NOTA SUL SENATO DI AGRIGENTO
Di David Asheri
Mi limito ad una breve nota sul numero dei senatori di Agrigento nel II e I sec. a.C., problema assai discusso negli ultimi anni.
Secondo 1G XIV, 052 (1. 10) Agrigento aveva una «sugklhtos ri», cioè un senato di 110 membri. Si presenta subito il problema cronologico di questa epigrafe, che viene tuttora variamente datata tra il penultimo decennio del III sec. e la metà del I a.C., benché vi sia pieno accordo nell’attribuirla al periodo romano (nota 1), trattandosi di un decreto in onore di un Siracusano per servigi a Roma. La divergenza sostanziale tra lo varie opinioni consiste nell’at tribù ire questa iscrizione al periodo anteriore o posteriore al 193, l’anno della pretura di Scipione (Asiageno), che molto verisimilmente fu colui che legiferò lo leggi de senati cooptando poco dopo il rincalzo coloniario dedotto dal pretore Manlius Vulso (2). Queste leggi stabilivano tra l’altro che il numero dei senatori appartenenti ai nuovi coloni non doveva superare quello dei senatori appartenenti ai veteres cives di Agrigento (Cic., Verr. II, 123). Non si può dire se, oltre a questa stipulazione, che è evidentemente il risultato della recente ripopolazione della città, Scipione facesse altre innovazioni nel numero, composizione, censo eco. dei senatori (con regolamenti analoghi a quelli di Claudius Pulcher per Halaesa, ibid. 122), o se invece lasciasse tutto come era precedentemente, limitandosi solo a legiferare sulle regole della cooptatio (3).
Ma siccome Cicerone presuppone pel periodo di Verro il caso limite, per cui, morto un senatore dei veteres, ex utroque genere par numerus reliquus esset (ibid. II, 124), si è dedotta la logica conclusione che il numero dei senatori era, dopo Scipione, dispari. Per conseguenza, IG XIV, 952, col suo numero di 110, rifletterebbe le condizioni anteriori al 193, ed in tal caso bisognerebbe anzi arrivare sino al 220-218 a.C. per datare l’epigrafe, perché dopo Agrigento fu occupata dai Cartaginesi e dai Romani, con enormi stragi tra senatori e cittadini, a rinsanguare le quali venne infatti dedotto il rincalzo da Manlius (4). In altri termini, se al tempo di Verre il numero era dispari, Scipione avrebbe riorganizzato il senato se non altro aumentando il numero dei suoi membri di una unità, riservata ai veteres in casi limite. Coloro che invece tendono a datare l’épigrafe post 193 per altre ragioni (p. es. paleografiche) pensano che nel numero 110 non sia incluso il presidente (detto a 1. 3, per quell’anno, paraprostatas ), dimodoché anche questo documento attesterebbe in realtà un senato di numero dispari, cioè di 111 membri, numero che per di più è divisibile nelle tre tribù doriche (gli Illei sono menzionati al. 5): ogni tribù avrebbe quindi 36 senatori e un presidente (5).
Senonché, queste interpretazioni sollevano difficoltà e complicano le cose inutilmente. Innanzitutto, quando un documento ufficiale come l’IG XIV, 952 parla di una « sugklhtos ri», », ciò vuol dire che l’istituzione si chiama cosi, esattamente come nell’uso ateniese si parla della ‘ Bulé dei Cinquecento ’. È inammissibile che in un testo simile venisse sottratto dal totale il presidente, che dopo tutto era senatore come tutti gli altri, soltanto perché nominato precedentemente in quanto presidente del senato e dell’assemblea che passò il decreto per Demetrio. Mi pare che l’epigrafe parli chiaro: quando la halìa decretò la prossenia a Demetrio, Agrigento aveva una sugklhtos di 110 membri. Prima facie, ovviamente, questo numero pari esclude senz’altro la possibilità del caso limite cosi come viene presentato dalle parole di Cicerone, perché allora il numero divenne pari solo in seguito alla morte di un senatore.
L’ipotesi di un senato di 111 dopo Scipione risolve questa difficoltà; ma ne solleva altre. Come giustamente rilevava il Gabba (6), Agrigento farebbe eccezione tra i senati municipali, che, di regola, erano di numero pari. Ma vi è di più. Se veramente si era creata la parità dei due genera dopo la morte del senatore, era ovvio che per legge dovevasi rieleggere uno dei veteres, perché eleggendo uno dei novi, questi ultimi avrebbero avuto la maggioranza di un seggio, cosa esplicitamente proibita dalle leggi di Scipione. Il caso sarebbe stato risolto dal senato stesso, senza bisogno di rivolgersi a Verro. E invece, come narra Cicerone, si rivolsero al pretore romano vari candidati, e non solum veteres, verum etiam novi (II, 124).
Gabba suppone che forse non era stato possibile trovare un accordo tra i due genera in parità sulla cooptatio del nuovo senatore, oppure che la parità fosse sostenuta da alcuni e negata da altri per discordanza sulla appartenenza di taluni ai due genera, e suggerisce anche che la sproporzione troppo evidente tra la maggioranza dei novi nella popolazione cittadina (maggioranza sempre in aumento per lo continue immigrazioni) e la maggioranza politica precostituita dei veteres al senato fosse forse « un elemento non trascurabile di discordie intestine » (7). In tal caso, credo, bisognerebbe però supporre che tra i veteres e i novi esistesse un vero e proprio contrasto, sociale e politico, come se si trattasse di due classi antagoniste, e che questo contrasto avesse conservato la sua vivacità ben quattro generazioni dopo il rincalzo di Manlius.
Bisognerebbe anzi ritornare alla tesi dello Schubring (8), il quale era convinto che tra i due genera non vi fosse commercium, e quindi anche connubium (fraintendendo il termine usato da Cicerone in Verr. II, 124); questa teoria fu già sufficientemente criticata dallo Holm (9) e non ha fondamento serio. Io penso che la distinzione tra i due generi si era conservata per più di un secolo (e continuò certo a mantenersi anche dopo Verre) non grazie ad antagonismi sociali o altri, bensì nello stesso modo che si conservavano per secoli nelle città greche le distinzioni tra tribù, fratrie e simili. È del resto legittimo supporre che i nuovi coloni dedotti da Manlius venissero iscritti in una nuova ed apposita phylè di «Neopolitai », come si faceva spesso in casi di rincalzi coloniari, di immigrazioni organizzate o anche di conferimenti in massa della cittadinanza (per la Sicilia, basti l’esempio di Siracusa). L’appartenenza alle tribù, come si sa, si trasmetteva per eredità; forse solo i veteres erano ancora suddivisi nelle tribù doriche (delle quali quella degli Ilici è attestata per Agrigento), e come questi sapevano benissimo a quale delle tre appartenevano, anche i novi sapevano di essere membri della phylè dei Neopolitai .
Naturalmente, quando Scipione legiferava, tra veteres e novi esisteva indubbiamente una differenza evidente, se non altro per la diversa origine, e si pensò allora necessario assicurare la maggioranza dei veteres al senato per salvaguardare le istituzioni locali da eventuali innovazioni, che gli elementi nuovi ed estranei avrebbero potuto desiderare. Al tempo di Verre, invece, la distinzione tra veteres e novi si era ormai ridotta ad una semplice connotazione di carattere tradizionale, come quella tra le tribù doriche. Cicerone, del resto, presenta l’intervento di Verre proprio come un’offesa alle consuetudini tradizionali.
Se, dunque, non esisteva una essenziale rivalità tra i due genera al tempo di Verre, perché si rivolsero al pretore anche i novi! Credo che la spiegazione sia semplice. Il senato aveva tuttora 110 seggi; le leggi di Scipione precludevano ai novi di diventare maggioranza; le leggi non prevedevano in maniera esplicita il caso di parità. Sotto Verre, i veteres possedevano la minima maggioranza possibile, cioè 56 seggi, e i novi 54. Mori uno dei veteres: si poneva ora il problema se la parità fosse lecita secondo le leggi di Scipione, e si potesse quindi eleggere uno dei novi, oppure bisognasse restituire ai veteres la maggioranza minima che avevano prima. Era forse la prima volta che si poneva un caso simile, ed è quindi da credere che proprio per questa ragione si rivolsero a Verro i candidati di ambo i genera. Verre dette la sua commendano al maggior offerente, come era da aspettarsi, e questi era uno dei novi. Cicerone, per considerazioni accusatorie, faceva sua una delle interpretazioni delle leggi di Scipione che aveva sentito a Agrigento, quella dei veteres, i quali evidentemente erano convinti che, se non lo scriptum, la voluntas della legge era certo che i veteres avessero la maggioranza.
I novi potevano dal canto loro obiettare che l’unica situazione prevista e vietata dalla leggo è la maggioranza dei novi: ergo, la parità è lecita. E del resto, se Cicerone cita letteralmente la legge quando dice che in essa cautum est … ne plures essent in senatu ex colonorum numero quam ex vetere Agrigentinorum (II, 123), l’interpretazione dei novi non sembra affatto sbagliata: senza voler riabilitare Verre, direi che, tutto sommato, la sua colpa si riduca in questo caso ad aver preferito un candidato non meno legittimo degli altri, che gli offriva il massimo.
L’unica difficoltà che incontra l’interpretazione qui proposta sta nella frase ex utroque genere par numerus reliquus esset dopo la morte di un senatore. Ma forse, semplificando, intendeva dire che, col cooptare uno dei novi, si sarebbe giunti alla parità, cioè a 55 seggi per genus, cosa che, secondo i veteres, era vietata dalle leggi di Scipione (10)
Note
(1) Vd. ultimamente Ardizzone, « K0KLLOS » XIII (1967), p. 172 sgg., con la lett. precedente sulla datazione dell’epigrafe; a cui si aggiunga Hùlsen, ‘ Akragas ’ PW, col. 1191; Ashby, «JRS»V (1915), p. 24; Busolt, Or. Stanti, I, p. 443-4, n. 2; Huttl, Verfassungsgeschichte von Syrakus (1929), p. 72 a nota; Philip, ‘ Regium’ PW, col. 493; Forni, « K0KLLOS » III (1957), p. 65; Manganaro, «Historia » XIII (1964), p. 430.
(2) Accetto senz’altro le identificazioni di Manlius Vulso e dell’Asiageno che propone il Gabba, « Athenaeum » n. s. XXXVII (1959), p. 310 e nn. Tuttora pensano all’Africano Ghinati («K0KLLOS » V (1959), p. 136 n. 73) e Ardizzone, op. cit. p. 173.
(3) Cfr. Ghinati, toc. cit. Sul problema della cooptatio vd. Gabba, op. cit., p. 304 sgg.
( 4) Vd. Ashby, toc. cit. e Ghinati, loc. cit.
(5) Vd. Manganaro, « KOKAAOS » IX (1963), p. 210 sg. e cfr. Ardizzone, op. cit., p. 173 sg.
(6) Op. cit., p. 315. Agrigento divenne però municipio assai più tardi
(7 ) Op. cit., p. 315 sg.
(8) Historische Topographie von Akragas, a p. 225 della trad. ital. di Toniazzo (1887).
(9) Geschichte Siciliens im Alterthum, III, p. 169 n. 14 della trad. ital. di Kirner (1901).
(10) Chi accetti l’ipotesi che il numero dei senatori non fu mutato dalle riforme di Scipione non può naturalmente tener conto di questo dato per datare IG XIV 952. Restano le considerazioni paleografiche, a quanto pare poco decisive (vd Huttlloc. Cit)