Il Quartiere di S. Giacomo di Zina Vivacqua.
Quando ero ragazzina mi capitava spesso di passare per queste strade. Con lo zio prete, che aveva il suo ufficio proprio dentro il vecchio “baliato”, alias “Istituto Gioeni”, andavamo quasi tutte le domeniche al “teatrino”: una filodrammatica curata con molta attenzione dai Salesiani, che metteva in scena a ritmo continuo spettacoli strappa lacrime, come “I due sergenti”, e comiche divertentissime.
Vi facevano parte giovani universitari che frequentavano l’Istituto, allora davvero centro di cultura e di aggregazione giovanile sotto la guida di due preti ancora molto ricordati: Don Pennisi e Don Scornavacca. Quando, dunque, facevo queste strade mi assaliva un’insofferenza che rasentava il disgusto, lo sconcerto, il brivido. Quei vicoli e quelle case, povere allora come adesso, mi sembravano il massimo dello squallore e della bruttezza, mi apparivano come un concentrato inquietante di miseria e di indecenza e mi chiedevo come potesse la gente abitare, senza esserne travolta, luoghi come quelli. Adesso, quarant’anni dopo, chissà perchè, chissà come, anch’io sono qua, persa in queste strade quasi deserte, tra catapecchie corrose dal tempo e dall’erba che ne divora l’intonaco e i tetti. “E’ destino che io debba avere sempre ciò che non volli”. Eppure, ora mi sono abituata a questi silenzi. Parafrasando Leopardi : ” In questa rimota parte della città abitando……” ho come ritrovato me stessa.
Questo quartiere mi somiglia. Queste strade, queste case sono come me, vecchie e sopravvissute, come me hanno l’aria triste di chi non sa più perchè va avanti, perchè continua a vivere. Come me vivono fuori dal tempo e dal mondo. Spesso attardandomi alla finestra, osservo questa scena quasi sempre vuota. Piazze, cortili, scale deserti, senza anima viva. E’ tutto così remoto e logoro da sembrare irreale. A rompere il silenzio, ad animare la scena per qualche istante un gatto nero o un cane o un militare che scappa dalla caserma forse per tornare a casa. Una vecchia vestita di nero e con le maniche rimboccate, ogni tanto, si avvicina alla ringhiera che delimita la strada per stendere i suoi poveri stracci o per annaffiare i suoi gerani, anch’essi collocati sul marciapiede, dirimpetto all’uscio di casa. Poi più niente. Per ore. Come se tutti fossero morti o emigrati in altri pianeti.
Ci sono spazi insoliti da queste parti: slarghi improvvisi, scalinate ampie, cortili nascosti, giardini di limoni che svettano dietro muri antichi, araucarie che superano i campanili delle chiese, disegnate con rigore estetico che fa impazzire. Dappertutto tracce di architettura passata, manufatti pieni di eleganza e di grazia straziati da volgari ritocchi succedutisi nel tempo. Ma non c’è vita, non ci sono donne che chiacchierano sugli usci di casa o da un balcone all’altro, ragazzi che passeggiano, bambini che giocano. La vita si è fermata altrove, lontana almeno un paio di secoli da qui. Così come è lontana da me, millenni, milioni di anni luce. I personaggi di queste contrade recitano a soggetto. Io li conosco tutti, talmente sono pochi. C’è il rigattiere netturbino che raccoglie cassette da frutta, ferri vecchi, stracci e pezzi di legno! E accumula tutto, con cura, dentro un vecchio rifugio di memoria bellica degradato a ricettacolo di ciarpame e chiuso alla meglio da due assi inchiodate.
E’ un omino buffo. Si muove come fosse animato da un congegno meccanico. Le braccia ballonzolano attorno al corpo accompagnando il movimento convulso delle gambe arcuate che più che andare, saltellano. Veste sempre ad un modo in tutte le stagioni: un paio di pantaloni grigi ed una maglia blu dalle maniche rimboccate fino al gomito. Dapprima mi sorprendeva questo particolare e non capivo come potesse tenere nude le braccia anche al freddo di gennaio. Poi ho capito perchè. Dopo il pasto di mezzogiorno i militari depositano gli avanzi dentro i cassonetti allineati a qualche distanza dalla caserma. Lui arrirva all’imbrunire provvisto di sacchetti di plastica e raccoglie, a mani nude, pasta col sugo e verdure crude o cotte, pezzi di pane e di carne. Riempie i suoi sacchetti e li porta via per nutrire una piccola muta di cani bianchi a pois neri (sì, proprio a pois, non a chiazze o macchie ma a bolle rotonde e regolari) che lo seguono trepidi e disciplinati e che hanno imparato a camminare come lui muovendo sincronicamente col passo del padrone le quattro zampe e la coda. E’ un vero spettacolo!
La piccola comitiva dopo ogni operazione appare soddisfatta, l’omino va avanti con l’aria di un generale che ha vinto per l’ennesima volta una battaglia. C’è un altro personaggio che ama gli animali e colloquia con loro esclusivamente o parla da solo, disprezzando le persone che lo prendono in giro e lo guardano sornione e beffarde. E’ un vecchietto smilzo e ordinato; suppongo che avrà una brava moglie a casa poichè gira sempre stirato e lindo, con le scarpe lucidate e la coppola fiammante. Si ferma al centro della piazza e subito un nugolo di gatti e di cani (qui circolano liberamente senza collare e non temono l’accalappiacani) gli si fa attorno. Deposita a terra un buon numero di cartocci che contengono cibo e dà la precedenza alle cagne e alle gatte gravide o che allattino. Nel frattempo parla con ciascuno di loro e sono convinta che lo ascoltino. Di tanto in tanto tira fuori un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e pulisce con delicatezza gli occhi ai gatti raffreddati o ai cani cisposi.
Il discorso è condito di raccomandazioni e rimproveri ma anche di carezze e di attenzioni preoccupate. Dopo il pasto il piccolo esercito di animali abbandona la piazza per le escursioni nel quartiere. Lui si rammarica perchè qualcuno se ne va senza ringraziarlo. Una volta, scoprendomi alla finestra mi gridò: “Sono ingrati come i cristiani” Padre Terrana più che un personaggio è l’emblema, il nume tutelare, il simbolo onnipresente di questo vecchio quartiere. Non si può immaginare questo quartiere senza questo vecchio prete. C’è quasi una simbiosi, un’interazione semplice e naturale tra queste due entità: il prete ed il quartiere hanno finito con l’identificarsi l’uno nell’altro. La vecchia chiesa di S. Giacomo, di cui padre Terrana è parroco da mezzo secolo, è il cuore delle attività sociali e religiose, il punto di incontro delle famiglie, dei ragazzi e dei bambini, il luogo delle cerimonie allegre e meste, delle attività culturali e, persino, delle riunioni di condominio.
Padre Terrana vive il quartiere di giorno e di notte, ombra benefica e protettrice dei poveri, dei vecchi e degli ammalati. Va in giro a tutte le ore con quella lunga tonaca sbiadita e la sciarpa di lana attorno al collo. D’inverno aggiunge soltanto al solito abbigliamento un piccolo “basco” blu per ripararsi dal freddo pungente e dal vento gelido che attraversa i vicoli di questa collina. Il Distretto Militare, a pochi passi dalla Chiesa è l’altro polo della sua vita quotidiana. Il suo incarico di cappellano militare è il filo logico che tiene insieme due istituzioni antitetiche e, a mio parere, inconciliabili. E’ uno di quei preti di cui si è persa la memoria ora che vanno di moda i clergyman e le professioni più ardite per i giovani sacerdoti, le auto di lusso e l’impegno politico. Lui è rimasto qui in tutti questi anni a somministrare i sacramenti alla vecchia maniera, a portare l’olio santo ai moribondi, a sposare i giovani, a far la predica con la semplicità e l’innocenza del buon tempo passato, quando la parola elegante non era richiesta per fare un sermone e la gente che andava in chiesa era senza pretese e soprattutto senza partito.
Possiede da qualche parte un podere da cui ricava uva ed agrumi. Non vende il prodotto della terra ma lo distribuisce, in particolare a tutti i suoi parrocchiani, anche a quelli che non vanno in chiesa. Ogni anno, secondo le stagioni, c’è una sporta di uva e un’altra di limoni per ogni famiglia del quartiere. E’ sempre gentile e disponibile, prodigo di enfatiche lodi nei confronti di tutti gli studenti di questo quartiere che riescono ad ottenere buoni voti a scuola ed a laurearsi. Insomma è come un buon papà che segue tutti e non si dimentica di nessuno. Gli rimproverano la classica cantilena e il salmodiare monotono di curato di campagna quando fa la predica e dice messa. Piccoli nei a mio parere per un prete senza altre ambizioni che quelle di fare il prete esclusivamente il prete, umilmente il prete. Ce ne fossero molti di preti così! Soprattutto perchè non devi badare a cercarlo quando ne hai bisogno. Lui sta sempre lì, con la pioggia e col sole, come un albero antico che nessuno pensa di sradicare. Sta sempre lì sul sagrato della sua chiesa, sulle scale del suo palazzo, sulla piazza a conversare con qualcuno e non mi capita mai di uscire di casa e di non doverlo incontrare. E’ lì immancabilmente e ti rassicura che niente è cambiato, che ti puoi fidare perchè la vita continua e continuerà così per molto tempo ancora e forse per sempre. Nota.Don Vincenzo Terrana è deceduto nel mese di Dicembre del 1997.Il Distretto militare è stato soppresso nel 1997.
https://www.spreaker.com/episode/42054683
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