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Agrigento nei ricordi di Pietro Griffo

12 Luglio 2014 //  by Elio Di Bella

GRIFFO2

di Pietro Griffo
Io non sono nato ad Agrigento. Ma vi passai, con mia moglie, gli anni più belli della mia vita: dai 30 ai 57. Ed agrigentino finii per sentirmi, nel profondo, sotto la spinta di ideali nel cui nome mi sono saldamente legato ai destini di quella terra meravigliosa. Tra di voi, amici, mia moglie ed io non ci sentiamo estranei. E voi non ci considerate tali. Ci amate tanto e noi altrettanto vi amiamo. Nel triste mondo di oggi è così rara una tale comunanza, assolutamente disinteressata, di affetti. Ed è così bello libarne la grande felicità che ne deriva…
Conobbi per la prima volta Agrigento, in una gita che vi feci da Palermo con mio padre, sotto la canicola di un’afosa domenica di luglio, nel 1930. Ero studente di lettere classiche all’Università: tendevo già all’archeologia. Siracusa, qualche tempo prima, mi aveva fortemente impressionato con la malia di una recita dell’ Agamennone nel suo teatro. La grandiosità della “valle” agrigentina, pur nell’aridità delle sue zolle infocate, mi diede le vertigini. I templi, solenni nella magica atmosfera di un paesaggio assolutamente incontaminato, furono per me spettacolo che non ho mai riscontrato altrove. Impressioni ovvie – si dirà – per un diciannovenne immaturo e sognatore. E perché non ricordare le reazioni di ben più grandi personaggi dinanzi a così sconvolgente realtà?

Goethe soggiornò ad Agrigento alcuni giorni nell’aprile del 1787. Ecco, in un brano del suo Viaggio in Italia datato al 26 di quel mese, il ben noto giudizio sui vostri templi: “Qui sembra di toccare esattamente il punto in cui l’ordine dorico ha raggiunto la sua perfezione. Le emozioni del grande poeta, avanti alla maestà delle cose vedute, furono di eccezionale intensità. Stupenda quella sua ammirata espressione per cui il tempio della Concordia, a confronto con i monumenti di Paestum che egli aveva visitati in precedenza, starebbe “come la figura di un dio di fronte a quella di un gigante . Esagerazioni di un esteta? Ma il Goethe, tra i visitatori stranieri di Agrigento, non è il solo in giudizi di questo genere. Mi piace ricordare per tutti il Riedesel: “Hic vivere vellem oblitusque meorum (cioè: “Qui vorrei vivere dimentico anche dei miei ); e il Bartles: “Esiste altro paese in cui la ricchezza si unisce così alla bellezza? . Questa era l’Agrigento – per meglio dire: la Girgenti – di quei tempi: perché l’abbiamo tanto ferita, in pochi decenni, ai nostri giorni?

Il l ottobre 1941; da Siracusa, raggiunsi – con la famigliola di allora – la destinazione che, per generosa proposta del Soprintendente Prof. Giuseppe Cultrera. mi era stata assegnata subito che avevo vinto il concorso nell’Amministrazione delle Belle Arti. E ritornai ad Agrigento per rimanervi. Qui. esattamente due anni prima, era stata istituita, con giurisdizione sulle province di Agrigento e Caltanissetta, una Soprintendenza alle Antichità autonoma. Difficilissimo ne era stato il decollo. Io ci venivo a dirigerla nella speranza che potesse finalmente affermarsi. Aveva sede in un comune appartamento di affitto. Pochi mobili: nessuna particolare attrezzatura: assoluta mancanza di personale. Un solo custode e un così detto assuntore di pulizia per l’intera zona archeologica: un giovane disegnatore che fu presto richiamato alle armi: il vuoto completo per gli altri territori amministrati (meglio: da amministrare).

Il nuovo istituto era presso che sconosciuto in città e fuori. E’ perciò facile comprendere quanto di fatica, di sacrifizi, e di “saper fare” dovette costarmi svilupparlo ed imporlo – mi si perdoni il termine – alla generale considerazione. Non cito particolari. Sta di fatto però che, ove si tolga la lenta acquisizione di un po’ di gente nei ruoli amministrativi ed ausiliare, io rimasi solo a sbrigare ogni possibile incombenza per circa un decennio, fino al 1951.

Nei primi anni si era in piena guerra. E una vera guerra io dovetti combattere con i comandi militari presenti in Agrigento, che presumevano di poter disporre delle zone archeologiche per installarvi loro dispositivi: casermette a S. Biagio, sbarramenti fuori Porta Aurea, una grande baracca per alloggio truppe accanto al tempio della Concordia. Li diffidai a rimuoverli. Ne ebbi ingiunzione a smetterla dal gen. Mario Roatta, Comandante l’Armata della Sicilia, che mi diede per iscritto consiglio di rivolgermi – ove proprio ci tenessi – all’aviazione anglo-americana. Ribattei che questa era fuori causa. Mi fece chiamare al Comando Divisione del luogo, ove a suo nome mi furono chieste le ragioni per cui ero in congedo. A salvarmi da qualche suo atto inconsulto valse, di lì a qualche giorno, l’allontanamento – per suoi madornali errori – del Roatta dall’isola.

Intanto, vincendo assurde difficoltà frappostemi dalla Segreteria del Comune, dove si rideva solo al pensiero che gli Anglo-Americani potessero bombardare Agrigento, mi riuscì di trasferire gran parte degli oggetti del Museo Civico in apposito rifugio in un convento di Bivona. Mi fu di valido sostegno la collaborazione del direttore di quell’Istituto, il Prof Giovanni Zirretta. Non trovo parole sufficienti per ricordare, a molti anni dalla sua morte, la valenza della personalità di questo agrigentino del passato. In coppia con altro personaggio di quel tempo, il Prof. Francesco Sinatra, Ispettore onorario delle Belle Arti, gli vanno riconosciute benemerenze notevolissime nella tutela e nella esaltazione del patrimonio archeologico della città. In istretto concerto con l’uno e con l’altro la mia opera poté svolgersi con pienezza di successi. E’ vero: ci furono momenti in cui, specialmente dal primo, mi vennero incomprensioni e dissidi. Ma tutto, ad un tratto, prese la via della più schietta amicizia e del consenso. Quando mi riuscì di dar corpo all’idea di dare ad Agrigento il Museo Nazionale che le era sempre mancato, Giovanni Zirretta si batté generosamente al mio fianco. Nel nuovo museo si sarebbe sostanzialmente annullato quello che egli aveva a lungo diretto con impegno e bravura. Poco se ne dolse. La grande impresa avrebbe dato maggiore lustro alla sua città. A Zirretta e a Sinatra proposi che si desse la medaglia d’oro della P.I. Ebbero quella d’argento: succede anche così.

Ovvio che, già da principio, qualche attenzione abbia dovuto rivolgere anche agli scavi. Saggi vari condussi, nei primi due anni, nel complesso abitativo di S. Nicola, nella necropoli romana del terreno Giambertoni, negli ipogei romani di Villa Aurea, nella necropoli greca di contrada Pezzino. Fuori Agrigento nella villa romana in località Durrueli di Realmonte. Nel 1945-46 ebbi finalmente modo di avviare mie personali ricerche in ambiti più vasti: nella necropoli arcaica di Montelusa e ancora nella zona di S. Nicola. Qui per la prima volta la topografia della città antica prese a rivelare elementi interessantissimi della sua organizzazione a schema geometrico che avrei avuto occasione di dimostrare meglio più tardi. Mi diedi a pubblicare nel frattempo alcuni “Quaderni della Soprintendenza: vi trattai tutta una serie di cose riguardanti la varia problematica dei suoi territori. Ed ecco, nella primavera del 1948, la miracolosa scoperta delle ormai notissime fortificazioni greche di Caposoprano a Gela.

A Gela Paolo Orsi aveva intensamente scavato, con risultati eccezionali, nei primi anni del secolo. Tutti i materiali rinvenuti erano stati da lui trasferiti nel museo di Siracusa. La delusione dei Gelesi era stata immensa. L’inatteso rinvenimento riapriva, con grandi speranze, una stagione nuova per le fortune archeologiche di una città che era stata tra le più celebri e potenti della grecità non soltanto siciliana. Ero ancora il solo archeologo che operasse nella Soprintendenza agrigentina. E perciò ebbi la ventura di occuparmi per primo di quel magico scavo e di divulgarne le peculiari componenti alla pubblica curiosità e al mondo della scienza. Nel 1951 organizzai in loco una mostra archeologica su “Gela preistorica ed ellenica .

Ci vennero molti archeologi allora variamente impegnati nell’isola. Tra gli altri Dinu Adamesteanu. Gli proposi di trasferirsi a lavorare nella mia soprintendenza: egli accettò. A lui mi venne modo di associare, qualche tempo dopo, Piero Orlandini. Da allora, per un quindicennio all’uno e fino al 1968 al secondo, che poi mi successe nella carica, affidai una quantità straordinaria di esplorazioni e di scavi che sulla scorta di cospicui finanziamenti che ci vennero dalla Cassa per il Mezzogiorno e da altri Enti, fui in grado di promuovere in Gela stessa e in tutto il territorio entroterra (la provincia di Caltanissetta) che era stato quello della sua espansione nei secoli dal VII al V a.C.

Tenni per me, che mai presi le vesti del “barone” , tutto il peso e le responsabilità connesse della gestione della Soprintendenza quale ormai mi era riuscito di configurare. A Gela, nel 1958, a dieci anni appena dal mio primo interessarmi alle sue cose, potei inaugurare quello che fu uno dei musei più lodati dei nostri tempi. Lo avevo promesso ai Gelesi già dall’inizio della nostra grande avventura: ed ecco che la promessa, con generale soddisfazione, fu da me puntualmente mantenuta. A Caltanissetta, nel frattempo, sostenni – rispondendo all’appello di benemeriti cittadini del luogo – l’istituzione di un Museo Civico, che ora finalmente è in procinto di elevarsi anch’esso al rango di istituto statale.

Si ritorni ad Agrigento. Un particolare impegno mi richiese la sistemazione delle zone archeologiche. Prima, la Collina dei Templi, i cui terreni furono – tra rimostranze e resistenze di ogni genere – espropriati. Un apprezzato impianto di illuminazione vi fu – su idee dell’arch. Franco Minissi – realizzato nel 1957 (Al Minissi, mandatomi dal Direttore Generale De Angelis D’Ossat, avevo già qualche anno prima affidato la delicata incombenza del restauro e della protezione del muro di Gela. Da allora molto egli ha operato in Sicilia con realizzazioni di alto prestigio. Suoi sono, tra le altre cose, quanto a ideazione e a strutture, il Museo di Agrigento, la sistemazione del teatro di Eraclea Minoa, la “musealizzazione della Villa romana di Piazza Armerina, il Museo “Paolo Orsi di Siracusa). Un Antiquarium provvisorio fu sistemato a Villa Aurea. Impegnativi restauri furono condotti nei templi di Giunone e della Concordia. Scavi io diressi nei terreni a sud-est del Tempio di Giunone , nel tratto tra questo e il Tempio della Concordia, nel giardino della Villa Aurea, nelle catacombe Fragapane e nella necropoli sub divo a nord di esse, nella zona avanti al Tempio di Eracle, nella vasta area del settore occidentale della Collina dei Templi, ed altri ancora.

Di alto valore la ripresa – nel 1953 – e il proseguimento per svariate campagne degli scavi in località S.Nicola, dove – com’è universalmente noto – e venuto alla luce tutto un vasto complesso a cui s’è dato il nome di “Quartiere ellenistico-romano”. Io gli diedi l’avvio nella prima campagna: il resto è stato attenta opera di Ernesto De Miro, venuto in soprintendenza contemporaneamente ad Adamesteanu e ad Orlandini e da allora da me investito di occuparsi di tutta un’altra quantità di ricerche, in Agrigento stessa (zona a sud del Tempio di Zeus e terreni di S. Nicola dove è adesso il Museo Nazionale) e in provincia (Eraclea Minoa, località varie di Palma di Montechiaro, e così via). Il De Miro ha diretto la Soprintendenza dal 1970 fino a qualche anno fa, quando è passato all’Università di Messina. Gli è succeduta Graziella Fiorentini, cui si dovettero, ai tempi della mia presenza in Agrigento, gli scavi della necropoli greca di Poggio Giache e quelli del santuario ctonio in località Sant’Anna. Per finire, sempre in riferimento a quei tempi, mi fa obbligo ricordare che per la Soprintendenza Santo Tiné scavò nelle Grotte vaporose del Monte Cronio in contrada Tranchina a Sciacca, Gerlando Bianchini a Cozzo Busoné presso Raffadali, Maria Rosaria La Lomia in un complesso di antichità cristiane a Vito Soldano di Canicattì.

Mi si consenta di ricordare a questo punto, per rapidissimi cenni, l’azione ininterrotta che, in aggiunta ai problemi affrontati per lo sviluppo culturale e scientifico della Soprintendenza, mi trovai a dover svolgere – sconfinando anche spesso dalle mie specifiche facoltà – in difesa dell’ambiente monumentale e paesaggistico di Agrigento nel ventennio successivo alla guerra. Ciò feci – l’ho scritto più volte – con costanza, con impegno, con furore. Ne conseguii non pochi risultati positivi e mi procurai stima e consensi ma, insieme, tutta una serie di incontrollati risentimenti, tutta una catena di odio – con ovvie ma non copiose eccezioni – nei circoli dei pubblici amministratori, degli imprenditori edili, dei proprietari di terreni espropriati o sottoposti a notifica, ecc, ecc. Si stamparono opuscoli contro di me.

Il prefetto Dott. Francesco Bilancia intervenne ad un tratto a difendermi contro improprie speculazioni che si tramavano a mio danno. Altro efficace sostenitore delle mie ragioni trovai nel capo dell’Avvocatura dello Stato di Palermo, l’Avv. Alessandro Ambrosini, fratello di Gaspare, il Presidente della Corte Costituzionale. Quasi non ci fu uomo politico della giurisdizione che, in aggiunta a talune illustri personalità delle istituzioni e dell’arte, non fosse investito di interessarsi presso i superiori organi per la mia rimozione dalla sede. Il Direttore Generale delle Belle Arti di allora, il Prof. Guglielmo De Angelis D’Ossat, tenne duro dandomi il più ampio riconoscimento della giustezza delle mie azioni. Molto ebbero a interessarsi, su mie sollecitazioni, delle cose agrigentine – e innanzi tutto del persistente mancare di un piano regolatore di spettanza del Comune – alcuni tra i più qualificati giornalisti della stampa nazionale. Ci fu chi, come Cesare Brandi, non mancò di darmi atto che a difendere Agrigento dagli inconsulti danni del disordine edilizio ero rimasto soltanto io. Diedi interviste, con larga risonanza, alla Radio e alla TV.

Nel luglio del 1966 la grande frana: assai dolorose, come tutti ricordiamo, le conseguenze per il buon nome di questa nostra amata città. Molto ci si speculò, anche e soprattutto in sede politica. Io ero assolutamente estraneo alle responsabilità da perseguire (i monumenti e la “valle erano indenni) e ne ebbi lusinghieri giudizi – con lodi per la qualità del mio impegno – dalla Commissione dei Lavori Pubblici che venne ad indagare. Eppure, si tentò di coinvolgermi in qualche modo. Mi si confuse – su certa stampa – con i “boss agrigentini (dirò tra parentesi che non ebbi mai a conoscerne nessuno). E si provò di interessare il Magistrato anche ai miei riguardi. Fui naturalmente prosciolto, “per insussistenza dei fatti attribuitimi, da una sentenza istruttoria, nella quale furono messe oltre tutto in rilievo le benemerenze del mio onesto ed appassionato operare.

Mi è avvenuto in questi giorni di trovare tra le mie carte un ritaglio di giornale in cui si dà conto della proposta fatta nel maggio del 1965 dal Prof. Mario La Loggia, Presidente allora dell’Azienda Comunale di Soggiorno e Turismo, al sindaco di Agrigento perché mi fosse conferita la cittadinanza onoraria. “Il Prof. Pietro Griffo – si diceva in quel testo – “da decenni ha posto nobilmente la sua vita al servizio della nostra città… (Il provvedimento invocato) verrebbe a ricambiare la dedizione filiale di un cittadino per la sua terra di elezione “. La richiesta del La Loggia non ebbe affatto risposta. Ed ecco che egli, qualche tempo dopo, pubblicando nella suddetta sua qualità – a seguito delle tristi vicende della frana dinanzi ricordata – un interessante opuscolo dal titolo Agrigento e le sue frane; generosamente volle dedicarmelo con queste testuali parole: “Al Prof. Pietro Griffo, per le opere che, tra incomprensioni, invidia e sciocca critica, ha realizzate nella mia città, dandole lustro e fama, in segno di civica riconoscenza. Con il Prof. Mario La Loggia non erano mai corsi rapporti di vicendevole accordo: e fu per questo che le sue iniziative di cui qui faccio parola, prese in ogni caso senza avermene fatto un previo cenno, mi furono straordinariamente gradite, in quanto segni di una nobiltà che ancora oggi, a distanza di tanti anni, mi fa piacere riconoscergli con sincera gratitudine.

Il 24 giugno del 1967, dopo lunga gestazione e un lavoro effettivo durato ben dieci anni, l’inaugurazione del Museo Nazionale a San Nicola. Fu una bella festa per la Soprintendenza e per la città. Me ne furono dati riconoscimenti da più parti. Particolarmente mi colpi la frase con cui, nel discorso del Sottosegretario alla P.1. On. Giovanni Elkan, per evidente suggerimento del direttore Generale Prof. Bruno Molajoli, mi si ringraziò per l’opera svolta da me che “avevo ideato e diretto con intelligenza, dottrina e fervore ammirevoli la non agevole impresa, vincendo ostacoli e superando immeritate amarezze antiche e recenti di cui quella giornata luminosamente mi ripagava . Non mi si ascriva a immodestia aver citato queste testuali parole, che da più alta sede confermavano quelle testé riportate del La Loggia: ricordo come oggi quanto ne avevo allora bisogno…

Il museo di Agrigento fu universalmente riconosciuto come una delle opere più belle e più valide della museografia moderna non soltanto italiana. Era tempo che la gloriosa Città dei Templi ne fosse dotata, in una Sicilia dove esso è venuto a porsi con adeguata dignità accanto a quelli importantissimi di Siracusa e di Palermo. “Per nessuna ragione – recita una Guida francese – bisogna trascurare di visitarlo . “Fresco lo ha definito un’altra Guida. E addirittura “splendido lo ha giudicato, in un suo discorso del luglio 1989, un sindaco di Agrigento: lo stesso – vedi caso – che mai ha creduto di dover rispondere a mie ripetute e civili sollecitazioni perché il Comune acquistasse un certo numero di copie del volume che, dovuto stampare a mie spese per assoluta mancanza di sponsorizzazioni in loco, ho dedicato a quella mia creatura nel 1987. A “Palazzo dei Giganti , dunque, nessun cambiamento è maturato nell’atteggiarsi ai miei riguardi: sarei curioso li sapere perchè.

Con il museo ogni mia ambizione agrigentina poteva dirsi appagata. E perciò da allora, sotto la spinta li particolari esigenze di famiglia, presi a sollecitare dal Ministero una mia nuova destinazione a Roma. Non mi fu facile. Ma mi riuscì di ottenerla, per la direzione della Soprintendenza alle Antichità del Lazio apposta istituita, con decorrenza dal 16 marzo 1968. Al momento del commiato da Agrigento, con toccante cerimonia, mi fu consegnata dal Commissario al Comune, per iniziativa di alcuni amici, una medaglia l’oro. Altra, dei benemeriti della cultura e dell’arte, mi fu conferita qualche tempo dopo, su proposta del Ministro della P.I., dal Presidente della Repubblica. E’ proprio vero che non sempre si lavora invano.

Ed ora qualche nota sui particolari della mia vita da quelle parti. In soprintendenza ( che tempi erano quelli di allora!) spirava un’aria che direi di famiglia. Dal personale pressoché mai mi vennero seri fastidi o atti di indisciplina. Fu così che, dal mio “posto di comando”, ebbi modo di dare ai miei collaboratori, a tutti, quanto più bene potei. Tra i superstiti molti, specie i più umili, si ricordano ancora di me. Quando vado ad Agrigento vengono a trovarmi in albergo. E qualcuno, con comprensibile imbarazzo, tiene persino a baciarmi. Sapeste quanto quel gesto mi commuove! Anche mia moglie, professoressa per 26 anni nelle scuole medie agrigentine, ha lasciato meravigliosi ricordi di quel suo modo responsabilmente materno con cui ritenne, sempre, di dover assolvere alla sua missione.

Se le avviene di accompagnarmi nelle mie puntate in quei luoghi, non so dirvi quante soste è costretta a fare, nel suo cammino lungo la via Atenea, per riscuotere omaggi e calde dimostrazioni di affetto da parte di ex alunni, o alunne, ora genitori o addirittura nonni a loro volta, che le tocca di incontrare. Degno di particolare menzione il caso di quel maturo vigile urbano che, lasciando per un momento il suo posto di servizio nei pressi di Porta di ponte, ci venne un giorno quasi di corsa all’incontro: ebbi l’impressione che dovesse contestarci qualcosa: ed invece, ecco la sua deferente richiesta che la cara insegnante di un tempo gli desse ancora un tenero scappellotto… e un bacio!

Perché straordinaria è l’umanità dell’agrigentino corrente. Grande la sua generosità. Immensa la sua capacità di voler bene a chi ne ha merito. E la sua disponibilità a condividere il dolore altrui quando questo si configura in particolari forme di gravità e asprezza. Mia moglie ed io ne avemmo un lontano giorno una prova che ci è rimasta fitta ed indelebile nel cuore. Uno sciagurato incidente di giuoco ci tolse all’improvviso, alla tenerissima età di 12 anni, la dolce creatura che ci era nata, primo – a Siracusa tra i frutti del nostro amore ( gli altri tre, meravigliosi, sono tutti agrigentini).

Il nostro lutto, atroce quant’altro mai, travalicò d’un tratto confini della nostra casa. Fu lutto di amici, di estimatori (ne avevamo tanti allora) e di quanti – tra chi ci conosceva – ne ebbe notizia. E in un baleno si fece lutto cittadino. Nel mattino delle esequie immensa fu la partecipazione di pubblico al rito in chiesa. Il corteo funebre si snodò per Via Atenea tra due ali sbigottite di gente in preghiera. I negozi abbassarono le saracinesche quasi si trattasse del corteo per chi sa quale alta personalità. In Piazza Stazione l’arresto del traffico e tanta folla raccolta ai piedi del feretro a piangere con noi la triste dipartita della nostra Liuccia. Parole affettuosissime furono dette nella circostanza da un carissimo amico di quel tempo: il Prof. Stefano Castiglione, ora scomparso, cui vanno ancora i sensi della nostra commossa riconoscenza.

Per tutto questo, amici, e per un mondo di tante altre cose, io non posso dimenticare Agrigento. L’ho amata e l’amo come e quanto non saprei dire. Ad essa, e in particolare a quel museo che – come ho già detto in una recente intervista all’agrigentino Amico del Popolo – ha nel mio cuore un posto per nulla diverso da quello che vi hanno i figli del mio sangue, si rivolgono ancora il mio pensiero e la mia sollecitudine. Al museo intendo far pervenire un giorno i libri della mia biblioteca personale. Si tratta di diverse migliaia di voci, in gran parte specializzate: un patrimonio, non soltanto culturale, di tutto rispetto.

Nel museo ha sede la “Biblioteca Pirro Marconi . Fui io ad istituirla, negli anni subito dopo l’ultima guerra, d’intesa con il Prof. Zirretta, ottenendo con qualche fatica dal Ministero della Pubblica Istruzione e dal Comune di Agrigento che s’intendesse comprensiva dei libri della Soprintendenza e del Museo Civico quando i due diversi istituti avessero raggiunto – come di fatto è avvenuto con l’annullarsi della sezione archeologica di quest’ultimo passata al Museo Nazionale – una unità giuridica e funzionale. Anch’essa è partita, tengo a ricordarlo, quasi dal nulla. La lasciai ricca di circa 7.000 volumi. Si è poi ulteriormente ampliata fino a diventare una istituzione che direi prestigiosa nella cultura della città. La sua intitolazione a Pirro Marconi mi sembrò ovvia e doverosa nel momento in cui le diedi l’avvio. Ritenni allora che si dovesse esaltare in tal modo l’opera grandemente meritoria di quell’illustre scavatore – tra il 1925 e il 1933 – e studioso delle antichità agrigentine (Ad Agrigento lo si è completamente dimenticato). E posto migliore ai miei libri, altro grande amore della mia vita, non potrei di fatto destinare, ora che essa declina, serenamente, verso il tramonto…

Roma,Gennaio 1994 Pietro Griffo

Categoria: Agrigento RaccontaTag: agrigento racconta

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