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Agrigento. Il bandito Capraro e il sequestro fallito

7 Novembre 2015 //  by Elio Di Bella

 

“Il mattino del nove luglio 1870 sei malfattori a cavallo armati sino ai denti, a dir di taluni testimoni, con fucili a doppia canna e revolver, vestiti a foggia di militi a cavallo, ed annunziandosi per tali della compagnia di Girgenti in cerca di briganti, andarono nell’ex feudo Giardinelli territorio di Sciacca del signor Parlapiano Calogero, cui fecero tanti ossequi, furono ben trattati ma dopo i pranzo si scoprivano per profughi, e chiedeano consiglio come regolarsi al Parlapiano; ed indi verso sera, chiudendo tutti i lavoranti al di lui servigio in un magazzino, lo sequestrarono conducendolo seco e lasciando l’ambasciata da recare alla sua famiglia di mandare onze 10 mila”.

Così alla corte di assise  di Girgenti nell’udienza del  6 maggio 1873 il pubblico ministero descriveva i primi momenti del lungo sequestro di uno dei più facoltosi proprietari di Sciacca, il settantaquattrenne Calogero Parlapiano (Archivio di Stato inventario 10 fascicolo 12). Fu una delle imprese più clamorose del  bandito saccense Vincenzo Capraro, ma più celebre il conclusivo e inatteso  colpo di scena.

Andiamo per ordine.

Parlapiano venne bendato dai malfattori e condotto nella casa rurale di don Ferdinando Imbornone dove rimase una notte. Il giorno seguente lo bendarono, lo vestirono da donna e lo fecero cavalcare su un asino per condurlo a Sciacca in  casa di un certo Giuseppe Mirabile. E’ qui che poco tempo dopo il sequestrato, anche se  bendato,  si rese conto che si trovava proprio a Sciacca  grazie al fatto di “sentir il linguaggio dei transitanti, il bandizzare del pesce ed il suono della musica”, attesta la sentenza.

In quei giorni fu ben guardato a vista da almeno due o tre dei sequestratori. Disse al processo che fu ben trattato, anche perché la sua morte avrebbe fatto svanire nei sequestranti la speranza di un grosso riscatto.

I sequestranti imposero a Parlapiano di ricopiare di proprio pugno le minute delle lettere che loro stessi preparavano. Nelle lettere che vennero inviate alla famiglia del sequestrato chiesero dapprima 100 mila onze e poi  50 mila, altrimenti avrebbero ucciso il loro vecchio padre.

Ma quando Parlapiano, singhiozzando, finiva di copiare anche quella terribile minaccia, gli stessi sequestratori lo rincuoravano dicendoli che “ se pur gli infami ed ingrati figli nulla mandassero, lo avrebbero posto in libertà”.

Passarono almeno venti giorni quando accadde un imprevisto: uno dei sequestratori, Onofrio Montalbano Gianguona, si ammalò e cominciò a delirare. I suoi compagni non avevano alcuna considerazione per il poveretto ed anzi lo insultavano e lo minacciavano perché smettesse di lamentarsi.  Quei suoi continui lamenti potevano essere ascoltati dai vicini. L’abitazione in cui Parlapiano e i suoi sequestratori si trovavano era infatti nel centro cittadino.

L’unico ad avere pietà del bandito malato era Parlapiano che difendeva il povero brigante febbricitante e   pregava gli altri sequestratori di aiutarlo, di curarlo e di chiamare un dottore. Ma ciò non era evidentemente possibile. Nei giorni seguenti la febbre s’alzò e Montalbano continuava a lamentarsi. Sopragiunse nella camera un altro brigante che gli raccomandava di chiudere la bocca, chè già i vicini erano in subbuglio e si chiedevano il perché di quei lamenti. Ma Montalbano rispose che aveva dolori ovunque e che aveva bisogno di medicine.  I due briganti continuarono a questionare, il Montalbano, esasperato, raccolse le forze, assalì il compagno e lo ferì. Questi, sanguinante,  cominciò a gridare per il dolore e a  chiamare in suo soccorso Vincenzo Capraro che si trovava in quel momento in casa. Accorso  Capraro e altri della banda,  assalirono Montalbano e infine Capraro lo finì con un colpo di revolver. Intanto  i briganti si resero conto che i lamenti, le grida furiose, le richieste di aiuto, e soprattutto lo sparo erano stati sentiti dai vicini e da alcuni passanti e quindi fuggirono col brigante ferito, ma lasciando nella casa  il sequestrato Parlapiano e il morto.

“ Dopo circa mezzora – leggiamo nella sentenza – la forza pubblica entrò in quella casa e trovò il cadavere del Montalbano e l’infelice vecchio Parlapiano tremante, vestito in bianco e coi calzoni orinati” .

Al processo celebrato a Girgenti Vincenzo Capraro, del fu Ignazio, di anni trenta, contadino,  con domicilio a Sciacca, venne condannato ad anni 30 di lavori forzati, all’interdizione dai pubblici uffici, all’interdetto legale durante la pena, alla sorveglianza speciale da parte della pubblica sicurezza per anni dieci, alle spese del procedimento, al risarcimento dei danni. Fu questa la prima importante condanna comminata al bandito Capraro che da quel giorno passò alla storia del banditismo italiano. Da allora, rare volte fallì un’impresa. Ma quella se la ricordò per un pezzo.

Elio Di Bella

Categoria: Agrigento RaccontaTag: agrigento racconta

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