Nel Quattrocento era fiorente in Girgenti — oggi Agrigento — la colonia ebraica. Essa, che costituiva la quinta parte della Città, si ridusse, sotto Re Alfonso, alla decima parte. La colonia ebraica abitava il proprio ghetto o quartiere, in quella parte di Agrigento detta «terra vecchia», cioè il nucleo più antico, che comprendeva la cittadella, la Cattedrale (fino alla porta Beberria e tutta la parte occidentale della Città).
Nella parte alta, poco distante dalla Cattedrale, si ergeva il palazzo dei Chiaramonte, cioè lo Steri (1) (Hosterium) fatto costruire da Manfredi Chiaramonte Conte di Modica (nato in Agrigento da Marchisia Prefoglio e da Federico) dopo che la madre donò, verso il 1290, il proprio palazzo all’Ordine dei Cisterciensi per fondarvi il Monastero di S. Spirito.
Nella parte alta della «terra vecchia», oltre la Cattedrale e lo Steri, esistevano le Chiese di S. Giorgio e di S. Maria dei Greci (quest’ultima, prima Cattedrale agrigentina, costruita sulle rovine di un tempio ellenico) ed il palazzo della nobile famiglia Del Carretto.
Nella parte bassa, esistevano: il palazzo della nobile famiglia Montaperto, quello del nobile Matteo Pujades, l’altro di Arone de Anello, la Chiesa del SS. Salvatore e il palazzo di Don Gaspare de Marinis, Barone del Muxaro.
Il ghetto degli ebrei, si estendeva oltre il «Recinto del macino» (abolito nel 1862 per la costruzione del «Quartiere militare» di S. Giacomo, ora Distretto militare) ed oltre la strada Amalfitana (ora Via Sferri) che prendeva il nome dalla fiorente colonia di amalfitani che vi abitava.
L’edificio più importante del ghetto era « la Meschita» (ossia le pubbliche scuole degli ebrei) detta anche «Gema» perchè in essa vi era una specie di parlamento municipale» formato dai «capi delle famiglie nobili, e li dotti, ili facoltosi e capi di corporazioni di arte».
La Meschita era stata fatta costruire nel 1476 dal rabbino Salomone de Anello, «pio e sapiente ebreo agrigentino» che la dotò i libri e della rendita di cento fiorini annui. Ma poco dopo mori.
In seguito ad una disputa avvenuta fra G. Raimondo Moncada e gli ebrei, il Re ordinò al Capitano di Girgenti che a spese degli eredi di Salomone de Anello si fosse provveduto alla distruzione della «Meschita» e che i 100 fiorini fossero pagati come beneficio al Moncada. Ma ciò avvenne molto più tardi. Il Governo, spinto dagli ammutinamenti e dalle congiure che non cessavano, il 31 gennaio 1492 sottoscrisse l’editto per l’espulsione degli ebrei da Girgenti.
La Meschita, con atto del 4 dicembre 1492 x ind., venne venduta dai Proti e dai Majorenti al Magnifico Salvatore del Porto, barone di Sommatino, insieme ad altre terre, case e casaleni.
L’atto, rogato Notar Matteo Schillaci di Girgenti (Archivio Notarile di Agrigento), è molto interessante per quello che in esso si rileva sulla datazione del Palazzo Pujades, come appresso vedremo.
In questa parte di Agrigento quattrocentesca, detta «terra vecchia», venne costruito da Matteo Carnilivari — prima di venire in Palermo, cioè prima del 1487 — come ci ha fatto conoscere il Prof. Filippo Meli, il palazzo del Barone Muxaro (2), del quale avanti ho fatto cenno.
Dove precisamente sorgeva questo palazzo, ora non più esistente?
Per conoscerne esattamente il sito occorre fermare la nostra attenzione sull’atto del 22 febbraio 1605 del Notaro Bartuglia di Girgenti con il quale venne donato da Gaspare De Marinis (junior) al Capitolo ed al Clero della Cattedrale di Girgenti «il suo grande tenimento di case» sito in Agrigento «in contrada del Portulano», così come venne chiamata la zona che si estende- dalle attuali Via Orfane, Vicolo Teatro, Piano Barone e Piazza Municipio, dopo la costruzione del palazzo di Matteo Pujades, Portulano, in quella che nel Quattrocento era chiamata “contrata di la Ruga Reali”.
Si legge, infatti, in questo interessantissimo atto inedito, che ho voluto consultare all’Archivio Notarile di Agrigento, (Not. Bartuglia, Voi. 1601-1606, pagg. 25-26) che il «Civis Gasparis de Marinis” dona al Capitolo ed al Clero della Cattedrale Agrigentina… ejus tenimentum domorum magnorum intra decem corporibus comprehensis et computantibus duobus corporibus suso et juso noviter fabricatis predicto de Marinis et agregatis cum dicto tanto domorum cum duobus cisternis…
nec non lo tirreno vacanti seu casalino sutta li finestri di la sala: et lo pezo di la terra seu casalino verso punenti: undi al presenti passano li genti et quanto spetta ad esso gasparo la mito di lo quali verso tramontana confina con la vanella di larco: et laltra mita verso ponenti confina con li casi chi erano di augustino di pompeo fabricati supra lo arco: et pro uso di cortiglio si poza…
volendosilo chiudiri poza tirari lo muro di la cantonera di ditta casa suso et juso stesso fabbricata et aggregata: supra donata verso ponenti pro dicta sacra distribuzione et non altrimenti : situm et positum in civitate Agrigenti in contrata di lo portulano confinante cum parte occidentis cum dicto tenimento demorum olim dicti de pompeo: meridiei cum introytu comuni cum aliis domibus spectabilis» de Marinis cum domibus Catharinella de Castro: aquilonis cum plano tanti demorum spectabilis baronis terre di rafadali: poza dicta sacra distribuzioni aprirla a sua beneplacito conforme a li quontratti antichi”.
E’ chiaro, quindi, che il palazzo De Marinis, costruito dal Carnilivari, si affacciava sul «Piano Barone», cioè sul piano antistante il palazzo del Montaperto, barone di Raffadali (marito di Giovanna Abatelli), palazzo che il Sanfilippo ritenne essere l’attuale palazzo Torricelli, nel quale oggi si vede il portale a sesto acuto.
Esso, nel luglio 1517, venne dato alle fiamme e gravemente danneggiato, come ci fanno conoscere le cronache del tempo che narrano della rivolta popolare in Girgenti contro i partigiani del Moncada: «…Et neque jam duorum sanguine, espleti, cum caeteros apprehendere non putissent, novem domus hostiliter diripuere, inter quas antiqua et nobilis ejusque civitatis amplissima domus Petri de Montaperto, post direptam omnem suppellectile, combusta est».
II palazzo del Barone del Muxaro fu dunque, la casa del fu Avv. Gérlando Agozzino — oggi non esistente — che sorgeva al Piano Barone, di fronte al palazzo Torricelli, come scrive il Sanfilippo?
Il contratto inedito sopracitato, che chiarisce definitivamente la posizione topografica del palazzo di Gaspare De Marinis. Barone del Muxaro, costruito dal Carnilivari con il portale maggiore identico a quello del palazzo Abatellis di Palermo (stando a quanto si legge nell’atto pubbicato dal Prof. Meli) e che non lascia più dubbi sulla circostanza, da me altra volta affermata, che tale palazzo più non esiste, fa sorgere, però, un altro problema.
Se il palazzo del Montaperto, barone di Raffadali, sorgeva sul «Piano Barone» — e su ciò ritengo non vi sia più da dubitare — a chi apparteneva il sontuoso palazzo il cui prospetto laterale prospiciente sull’attuale vicolo Teatro, andò distrutto nella seconda metà dell’Ottocento, ma del quale esiste un prezioso archetipo, e che il Picone descrive ed assegna decisamente ai Montaperto?
Per il palazzo Pujades. pur non possedendo ancora un esplicito documento che ci indichi il Carnilivari come architetto costruttore, si può affermare, con tutta probabilità che fu opera del valente artista netino.
Matteo Pujades, che ebbe una sorella a nome Lucrezia, andata sposa a Cosimo Perollo, ed un fratello, Michele, che si rese notissimo per il caso Sciacca (essendo andato in aiuto al Conte Luna, contro il fratello del defunto cognato), sposò Eleonora De Marinis, figlia del Barone del Muxaro e sorella di Giosuè e Girolamo. Essendo genero di Gaspare De Marinis, al quale il Carnilivari aveva reso i suoi servizi, ritengo non sia affatto improbabile che Matteo Pujades, volendo farsi costruire un palazzo, abbia dato incarico a Matteo Carnilivari, artista di provala abilità costruttiva ed artistica.
Dall’atto di vendita della «Meschita», fatto dagli ebrei in seguito alla loro espulsione, si rileva che il palazzo Pujades venne costruito intorno al 1492.
In tale contratto, infatti, stipulato il 4 settembre 1492 (1493) presso il Not. Matteo Schillaci di Girgenti (Arch. Not. Agrigento) si legge quanto appresso :
«… de quam genia, seu miskita cum terris vacuis, cun omnibus in ea existentibus, sita et posita in dicta Civitate, et in contrata di la Ruga Reali, secus vias publicas ex parte meridiei, secus domus noviter fabricatas per n. Matteum Puiades. eam totam contigentes parietem dicte Judaice, juxta fabricationem ipsarum domorum per ipsum n. Matteum. ex parte aquilonis:…».
Nei primi di settembre 1493. dunque, il palazzo di Matteo Pujades risultava da poco fabbricato, secondo quanto scritto nell’interessante allo rintracciato dal Picone.
Come, in seguito, il palazzo Pujades sia andato a finire pure fra i beni della Cattedrale Agrigentina, non sappiamo.
Certo si è che. con le rendite del patrimonio donato alla Chiesa dal Vescovo Granata, a cura del canonico Pompeo Spoto, fu aperto — nel gennaio 1878 — in tale palazzo un istituto affidato alle «Figlie di S. Anna», che portò il nome del munifico Vescovo, per la «gratuita istruzione di venti ragazze» (oggi ne conta molto di più e l’istruzione è a pagamento).
Il Picone cosi scrive in merito: «Il Palagio dei Pujades. attuale orfanotrofio e in parte stabilimento Granata, era quasi intatto, però, alle trasformazioni esterne ed interne, quasi tutto ne è dileguata l’antica forma. Non rimangono che talune finestre e la porta maggiore di marmo, che presenta invece dell’arco a sesto acuto, il persiano, al vertice del quali era uno scudo con lo stemma di famiglia, ma vandalicamente lo si è svelto, e ridotta tozza la bella forma di quella porta».
Il palazzo Pujades è, ancora oggi, sede dei due istituti ai quali accenna il Picone: l’Istituto Granata ed il «Boccone del Povero». La parte occupata dal «Boccone del Povero» è più alta e mostra due portali d’ingresso a sesto acuto e due bifore archiacute al primo piano che richiamano mollo i portali laterali del palazzo Ajutamicristo e le bifore che nello stesso edificio palermitano si vedono sotto il portico, sormontate dalle stesse ghiere a due archetti che s’incrociano, terminanti lateralmente nei soliti peduncoli. Le due finestre bifore (le uniche esistenti) stanno Ira due finestre — rifatte — che mostrano la tipica ghiera quattrocentesca ad arco ribassato, con peduncoli laterali.
Dell’architettura dell’antico palazzo, poco o niente rimane, poiché i portali d’ingresso, pur seguendo la forma originaria, vennero rifatti.
Dell’edificio quattrocentesco, oltre le due bifore alle quali si è accennato, non rimane che il portale d’ingresso ad arco ribassato che fa parte di quell’ala del palazzo Pujades ora sede dell’Istituto Granata, e ne costituisce l’ingresso principale.
L’arco ribassato policentrico di questo portale inconsultamente, poco tempo la, dipinto in grigio — è seguito nel suo andamento da un primo bastone che all’imposta dell’arco forma dei capitelli per continuare, in senso verticale, come colonnine poggianti — ad una certa altezza — su delicate basi.
Un secondo bastone segue lo stesso andamento del primo, con la differenza che all’altezza delle basi delle colonnine del primo bastone, piega ad angolo retto chiudendo quella specie di fascia decorativa che con il primo bastone forma, per ripiegare ancora ad angolo retto allo spigolo del vano d’ingresso.
Il terzo bastone è limitato al piano d’imposta dell’arco dove si unisce con un altro bastone che inquadra il portale nelle cui parti laterali sta una decorazione ad archetti tipica del gotico catalano.
Sopra questa riquadratura si vedeva, fino allo scorcio dello scorso secolo, la formella decorativa, quadrangolare, con le armi della Casa Pujades, con la diagonale in senso verticale, come l’ideò il Carnilivari per i palazzi Abatellis ed Ajutamicristo.
Dalla via Orfane si volta nella Via Barone, che porta al Piano Barone dove sorgevano i palazzi del Montaperto e del De Marines, barone del Muxaro. In questa Via Barone, di fronte alla parte posteriore del Palazzo Pujades, si vedeva, fino a qualche mese fa, un portale identico a quello dell’Istituto Granata. Era il portale del palazzo del nobile Giovanni Gamez (poi Contarini) come lo sta ad indicare — ancora oggi — il sovraporta in ferro battuto, quello che in dialetto chiamiamo: «Muscaloru», rimasto al suo posto, nonostante la distruzione completa del portale stesso.
In esso, benché il ferro arrugginito e la polvere accumulatasi negli anni, ne rendano difficile la decifrazione, sta scritto in lettere gotiche il nome e cognome del proprietario del palazzo Giovanni Gamez.
Questo Gioanni Gamez fu parente agli altri Gamez che avevano la dimora in un palazzo che mostra un bel portale, sito nel largo che dai Gamez prende il nome, che unisce la Via Porcello all’attuale Via Fodera, nei secoli scorsi chiamata «la strata di Carnilivari», che iniziando dalla piazza Purgatorio e costeggiando le Chiese di S. Lorenzo (detta del Purgatorio) e di S. Rosalia unisce la Via Atenea (principale arteria della città) al «Piano Gamez» ed alla Via S. Spirito che porta al ducentesco monastero omonimo fondato da Marchisia Prefoglio, madre di Manfredi Chiaramonte, nella propria casa donata ai Cisterciensi, dove, all’epoca di cui trattiamo (scorcio del Quattrocento) vennero eseguite delle opere, delle quali rimane ancora oggi una bellissima bifora di pretto stile carnilivariano.
La strada venne ufficialmente chiamata: « Via Carnevale» per la famiglia che vi abitava ed i cui discendenti ancora oggi esistono in Agrigento. Benché scalpellinata, nella targa stradale di ardesia, che si vede murata sopra quella portante il nome di Michele Fodera (illustre medico agrigentino al quale venne in seguito dedicata) si legge ancora oggi il nome di «Carnevale».
Nel campo delle supposizioni, potrebbe essere stato probabile che il Carnilivari — che ora sappiamo con sicurezza aver lavorato in Agrigento — oltre che nel palazzo De Marinis, abbia lavorato anche nel Monastero di S. Spirito, contraendo possibilmente anche matrimonio in Agrigento.
Quando, nel 1958 ho lanciato — in un mio articolo sul Carnilivari («Sicilia Serafica» n. 6-7) tale ipotesi, l’ho definito romanzesca. Oggi, invece, che sono venuti fuori altri documenti sul Carnilivari e fra essi i primi che riguardano la sua biografia, potrebbe prendere consistenza, sapendo che quando operava a Palermo era già sposato ed aveva anche un figlio di una certa età, uno scavezzacollo che gli procurò molti dispiaceri. Comun-que, sull’argomento — per evidenti ragioni di delicatezza — non posso dire di più e bisognerà attendere che vengano pubblicati i nuovi interessanti documenti rintracciati dallo studioso, mio ottimo amico, al quale appartengono e che gentilmente me ne ha data comunicazione.
Per concludere sull’arte carnilivariana in Agrigento, c’è da notare qualcosa di sostanziale.
Il Prof. Giuseppe Spatrisano della Facoltà di architettura all’Università di Palermo, nel suo recente volume, di grande interesse per la storia dell’architettura e dei monumenti palermitani, «Architettura del Cinquecento in Palermo» (Ed. S. F. Flaccovio – Palermo – 1961) in cui esamina — con quella competenza non comune che tanto lo distingue e con una serenità non frequente ai tempi di oggi — i problemi dell’architettura rinascimentale in Palermo, così scrive a proposito dei resti architettonici quattrocenteschi in Agrigento (pag. 35 nota 18):
«I due portali gotico-quattrocenteschi che si rinvengono di forma e dimensione identiche, l’uno in Via Barone e l’altro in Via Orfani, nel palazzo già del Barone Puxjades di Agrigento, hanno ben diverso carattere di quello realizzalo dal Carnilivari per l’Abatellis. In questi di Agrigento, analoghi a quelli di Siracusa e Taormina, la piana, elegante stesura delle modanature degli esili bastoni piegali in orizzontale all’imposta dell’arco policentrico ribassato, rispecchia un gusto decorativo più propriamente catalano, che si accentua nel coronamento del riquadro con archetti a frangia».
Quanto osservato dal Prof. Spatrisano è esatto; niente prova, però, che il portale eseguito dal Carnilivari prima nel palazzo De Marinis in Agrigento e dopo in quello Abatellis di Palermo, sia stata creazione dell’artista netino.
L’architettura dei palazzi eseguiti dal Carnilivari non mostra, invero, la «estrosa inventiva» e la “ricca e dinamica sensibilità» che, ancora più «vigorosa e coscientemente sviluppata» il Prof. Spatrisano giustamente nota nel superbo portale di palazzo Abatellis. Il che dimostra «che tale portale fa una eccezione, perchè dal punto di vista creativo non appartiene al Carnilivari, ma dallo stesso eseguito su modello esistente, per incarico del committente. Evidentemente, parlando di committente non mi riferisco all’Abatellis, ma al De Marinis, Barone del Muxaro, dato che (sappiamo di certo, dal documento pubblicato dal Meli, che l’Abatellis dispose al Carnilivari di eseguire nel suo palazzo il portale da lui stesso eseguito per il De Marinis in Agrigento.
Sfortunatamente non conosciamo il contratto relativo alle opere eseguite in Agrigento dal Carnilivari per incarico del Barone del Muxaro. Se tale contralto si conoscesse, molto probabilmente in esso si troverebbe scritto che Gaspare De Marinis diede incarico al Carnilivari di eseguire il portale del suo palazzo dello stesso “galbo et magisterio” di quello esistente a…
Non c’è da meravigliarsi – come fa il Prof. Meli — che il Cardella per spiegarsi le caratteristiche ispanizzanti del Palazzo Abatellis abbia potuto supporre un viaggio del Carnilivari, insieme al committente in Spagna. Non ha affatto pensato «peregrinamente» il Prof. Cardella immaginando ciò perchè quando scrisse il Siloro non erano noti tanti documenti vernuti dopo alla luce.
E’ strano, invece, che il Prof. Meli parli della «Casa del Cordone» di Burgos e ritenga «non improbabile che Francesco Abatellis nelle sue peregrinazioni guerresche in Spagna, abbia visto ed ammirato quella casa, e che abbia accarezzato la idea di proporsela a modello dell’erigendo suo palazzo» (pag. 49) quando lo stesso Prof. Meli ha pubblicato il documento nel quale si legge che l’Abatellis prescrisse al Carnilivari che le «cantonerie» del nuovo palazzo avrebbero dovuto essere “arcidublate” come quelle del palazzo di Gaspare Bonet; altri particolari costruttivi per le finestre, come quelli del palazzo Bonet; ed infine il portale grande del suo palazzo dello stesso «galbo et magisterio» di quello costruito dal Carnilivari per il Barone del Muxaro in Agrigento!
Se si volesse, quindi, cercare un modello per il portale del Carnilivari, non si dovrebbe fare riferimento a questo o quell’edificio spagnolo visto dall’Abatellis, ma dal De Marinis, perchè non bisogna dimenticare che fu il De Marinis a farlo per primo eseguire all’architetto netino nel suo palazzo di Agrigento.
Il portale eseguito dal Carnilivari nel palazzo Abatellis, identico a quello di palazzo De Marinis, ripetiamo non fu farina «del suo sacco. Il netino ne fu solo l’esecutore. L’architettura del Carnilivari (eccezion fatta per il portale) ha tutto un carattere armonico ed esso si riscontra anche nel palazzo che fu del Pujades in Agrigento.
Matteo Pujades fu Portulano del Regno ed amico dell’Abatellis, anch’esso Portulano; fu genero di Gaspare De Marinis Barone del Muxaro, per averne sposata la figlia Eleonora, e sia il De Marinis che l’Abatellis avevano avuto come costruttore ai loro servizio Matteo Carnilivari. Queste ragioni avvalorano l’attribuzione all’architetto netino del palazzo Pujades. L’architettura del palazzo, escludendo il portale De Marinis-Abalellis, mostra i segni dell’architettura carnilivariana, anche nel portale ad arco policentrico che giustamente richiama — come scrive il Prof. Spatrisano — quelli di Siracusa e Taormina.
Ma non potè lavorare il Carnilivari anche a Siracusa e Taormina? Cosa c’è d’impossibile in tale ipotesi? Il fatto che non sia noto nessun lavoro da lui eseguito nei paesi della costa orientale della Sicilia, cosa dice? Niente.
Potrebbe venire fuori qualche documento, ad opera di qualche studioso, atto a dimostrare che il Carnilivari abbia lavoralo in qualche città compresa proprio tra Siracusa e Taormina. Così come potrebbe essere rintracciato qualche documento che verrebbe a provare che il Carnilivari abbia lavorato in Palermo in altri palazzi che non siano nè quello Abatellis nè quello Ajutamicristo. Tutto è possibile in questo mondo.
Ma mi accorgo di aver detto troppo. Lasciamo che gli studiosi pubblichino, prima, i documenti interessanti da loro recentemente trovati, e poi discuteremo meglio.
Per ora faccio punto sull’architettura carnilivariana in Agrigento, nella speranza di aver convinto il lettore che a favore della mia attribuzione del palazzo Pujades al Carnilivari concorrono, oltre che le ragioni stilistiche, anche i rapporti di parentela esistenti fra il Pujades ed il De Marinis e quelli di amicizia intercorrenti fra i due Portulani del Regno: l’Abalellis ed il Pujades.
Se poi qualcuno volesse far concorrenza a San Tommaso e toccare con il dito per credere, ecco la prova: Matteo Pujades e Matteo Carnilivari si conoscevano ed avevano rapporti di amicizia.
Ce ne dà certezza un documento pubblicato dal Prof. Meli (pag. 227). Il 14 gennaio IX ind. 1491 (1492) Matteo Carnilivari stipulò un alto con Fran cesco Abatellis per regolare i conti. Alla stipula di questo atto fu presente Matteo Pujadea che lo sottoscrisse anche in qualità teste.
Note
(1) Dello «Steri» chiaramontano in Agrigento soltanto ora, qualche studioso, si è occupato particolarmente. Ben poche notizie, però, e tutte conosciute. Sull’interessante monumento – poi trasformato in Seminario Vescovile pubblicherò, in seguito, qualche notizi inedita corredata da un documento del ‘400.
(2) 11 Casale Mussaro O Muxuro venne dato Da Federico II nel 1232 ad Ursone, Vescovo di Agrigento, insieme all’antica fortezza araba ili MushAr (espugnata dal conte Ruggero) ed i fabbricati e terre che lo circondavano.
Rinunciò, in seguito, la Chiesa Agrigentina a custodirlo e a mantenerlo, per cui lo permutò con atto DEL 2 luglio 1305 — con il Casale di Margiadirami di proprietà del nobile Giovanni Chiaramonte, che divenne il primo barone di Muxaro e signore di Favara ed altri feudi e, come tale, scritto nel libro dei baroni e feudatari, al tempo ili Federico III.
Nel 1392 Muxaro passò ad Andrea Chiaramonte ed in seguito alla ribellione di quest’ultimo a Re Martino, ne assunse i diritti Raimondo Montecateno. Per la di lui fellonia, venne investito Filippo De Marinis.
Il tilolo passò, poi, a Gaspare de Marinis che, pertanto, divenne barone del Muxaro e non « barone di Sant’Angelo Muxaro», come scritto da qualche studioso, poiché dello stesso Casale più niente esisteva nella prima metà del ‘500, quando Gian Giacomo Adria scrisse la sua «Topografia del Val di Mazura» dove Muxaro è detta «una terra distrutta. Sant’Angelo di Muxaro sorse nel Sec XVII con 302 case e 1121 abitanti che elessero per patrono Sant’Angelo Carmelitano.
Gaspare De Marinis sposò la nobile Lucrezia e non Lunetta, come per erronea trascrizione paleografica fu pubblicato dal Picone.
Da questa unione nacquero: Giosuè (e non Jerzius come pure erroneamente letto dal Picone, nè tantomeno Guglielmo, come erroneamente indicato dal Sanfilippo). Geronimo ed Elenora. Il barone Gaspare De Marinis per il quale il Carnilivari costruì il palazzo, morì nel 1192 e venne sepolto nella Cattedrale di Agrigento, nella cappella detta di S. Girolamo, in un sontuoso sarcofago marmoreo su cui, ancora oggi, si vede scolpita la di lui figura «nelle vesti di guerriero con le mani incrociale sull’elsa della spada» sarcofago eseguito da Giovanni Cagini e da Andrea Mancino, giusta atto in data 9 Marzo 1492 (1493) in Notaro Matteo Fallera (vol. 1753 – fascicolo 943 – Archivio di Stato di Palermo) rintracciato dall’insigne storico dell’arte Mons. Gioacchino Di Marzo, ma non pubblicato dallo stesso nel volume sui «Gagini» dove semplicemente si legge che i due «murmorari soci» si obbligarono «pel sepolcro del magnifico Giosuè de Marino, già Barone del Muxuro».
L’esimio scrittore incorse in un errore scrivendo quanto sopra. Dall’atto inedito risulta, invece, quanto appresso : «Magister Andreas de Manchino et Joannes de Gaginis mormorali socii cives panormi eorum nobis quilibet eorum principaliter et in solidum promiserunt el somniter convenerunt et se obligarunt et obligant magnifico domino Nicolao Jacobo de Faccio militi et civi civitatis Agrigenti procuratori ad infrascripta et alia ut dixit Magnifici Gesuè de Marino filij primogeniti ac heredis universalis condam Magnifici domini Gasparis de Marino olim baronis Muxari nec non Mugnifice domine Lucrecie matris dicti Magnifici Gesuè presenti et stipulanti pro eis me eciam notarlo stipulante pro eis construere et facere quondam
sepulturam marmoream laboratam de illis figuris et laboribus juxta designum conservatum penes dictum magnificum procuratorem et quod caxia sepolture sit lurgitudinis canne unius et residuum operis esse debeat secundum proporcionem dicte caxie designi et laboris predicti ex nuc in antea successive ita quod per totum mensem octobris anni XII e ind. p.v. debeant dicti obligati expedidisse dictam sepolturam et illam havirila assextatu intus majorem ecclesiam agrigentinam in cappella in qua est sepultum cadaver dicti condam domini baroni muxari».
Il sepolcro doveva essere dato completo come infatti da annotazione risulta lo è stato (e si ammira ancora oggi nella Cattedrale agrigentina) – entro il mese di ottobre dello stesso anno, per il compenso stabilito di oncie 40 di cui 10 spettavano al Manicino e 30 al Gagini, il che fa senz’altro ritenere che a scolpire il ritratto del Barone del Muxaro fu il Gagini ed il Mancino ebbe la sola parte di aiuto.
Pertanto, Giosuè de Marinis fu il committente a mezzo del procuratore, il Magnifico Nicolò Giacomo di Faccio – e il sepolcro doveva servire per il defunto genitore. Gaspare, come in effetti servi. In definitiva, però, il sarcofago servì anche per il Giosuè, poiché, secondo quanto da lui disposto con il testamento in data 1523, alla di lui morte – avvenuta nel 1535 venne sepolto nello stesso sarcofago marmoreo del padre.
Il Sanfilipo che erroneamente chiama Guglielmo il Giosuè (forse per non esatta interpretazione paleografica del documento) ci fa conoscere che il secondogenito di Gaspare, lo spettabile Don Girolamo De Marinis, morto il fratello Giosuè, con atto del 2 aprile 1535 in Notar Vincenzo Guagliardo, fondò “ in Venerabile cappella sub vocubulo Sancti Hieronimi existenti intus majorem ecclesiam Civitatis Agrigenti» un beneficio «de jure patronatus dicti spectabilis domini D. Hieronimi» ed in ottemperanza a quanto dal defunto disposto in testamento, e cioè che legava «inter alia pro exoneratione ejus conoscentiae et remissionem suorum peccatorum uncea sex juris census et annualis redditus Ven. Cappellab sub vocabulo S. Hieronimi», dotò di tale rendita la cappella stessa, riservando per sè e per i suoi successori la nomina del beneficiale.
Ma quello che più interessa noi, non è tanto questo atto quanto l’altro contratto stipulato il 22 febbraio 1605 in Notaro Bartuglia di Girgenti, con il quale come già detto il «Civis Gaspare de Marinis» (junior), figlio del fu Don Girolamo, donò al Capitolo ed al Clero della Cattedrale di Girgenti, il suo grande tenimento di case con l’obbligo «ut teneantur in altare cappellae S. Hieronimi di li Marini fundatae in dicta Ecclesiam Cathedralis, ubi ejus cadaver Ihumari debeat celebrare in perpetuum duas missase de requie singula cabdomova ».
Gaspare De Marinis (junior) alla di lui morte, avvenuta due anni dopo (fece testamento in Not. Mariano Crispo il 1° gennaio 1607) venne sepolto nello stesso sarcofago marmoreo della Cattedrale, dove si trovavano i resti mortali dello zio Giosuè e del nonno Gaspare.
Ecco perchè aperto il sarcofago di cui trattasi, nel 1912 vi si rinvennero diversi cadaveri.
di Alessandro Giuliana Alajmo pubblicato sulla rivista Giglio di Roccia n.18 anno 1962