avuto di mettere insieme borghesia e popolo povero è stato il Fascio dei Lavoratori fondato da Francesco De Luca nel 1892. Ma, come sappiamo De Luca è finito in prigione ed i poveri tutti all’estero. Ci fu dopo la repressione crispina dei fasci la grande emigrazione oltreoceano degli agrigentini e dei siciliani. Emigrazione dalla quale nessuno è tornato tranne qualche anziana coppia di vecchi per rivedere la terra natia e sfuggire finalmente alla terribile macchina di sfruttamento che gli States sono stati e continuano ad essere per gli emigranti. Ricordo che all’inizio del secolo scorso negli USA furono linciati ed impiccati oltre mille italiani. Per puro odio razziale come quello dei giovani bergamaschi che cospargono di benzina di notte un immigrato e gli danno fuoco.
In conclusione mi dispiace molto che non sono risultato conforme ai requisiti per riuscire gradito ai miei miei concittadini. Ma io sono diventato vecchio senza diventare mai giudizioso. La mia corda pazza non si è mai spezzata. Me ne scuso con quanti la ritengono scandalosa ma è troppo tardi per me riciclarmi in un virtuoso benpensante. Non sono mai riuscito ad esserlo!
1943
Nel luglio del 1943 avevo appena sette anni ed in un pomeriggio caldissimo stavo appoggiato tra le gambe di mio padre seduto sotto un albero di mandorlo. All’albero era appesa una sacca con del pane. Di fronte a noi stava la grotta dove eravamo ricoverati sfollati da Agrigento bombardata dal mare da una innumerevole quantità di navi da guerra di tutte le dimensioni. M io padre era inquieto e mi intimò di rientrare nella grotta dove stava mia madre incinta ed in attesa un bambino da un giorno all’altro. Io resistevo perchè nella grotta il caldo era terribile e sapeva di umido. Mio padre mi mollò uno schiaffo e I riuluttante, obbedii. Ad un tratto sentimmo l’aria lacerata da una rumore insolito, sinistro. Una sorta di trictrac agitato a tutta velocità. Non facemmo in tempo ad alzare gli occhi che una pietra rossa era caduta tra le gambe di mio padre proprio nel posto dove io ero seduto dopo avere colpito la sacca del pane sbriciolandola. Mio padre prese in mano la pietra ma la dovette buttare subito. Si trattava di un pezzo di ferro incandescente dal peso approssimativo di almeno un chilo! Se m i fosse caduto addosso mi avrebbe certamente fatto molto male. Forse mi avrebbe ucciso! Due o tre notti dopo fummo svegliati da un rumore sordo persistente. Era una interminabile fila di soldati che ci passavano vicinissimi proprio a pochi metri sfruttando un vecchio sentiero. Passarono per ore ed ore fino a quando cominciò ad albeggiare. Io fui allontanato dalla grotta dove mia madre stava dando alla luce mio fratello Fortunato. Era il 10 luglio 1943
Resoldor, ah come respiro
Pietro Ancona Resoldor, ah come respiro! avevo una diecina d’anni quando il Dr.Rampello da Raffadali ottenne di aprire una farmacia in Corso Garibaldi nei pressi della piazzetta che dava sul Municipio Vecchio. In Via Garibaldi alle spalle della baracchetta di rivendita alimentari gestita da mio padre c’era anche l’osteria del mio amico Tony Cucchiara, mio coetaneo, che presto avrebbe preso l’avventurosa strada del mondo dello spettacolo come cantante ed intrattenitore. La putia di vino con cucina era gestita dalla madre di Tony, una signora di cui ricordo due grandi occhioni in una faccia rotonda e generalmente severa. Il papà di Tony era fontaniere al Comune.
Tony aveva due sorelle, due distinte signorine che ogni tanto venivano a trovare la madre e qualche volta si intrattenevano per un pò. Dunque il farmacista Rampello aveva il problema di sistemare gli armadi e tutte le medicine ed io mi prestai. Lo aiutai per alcuni giorni a mettere tutto a posto eseguendo le indicazioni che il farmacista mi dava. Nel sistemare gli scaffali mi capitavano davanti un gran numero di graziose scatolette di latta di caramelle per la gola. Erano le famose Rosoldor che prima si chiamavano Soldor. Io ero attirato moltissimo da queste scatoline di latta dipinta a colori vivaci e con la scritta “Ah, come respiro!”. L’attrazione era tale che mi indusse a rubarne una.
Cosa che non sfuggì allo occhiuto farmacista che mi osservava di sottecchi. Mi lasciò finire il lavoro che stavo facendo e poi mi chiese di rimettere a posto la scatolina. Cosa che io feci avvampando di vergogna e quasi sentendomi male. Il farmacista che era avarissimo (forse come tutta la categoria) mi offrì delle caramelline per la gola sfuse che io rifiutai. Non vidi l’ora di andarmene ed infatti me la svignai subito a testa bassa. Ero anche terrorizzato dalla idea che il farmacista raccontasse la cosa a mio padre. Ad essere sincero le caramelline non mi interessano per niente. Voleva la scatoletta! E’ trascorso un mucchio ditempo ed ho dimenticato il nome di tante cose. Ma le Resoldor, ah come respiro non le ho mai dimenticate!
U babbaluciaru
Il gruppo è una zona dedicata ai ricordi, ai sentimenti, alla sicilia che c’era e non c’è più a tante persone che abbia
mo incontrato e sono state buone con noi e ci hanno aiutato magari facendoci credere in noi stessi alla storia ed alla cultura della Sicilia e di tutto quello che abbiamo visto ed imparato ed amato in Italia.
U babbaluciari è la zona di San leone in cui sfocia il fiume Akragas ricchissima di babbaluci. Il fiume una volta era pieno di anguille di una qualità buonissima. Mio zio Diego andava a pescarle.
Memoria non vuol dire rimpianto. Sto molto meglio adesso dai tempi che ricordo. Non vorrei tornare indietro ed il ricordo ha per me il valore di un riordino dei miei sentimenti e di cose che mi porto dietro da tutta la vita.
babbaluciaruLa ricotta alle sei del mattino
Ero un bambino di otto o nove anni quando la mattina prestissimo andavo a comprare la ricotta con la quale facevo colazione. Mia madre mi dava una gavetta e venti o trenta lire al massimo ed io andavo non molto lontano da casa nel luogo dove la ricotta veniva creata tutte le mattine. Il pastore che la produceva era un omone di carnagione scura piuttosto obeso che attendeva al suo compito con grandissima serietà quasi fosse un rito. In un gran pentolone metteva il latte ed il caglio e si aspettava che si compisse il miracolo. Tutti i bambini come me aspettavano attorno al grande pentolone che affiorasse dall’acqua lattiginosa che sarebbe diventata siero lo strato di morbida e bianchissima ricotta.
Questo miracolo avveniva puntualmente tutte le mattine ma lo attendevamo senza la certezza che accadesse e quindi con una certa quale trepidazione. Ad un certo punto nel silenzio generale dal fondo del pentolone circondato dalle teste dei bambini intenti cominciavano a vedersi delle lucette, dei fiocchi bianchi, come di una nevicata che accadesse in un cielo capovolto, come se la neve ascendesse dal basso e non dal cielo. Era uno spettacolo sempre nuovo e sempre bellissimo che durava un paio di minuti. Quando la ricotta era tutta affiorata il pecoraio ci riempiva le gavette (ce n’erano tante in giro allora) o i contenitori di siero e ci dava quanta ricotta chiedevamo. Aveva cucchiaioni di diversa grandezza: da cinque lire, da dieci, da venti. Si aggiungeva al siero che non pagavamo la ricotta richiesta. Giunto a casa mia madre mi dava un grosso pezzo di pane che rompevo nel siero e nella ricotta e mangiavo tutto. La ricotta era sempre buonissima e sapeva anche delle buone e ricche erbe dove il pecoraio pascolava le sue generose capre o pecore..
Beppe Grado
Quando arrivai alla Camera del Lavoro di Agrigento vi trovai un altro socialista: si chiamava Beppe Grado e sarebbe diventato una persona assai importante per me. Avremmo condiviso le battaglie dei lavoratori ma anche quelle dentro il Partito essendo entrambi autonomisti lombardiani in pratica della sinistra del Partito non vecchettiana. Beppe Grado fu il mio educatore. Il suo principio basilare era: diritti e doveri. I lavoratori hanno diritti ma hanno il dovere di essere coscienziosi attenti e debbono fare quanto loro stessi sanno di dover fare. Era un riformista vero ma non nel senso che si da oggi al termine che è aberrante. Il suo riformismo era la crescita di diritti e di potere dei lavoratori con il metodo non violento della contrattazione e della accumulazione di sapere e di esperienza. I lavoratori si debbono guadagnare il loro salario e debbono migliorare sempre se stessi. Beppe Grado era una forza della natura. Era un uomo scuro di carnagione massiccio forte. Aveva folte sopracciglia nerissime e la testa assai stempiata.
Una volta, durante il terribile sciopero dei lavoratori della Montecatini di Porto Empedocle,mi sono trovato in difficoltà. Ero circondato da poliziotti capeggiati da un commissario che evidentemente aveva in progetto di arrestarmi. Beppe Grado superò la barriera dei poliziotti e si venne a mettere tra me ed il Commissario che quasi mi infilzava le dita negli occhi. Riuscì a farmi uscire indenne e libero dalla stretta in cui ero. Con lui che era consegretario dei braccianti (i socialisti non potevamo che essere soltanto consegretari e difficilmente o mai segretari) organizzammo la marcia Palma di Montechiaro-Agrigento dei braccianti contro l’abolizione della presuntività delle giornate lavorative negli elenchi anagrafici,. Si unirono a noi due eminenti personalità della DC gli onorevoli Rubino e Trincanato persone che ricordo sempre con stima perchè erano davvero dalla parte della giustizia sociale. Beppe Grado era di San Biagio Platani, un paesino distante alcuni chilometri da Casteltermini che a me sembrava tetro. Una sera dopo un giro di riunioni abbiamo fatto tardi e siamo finiti a casa sua. Non dimenticherò mai quanto ho gradito la frittata di patate ed uova che ci preparò la moglie di Beppe. C’era il buon odore delle patate fritte e delle uova prese fresche fresche nel retro della casa. Una frittata di patate ed uova era un pasto sostanzioso che non potevamo permetterci tutti i giorni.
gildo moncadaGildo Moncada
Negli anni del dopoguerra venne ad abitare ad Agrigento proveniente da una città del Nord la famiglia Moncada. Eravamo vicini di casa. Il personaggio più importante della famiglia era Gildo che era stato partigiano e comunista. Era mutilato di una gamba e usava una protesi. Era una persona piccola di statura, con i capelli ricci su una faccia dominata da due grandi occhioni con folte sopracciglia. Parlava in italiano scandendo bene le parole e aggrottando la fronte quando la risposta o quello che doveva dire lo impegnava. Era una persona serissima. Io ero molto attratto da Gildo che per me era un eroe che avevano combattuto gli odiati tedeschi. Il fatto che fosse comunista era da me percepito come l’appartenenza ad un qualcosa di autorevole, forte. Anche mio padre era comunista ma i fratelli Peluso da Caltagirone che avevano un magazzino di ceramiche dentro il Municipio vecchio lo indottrinavano all’anarchia Cosa per la quale io ero inquieto. .Erano anarchici e questo era per me qualcosa che andava molto oltre l’essere comunisti. Quando si univano a discutere con mio padre avevo l’impressione che cospirassero e che presto sarebbero arrivate le guardie ad arrestarli tutti. E questo un pochino mi spaventava.
L’usuraio
Avevo otto o nove anni Il mio povero papà venne a trovarsi in gravi difficoltà. Manteneva una famiglia numerosa. Io ero il più grande dei figli ma allora avevo soltanto dieci anni. Non sapendo più che fare si rivolse ad un signore che faceva notoriamente l’usuraio. Era questi un ometto agghindato con panciotto e bastone da passeggio. Aveva baffetti impomatati ed occhi grifagni, acutissimi, che sembrava volessero penetrarti. Mio padre aveva bisogno di 50 mila lire. Il signor S., l’usuraio, gliene diede in effetti 35 mila dicendo che alla scadenza mio padre avrebbe dovuto consegnarli 50 mila lire. Ricordo che quando mio papà tornò a casa con i soldi sembrava stravolto. Non riusciva a capacitarsi perchè non gliene fossero stati dati 50 mila come aveva chiesti per restituirne magari 65 mila! Ricordo che passò la notte insonne a tormentarsi, ad andare da una punta all’altra del catoio che abitavamo. Credo che le difficoltà di mio padre nascessero da tasse che avrebbe dovuto pagare da quando aveva una rivendita fissa di generi alimentari e di frutta e verdura. Dal maledetto giorno in cui mio padre ebbe i soldi dall’usuraio passarono due terribili anni per la restituzione del debito che intanto si era moltiplicato. L’usuraio viveva agiatamente succhiando il sangue a persone che avevano la sfortuna di dovere ricorrere a lui. Aveva tante proprietà. Ma era un tristo individuo solo schifiato da tutti.
Il meraviglioso vecchio di Naro con la lunga barba bianca!
Al ritorno dal servizio militare nell’aprile del 59 del millennio scorso Filippo Lentini mi convocò in Federazione proponendomi-ordinandomi di andare a lavorare alla Camera del Lavoro di Agrigento. Senza aspettare il mio
consenso aveva inviato una lettera a Santo Tortorici che ne era segretario generale. A me sembrava naturale riprendere la carica di segretario provinciale dei giovani socialisti che ricoprivo prima di partire per il servizio militare, mi sembrava una grossa ingiustizia e provai a ribellarmi nei limiti della disciplina interna del partito di allora. Ma il Partito fu irremovibile e fu così che diventai sindacalista a tempo pieno. Alla CGIL conoscevo già tutti perché da ragazzo avevo fatto i picchetti con gli edili a Porta
di Ponte. Ricordo che mi alzavo la mattina alle quattro per andarvi a distribuire tra gli operai i volantini del sindacato o del Partito.
Mi assegnarono subito ai pensionati. Io ero sconcertato! Ero un ragazzino!
Allora i pensionati non avevano il minimo che poi fu introdotto e fissato in 12 mila lire mensili e la stragrande maggioranza degli anziani che io conoscevo erano senza pensione. Per questi mi misi a lavorare assieme all’On.le Domenico Cuffaro che propagandava un suo disegno di legge per l’assegno minimo regionale ai vecchi senza pensione. Una cosa di grandissima valenza umanitaria che affrancò molti vecchi malandati dal chiedere l’elemosina davanti le chiese.
Alla Camera del Lavoro dove conobbi il grande amico della mia vita Giuseppe Grado che mi fu maestro e secondo padre mi presentarono al comitato direttivo dei pensionati dove all’unanimità mi accolsero come segretario generale della categoria.
La mia prima visita in provincia fu a Naro. La lega dei pensionati era un locale scuro enorme pieno pieno di centinaia di persone. Fui accolto all’ingresso da un vecchio compagno dalla lunghissima barba bianca che tra gli applausi di tutti mi condusse al tavolo da dove avrei dovuto fare la mia relazione.- Ero emozionatissimo ed affetto da una balbuzie di natura nervosa che riuscii a sconfiggere nel tempo e che intanto fronteggiavo sostituendo le parole che mi era difficile pronunziare con altre. La visita fu un successo! Quelle persone anziane capivano che io non sapevo niente dei loro problemi ma sentivano in me la voglia di fare di tutto per aiutarli. Così feci per loro e per tanti altri anziani. Riuscimmo con il grande Domenico Cuffaro che merita di essere ricordato come comunista umanista e benefattore a fare approvare la legge all’Ars. Poco dopo veniva approvata la pensione sociale a livello nazionale.
I Mazzarella
Non so ora ma una volta ogni paese aveva una famiglia più o meno grande di macellai. Agrigento aveva la famiglia Mazzarella. I tre o quattro macellai di Agrigento scannavano in comune una vacca e un maiale se lo distribuivano e provvedevano alla rivendita. Tutto il consumo settimanale della città che se lo poteva permettere non andava oltre. La macellazione avveniva di venerdì nel Macello dell’Addolorata. Lo stesso giorno di venerdì si metteva in vendita u sancunazzi (sanguinaccio). U sancunazzu veniva preparato con le stesse budella dell’animale. Ancora caldissimo, io ne compravo per quanto mi dava mio padre ( venti lire, massimo cinquanta lire). Era tanto caldo che me lo passavo da una mano all’altra per non scottarmi. Era una prelibatezza!
Un ramo povero della famiglia Mazzarella abi
tava a Piano Re. Una famiglia con molti ragazzi credo cinque se mal non ricordo. Il venerdì i ragazzi aspettava il padre di ritorno dal Macello allo inizio della scalinata di Via Re e lo aiutavano a portare un pesante pentolone pieno di interiora. Il Mazzarella povero aiutava la macellazione dell’animale e ne aveva in compenso le interiora. Arrivato in casa il pentolone di “quadume” veniva ripulito a dovere dalla severa signora Mazzarella e dalle figlie e cucinato a dovere. Mazzarella padre si collocava con esso all’ingresso del Vecchio Municipio dentro il quale in un cortile c’era una vecchia e buia putia di vino dove si beveva il forte vino gessato del Cannateddru in bicchieri rigati da un quarto di litro. I bevitori si fermavano a comprare da Mazzarella-padre un pò di quadumi e poi lo accompagnavano con il vino dentro la putia.
Nel dopoguerra, mentre tutti i bambini del quartiere San Giacomo eravamo magrolini, palliducci e con le alucce sporgenti dalla schiena, le ragasse Mazzarella erano floride, rosee e scoppiavano di salute. A differenza di noi che difficilmente avevamo qualche proteina a pranzo si nutrivano dell’abbondante quadumi guadagnato dal padre.
In seguito una delle ragazze andò sposa ad un vicino di casa che noi chiamavano l’ingignireddru (era geometra) ed il figlio maschio si impiegò all’ESA e cambiò completamente la sua vita come voi potete ben pensare. Gli stipendi dell’ESA sono sempre stati generosi!
Il padre di Fausto D’Alessandro
era Direttore del Consorzio Antitubercolare di Agrigento una organizzazione sanitaria preposta a fronteggiare il grave fenomeno sociale della tubercolosi. A volte accompagnavo Fausto a trovare il padre e mi capitava di vedere nelle sale del Consorzio diecine di giovani in gran parte provenienti dalla provincia. Apparentemente sembrano sani, ragazzi alti e di forte struttura, ma a guardarli bene si capiva che non stavano bene. Molti avevano un rossore innaturale ai pomelli della faccia scavata. La tubercolosi era provocata dalla fame, da prolungati periodi di denutrizione, dall’assenza di proteine nell’alimentazione e negli alloggi malsani, spesso catoi senza sole e con i muri anneriti dalla umidità. Il dr.D’Alessandro si occupava dei suoi malati usando qua nto era nelle conoscenze e nelle possibilità della medicina. Era una persona straordinaria che viveva intensamente la sua missione sociale di medico. Molti malati avevano i polmoni scavati da ampie caverne di tisi, altri venivano attaccati alle ossa. Soltanto la penicillina che all’inizio chi poteva si faceva mandare dagli USA ed il miglioramento delle condizioni ambientali e di nutrimento avrebbero debellato la tisi.La TBC durò molti anni e mieteva la nostra gioventù. Era straziante vedere i segni terribili della TBC nelle ragazze. Ragazze che si sentivano condannate ed avevano perso ogni speranza. Ora molto triste incontrare i malati e leggere lo spavento nei loro occhi. Qualcuno a volte era accompagnato dalla madre. Eravamo al fondo di un abisso di miseria, un fondo in cui quei giovani sfortunati sarebbe rimasti incastrati.
Giovanni Taibi
Nel PSI ci sono sempre stati tipografi, ferrovieri, maestri di scuola, contadini….. Giovanni Taibi era un artigiano tipografo. Aveva la tipografia consistente in una stanza a pianterreno di tre o quattro metri quadrati che prendeva aria e luce dalla porta in Via Porcello una strada che sovrasta via Atenea dalle parti di Porta di Ponte. La piccola rotativa era collocata al centro della stanza.
Dall’altro lato di via Atenea c’era nel 55 la Federazione Socialista che di sera veniva frequentata dai compagni.
Al ritorno da Perugia, ritorno un poco ritardato dalla mia involontaria deviazione a Caserta, riferii ai compagni sul Convegno ed anche la mia meraviglia per avere sentito dire a Rodolfo Morandi questa frase. “disponiamo noi oggi di esperienze capaci di modificare le latitudini dottrinarie del socialismo”. Non capivo che cosa volesse dire con le latitudini. Perchè modificarle? Non siamo forse marxisti? Avevo 19 anni e non ero affatto disposto a mettere in discussione le cose nelle quali credevo. Ero anche molto settario ed assai chiuso ideologicamente.
Nessuno dei compagni ai quali mi rivolsi per avere lumi sulle latitudini di Morandi seppe darmi una risposta convincente. Io continuavo a chiedere. Una sera, Giovanni Taibi mi disse con fare misterioso: Pietro viene fuori che ti debbo parlare. Mi portò nel vicolo accanto e mi disse: io lo so cosa voleva dire Rodolfo Morandi…. Voleva dire che dobbiamo tornare ad essere autonomi dai comunisti… Rimasi assai turbato da questa spiegazione anche perchè a quel tempo la parola “autonomia” era parola “signaliata” molto molto criminalizzata. C’era di mezzo l’unità della classe operaia e l’idea che ci avevano inculcato secondo la quale i socialisti eravamo il reparto degli alleati alla classe operaia, il partito che raccoglieva l’artigianato i contadini etc….
Restai assai confuso.
L’anno successivo ci sarebbe stato il ventesimo Congresso del PCUS e poi il Congresso di Venezia del PSI. Io seguii la corrente autonomista del Partito fino alla sconfitta di Riccardo Lombardi. In effetti il PSI autonomo riuscì a dare all’Italia una stagione di riforme di strutture. Riforme che poi sarebbero state restituite da un altra famiglia di centro-sinistra quella dei D’Alema Veltroni. Lo Statuto dei diritti dei lavoratori fu figlio della stagione 63/70 del centro.-sinistra e tante altre cose come la scuola media unificata, il divorzio, la riforma sanitaria, i diritti sindacali.
Ora sono tutte macerie avvelenate dalla grande degenerazione che hanno subito prima il PCI e poi il PSI.
