Titolo dell’opera da cui è estratto il testo: “Consigli a mia figlia del barone Ferdinando Malvica” del 1859
CONSULTORE DI STATO, CAVALIERE DEL SACRO MILITARE ORDINE COSTANTINIANO, REGIO STORIOGRAFO DI SICILIA, MEMBRO DELLA SOCIETÀ REALE BORBONICA DELLE SCIENZE EC. EC.
Vieni ora ad Agrigento. Quando questa città fu greca e grande, si chiamò Agragante dal fiume Agras, che là presso scorrea, o in grazia di un semideo, da Giove generato; poiché i Greci , guardando tutto colla loro accesa fantasia, davano origini misteriose ai paesi dagli avi loro fondati.
La storia di questa famosa città presenta un contrasto singolare. Ella non venne meno a poco per volta, come sarebbe il cammino delle cose umane, e la sorte dei grandi imperi, che a poco a poco s’innalzano, e a mano a mano discendono. Ma, per contrario, vinta da Cartagine, soffrì dalla barbarie di questa tutte le amaritudini della fortuna. Saccheggiata manomessa annientala dal furore punico , cadde da mollezza suprema, e da opulenza infinita nell’estremo di ogni angoscia.
Ma i mali, cui Agragante miseramente soggiacque, per la ingiustizia e l’ingordigia di Cartagine, Roma li fece dopo soffrire ad essa, facendola sparire dal mondo.
Agragante non disparve, ma rimase in vita , rialzandosi pure dalla sua caduta, e ristorando le infiacchite sue forze , avvegnaché non avesse più presentato che la larva dell’ antica immagine. Quando ella poscia divenne ancella di Roma, e fu tra le decumane città inscritta, perdette pure colla fama il nome antico, ed Agrigento chiamossi.
Or le rovine dei tempi agrigentini, secondo alcuni han detto, non son quelle, che sotto la presente denominazione ci si mostrano. Ma costoro, mentre spargono dubbi, non li dileguano, nè correggono minimamente quanto altri avea fatto con perizia , e con diligenza.
Egli è certo che i nostri scrittori convengono, che in Agrigento sorgevano tempi in onore di Giove Olimpico, di Esculapio, di Ercole, della Pudicizia, di Giunone Lucina, di Cerere e Proserpina, di Giove Atabirio, di Minerva, di Giove Polieo, di Vulcano, di Castore e Polluce , ed un tempio eravi della Concordia.
Ma qui nascono le quistioni, e s’interrogano a vicenda gli archeologi, per conoscere i luoghi, ov’erano essisituati; poiché gli antichi scrittori son muti sul loro sito.
Certamente le rovine, che qua e là ingombrano l’ agrigentino suolo, debbono appartenere a quei templi; quindi in mezzo a loro dobbiamo rinvenirli.
Il Fazello fu il primo in Sicilia , che con grande studio, frugando in mezzo alle oscurità di quelle sacre reliquie, consultando gli scrittori, esaminando le tradizioni, mettendo a severo scrutinio ogni elemento, che dalle stesse macerie emergeva, fissò i siti e i nomi di quei sublimi edifizi.
Egli ha errato in più cose : ma il suo vergine pensiero non ha in molte altre ricevuto dal tempo che luce maggiore. Ed a lui quindi deesi grandissimo onore, che , senza nessuna fiaccola , dileguò le dense tenebre, che ivi si adunavano. Quindi io li verrò indicando i luoghi dell’agrigentina grandezza colle scorte migliori, che nel mio giudizio ho fissato.
E principiando dal tempio cosi chiamato della Concordia, dirò eh’ esso fra lutti i monumenti , che in Sicilia furono, è il più che si conservi , si che possiamo considerarlo in tutte le sue parti , perchè in piedi tuttavia saldo, sfida potentemente i secoli, ed il perpetuo vandalismo umano. Esso dee stimarsi di compiuta bellezza , per l’accordo delle parli , la imponenza , la grandezza , la severità dello stile , congiunta a si sublime semplicità , che forma la meraviglia dei dotti.
A chi fosse stato questo tempio consacralo è ignoto: poiché chiamossi della Concordia , per una iscrizione latina, che non si sa in qual luogo sì sia rinvenuta, e che non può in verun conto riferirsi ad un tempio di greca fattura. La qual cosa illuse si fattamente il Fazello, che lo strascinò nel gravissimo errore di battezzarlo con quel nome.
Gli altri che vennero dopo, e che ripetono, tenore solito, ciò che un illustre ingegno ha annunziato, senza pensare se vero o falso egli sia , lo ribadirono alla cieca, trasmettendolo alle generazioni che successero.
Giunti però tempi di maggior filosofia , si osservò la stranezza di quel concetto : ma per difetto di elementi siamo nella medesima oscurità , poiché torna più facile all’uomo riconoscere l’errore altrui che indagare la verità : quindi lo chiameremo anche noi tempio della Concordia , non perché a quella dea sia appartenuto, ma per tacita convenzione. Nè voglio entrare nella quistione dagli eruditi mossa intorno all’epoca , nella quale fu costruito , se prima della battaglia d’Imera, o dopo l’età di Diodoro. Imperciocché queste disquisizioni si sono spesso elevate dalla sottigliezza e dalle vanità archeologiche, le quali rifuggono dai miei divisamene, e non possono appartenere al disegno di queste carte.
Il certo è che questo tempio ha inspiralo in tutte le epoche, e in lutti gli uomini sentimenti di maraviglia; ed è fuor di dubbio , che sia stato innalzato nelle epoche migliori dell’ arte. E per avere un’ idea della sua grandezza basta indicare ch’esso è lungo 150 palmi , e largo 65 : e le tredici colonne che nei lati maggiori, e le sei che nei minori Io sostengono, colpiscono per la loro sveltezza , e producono mirabile effetto.
Il tempio di Giunone Lucina non è gran fallo lontano da quello della Concordia , e l’occhio naturalmente va a posarsi su quest’altro classico monumento; il quale, sebbene non si conservi nel modo di quello, perchè guasto in molte parti, ed in altre crollato, nè sia dello stesso pregio, e delle stesse elleniche forme, mantiene il carattere , lo stile , l’effetto; ed è una delle più belle opere dell’antica Agrigento.
In questi ultimi tempi si è avuto per i monumenti di Sicilia più carità che non se ne ebbe in tutti i secoli passati : e dagli scavi che con somma intelligenza si sono eseguiti son venuti in luce molti ruderi d’inestimabile pregio. Là dove, non molli anni addietro, si vedeano mucchi di pietre e di macigni, con pezzi di capitelli, di colonne, di cornici , ora tu riconosci l’antico monumento, che da queste macerie stesse veniva un giorno formato. Difatti. niuno sapea che un tempio di Ercole ivi fosse , ed ora tutti il sanno , e ricomparisce con disegni , che il senno archeologico, guidato dagli antichi scrittori , e sostenuto da indagini e da esatte osservazioni, ha fallo sorgere dai suoi frantumi.
Ignoravasi ove fosse il tempio di Giove Atabiri, ed oggi si visita il luogo ov’egli fu, e s’indica allo straniero, che ne iva invano frugando gli avanzi.,. Ma vieni ora, figlia mia, a contemplare colla mente le reliquie del più maestoso monumento che si fosse cretto in Sicilia, e che era dei più magnifici e dei più grandi di tutta Grecia. Parlo del tempio di Giove Olimpico.
Antichi e moderni scrittori lo hanno minutamente descritto, encomialo, raccomandato, come opera di un sublime pensiero.
Gli Agrigentini lo innalzarono , dopo la battaglia dimora; poiché le città siciliane , ch’ebbero parte a quell’ impresa, ricche di tulle le spoglie dei vinti, furon decorate di si glorioso trionfo : quindi Agrigento, dopo Siracusa, fra tutte potentissima, eresse al massimo dei Numi quel superbo edilìzio lungo 160 piedi e largo 60, in segno di grato animo, per l’alta vittoria ottenuta.
Ma a noi non tocca che guardare il luogo ov’egli sorgen, e sapere che tutte quelle immense rovine gli appartengono.
Le quistioni degli eruditi sono state interminabili; e certo dottissimi uomini , e per fama illustri , han valorosamente pugnalo in quell’agone (t). Ma siccome non esistono che spezzature di colonne, frantumi di capitelli , di architravi , di triglifi , si che formano monti di macerie; cosi è da ammirare lo studio e la fatica di tanti nobili intelletti, che colla scorta di Polibio, di Diodoro, del Fazello, han cercato di dar vita a quei corpi morti, e far risorgere, colla potenza dell’ingegno, l’antica opera dalle sue rovine.
Ma le specialità maggiori, ch’essa presentava, erano alcune figure colossali, chiamati atlanti o telamoni, perchè situate in atlantica posizione, quasi sostenessero un gran peso, e delle quali si sono rinvenute alcune parti , che non mettono in dubbio il fatto.
Savvi per cui creduto , che quei giganti servissero a sostenere i portici , altri che , in luogo di colonne, sostenessero i capitelli in forma di cariatidi , i terzi che fossero di puntello agli architravi : alcuni hanno opinato che venissero addossati ai pilastri, ch’ erano aderenti alle mura del tempio, e da ultimo fuvvi chi avesse sostenuto che fossero incastrati sulla interna fronte dei pilastri della cella. E qui fiera guerra guerreggiano , ed ognuno si fa forte della sua opinione, sia illudendo colia fantasia sé stesso, sia con pensieri più o meno validi ragionando.
Noi non entriamo in quel campo di battaglie, che sarebbe tempo interamente perduto : ma se pur dovessimo appigliarci ad una delle predicate opinioni , non esiteremmo a preferir l’ultima, come, a sentir nostro, più plausibile e migliore.
Gli antichi tacciono di queste gigantesche figure , che davano al tempio siciliano un cavaliere di singolare novità su tutti quelli di Grecia e di Roma. Il che farebbe divenire oltremisura strano il si lungo favellar dei moderni , se per avventura il tempio non fosse stato da quelle moli decorato.
Ma siccome il silenzio di Diodoro proviene dallo aver egli descritto la parte esterna , e non già l’ interna del gran monumento, cosi non doveasi dar pensiero dei giganti. Al che si arrogo la testimonianza del Fazello, che dei giganti parla , essendo I’ ultima parte di quell’edifìzio crollata a’ tempi suoi : e finalmente i cimeli, che di colossali figure si son trovati, suggellano l’esattezza delle ricerche artistiche, ed il giudizio dei valorosi, che quella sentenza han sostenuto. Dunque il tempio di Giove Olimpico in Agrigento, decorato di atlanti erculei , senza entrare nel loro numero, perchè in un campo d’ipotesi mi smarrirei, deesi reputare una delle opere più ammirande dell’antichità : ed il pensiero che mosse la sapienza agrigentina nell’ introdurre i giganti in un tempio a Giove dedicalo, si fu per umiliarli in faccia al Nume, cui hanno osato far guerra, destinandoli a sostenere il tempio di lui che gli avea fulminali : ovvero in allusione ai Cartaginesi , con tanta gloria dai Sicoli disfatti, siccome avean già operato i vincitori dei Cani e dei Persiani nei loro monumenti, quando nell’ugual guisa introdussero gigantesche figure, per alludere ai trionfi, che sopra costoro, battuti ed umiliati, avean riportato.
E pure di tanta mole , con si profondo consiglio concepita, con si allo magistero innalzata, non resta che l’ombra del nome, e le rovine.
Vieni or qua, figlia mia, e mira quel sepolcro, che vuolsi di Terone. Ruderi informi presenta, talché lasciando noi le consuete visioni degli archeologi, non possiam dire, se pur sepolcro realmente sia. E sommamente ne duole questa incertezza : perciocché Terone fu Principe di Agrigento di tanta nobile fama,
che il suo reame a grande altezza per lui si elevò.
Quindi carissimo ne sarebbe stato onorare il luogo che ne chiuse la salma. Egli fioriva negli anni 470
prima dell’era nostra, e quando Gelone la gloria dell’intera Sicilia formava. Principe di gran senno , col possente signore di Siracusa, per rassodare meglio il suo impero , in parentado si legò , e contribuì con esso al trionfo della battaglia d’ Imera. Sotto di lui i grandi monumenti della città si costrussero , i più nobili ingegni nella sua reggia si raccolsero , e mirabilmente si accrebbe l’ industria, il commercio, la civiltà agrigentina.
Tenne per sedici anni, come Diodoro dice , la signoria di Agrigento, ed in tutto questo tempo fu la repubblica amministrata con singolare equità; e perciò visse in piena grazia ed autorità presso i cittadini , e morto ebbe gli onori degli eroi, e fu come uno di questi venerato (1).
Pindaro lasciò in lode del prence siciliano parole ch’eterne durano ; e a noi giova innanzi questi preziosi cimeli ricordare gli slanci sublimi del tebano poeta
Ora ne spetta gir vagando sulle macerie antiche ; poiché li dissi in sul principio , che le rovine della vetusta grandezza ti potea sol presentare, sebbene tali da far tuttavia maravigliare le genti. Ecco in quei mucchi il tempio di Esculapio ; in questi quello di Vulcano; qua il cosi detto Oratorio di Falaride ; là il tempio di Giove Polieo ; più lunge quello di Castore e Polluce.
Ma una delle migliori e più ammirande opere dell’ agragantina potenza mirasi ne’ suoi acquedotti. Io che pur le moli di Roma e di Egitto avea veduto , ne restai preso di maraviglia ; e andavo meco medesimo ripensando alle più probabili cagioni, che avessero influito a tanta grandezza.
Incendiata da Gelone la flotta dei Cartaginesi, ucciso Amilcare loro condottiero, disfatto l’esercito nemico, ogni cosa dei vinti rimase preda dei Sicoli. E furono i prigionieri in tal copia, che non vi ebbe individuo, a cui non toccasse buona mano di schiavi, e alla costruzione dei privati e pubblici edifizì non addicesse. Ai cittadini di Agragante ne spettò un numero infinito. E si grande moltitudine di schiavi, dice Diodoro, avevano essi avuta, non solo perchè aveano somministrato gran numero di soldati, per l’impresa, ma perchè moltissimi dei barbari all’ inclinare della battaglia eransi sbandati, fuggendo pei luoghi mediterranei , e nelle agragantine campagne : ond’ è che caduti vivi in mano loro tutti quanti, la città riboccava di tal gente. Quindi la massima parte di costoro, fatti quasi di ragion pubblica, furono diretti a tagliar sassi, coi quali non solamente vennero edificati grandi templi , ma eziandio costrutte chiaviche sotterranee, per iscolar le acque della città (1).
Ecco, figlia mia, in queste parole del grande storico siciliano, riconosciuti i mezzi facili, con i quali alzaronsi in Agrigento, e nelle altre siculo città quelle superbe moli, che han maravigliato le genti.
Cosi l’opera che ti sto indicando fu delle più celebri del tempo antico. Tu ne potrai osservare le vestigi nella Villa Panitteri, nel giardino dei Sala, nell’orto dei Ficani, incavati nella rupe, e di sì sublime magistero, che dopo anni infiniti in certi punti fluiscono ancora. E quest’opera in un paese, in cui l’acqua scarseggiava, come scarseggia oggidì, e di aridità continua è minacciato, deesi reputare tra le più importanti , e le più insigni, che in quell’epoca si facessero. Diodoro ne parla con isplendide parole, e soggiunge , che soprintendente ed architetto di essa fu Feace, il quale per l’eccellenza del lavoro meritò che dal suo nome feaci quegli acquedotti si dicessero (2).
(1) Bib. si or. lib. Il, cap. VII.
(2) L. C.
Or si è guidati dalla voce medesima di uno dei più illustri uomini dell’antichità, qual fu lo storico di Aggira, più preziose ne tornano quelle rovine, e pare che con misterioso arcano della natura il tempo presente all’antico si ricongiunga. Io li ho fin qui parlato di ciò che sta sopra il suolo dell’agrigentina città…. scendi ora meco ad osservare ciò che giace sotto di essa. Imperciocché ella ha un’altra città dell’ugual grandezza, e forse maggiore, tutta incavata nel duro macigno del Carnico, sopra di cui è fabbricata Agrigento. Le quistioni che sorgono per quest’opera, la quale rimonta fuor di dubbio a vetustissimi tempi, sono varie intralciale noiosissime, perchè a nessun felice risultamento conducono.
Lionardo Vigo (1) intende che quei sotterranei siano la città di Cocalo, ed opera non già di Feace, come alcuni vogliono, ma di Dedalo, secondo l’opinione di Diodoro (2). E Dedalo, non mai Feace, a tempi di Cocalo vivea. Quindi l’origine sua rimonta a trenta secoli indietro : si che dovrebbesi reputare una delle opere più longeve che si fossero fatte a memoria di uomini.
Il duca di Serradifalco opina che i sotterranei del Carnico siano stati originariamente, a somiglianza di quelli di Egitto , semplici cave di pietra , convertile poscia in altri usi, per comodo degli abitatori, e col decorrer del tempo ingrandite, secondo che richiede- va lo il bisogno (I).
(1) Sugl’ Ipogei di argenti— Lettera a Niccolò Palmeri — Paler-1832.
(2) Lib. IV. cap. 30.
Questa sentenza è troppo vaga, I’ altra troppo determinata : e credo che nè l’una nè l’altra si appoggino a solide basi. Perciocché a me sembra che le cave di pietra non si formino con un disegno stabilito , facendovi grandi aule , che fra loro comunichino in guisa da far del tutto allontanare l’idea della perriera. Nè è concepibile che si fabbrichi una città, per condannarsi un popolo ad una notte perpetua , perchè priva della luce del sole e delle stelle, senza strade, senza trivi, senza casamenti, gli uni dagli altri disgiunti in un modo qualunque ; non ventilata, non facile ai commerci, non agevole ai traffici, insomma priva di tutto che a comunanze civili di uomini si appartenga.
Dunque non può essere la città di Cocalo , perchè una serie continuala di sale , fra loro a guisa di laberinto intralciate, come questi sotterranei sono, e con brevi spiragli per una luce morta, non costituiscono certamente una città : elle non possono essere che asilo di uomini perseguitali : e se la costruzione e lo stile di quest’opera non contrastasse al pensiero, potrebbero essere piuttosto giudicate catacombe, avendo alcun che di somigliante a quelle di San Gennaro di Napoli.
Ma mancando di nicchie , di altari , di sepolture , che in tutte quelle opere dei primi cristiani si rinvengono, quell’ idea non si può in verun conio sostenere. –
(I) Ani. folla Sic. voi. III.
Alcuni han voluto che fosse un serbatoio d’acqua; ma questa opinione non è più valida delle prime poiché l’acqua ivi non si può conservare nè condurre, nè è lavoro fatto per tal fine. Io vidi con infinito stento, molti anni or sono, queste tenebrose caverne, che mi parvero orribili al segno , e si spaventevoli , che dalla memoria non si son potute mai cancellare.
Giudicai allora ch’elle fossero state in principio non già cave, o luoghi di convivenza umana, ma magazzini di cereali e di vettovaglie, i quali avessero potuto servire ad altri bisogni , che potean per avventura sorgere nei mille eventi , in cui si sarebbe potuta trovare una grande e popolosa città.
Ma sebbene in questa sentenza io medesimo non stia saldo; pure non crederò mai di respingerla finché altri , per nuovi elementi di luce , che in tanto fosco potrà raccogliere, non me ne farà conoscere lo inganno, o non darà un giudizio migliore. Nè le opere a questa simigliatili , ed assai più strane e difficili, che si sono in Asia rinvenute, possono alterare minimamente il mio concetto; poiché le città sotterranee della Persia e dell’ Indostan sono ben diverse dei sotterranei del Camico, e racchiudono un mistero, che non si svela, per esser coperto dalla caligine dei secoli ; e l’umano pensiero si perde non solo, ma si annienta in mezzo a loro, perchè privo di fiaccola che lo guidi.
Agrigento ha le sue catacombe come il più dei paesi, ove di cristiana religione ebbe apostoli , e persecuzioni : tu le vedi nella contrada , ove i templi della Concordia, di Ercole, e di Giunone Lucina sorgevano.
Sotterranei vasti, che non van soggetti a visioni archeologiche , perchè presentano il nolo carattere di opere di tal fatta. Le catacombe di San Sebastiano in Roma sono assai meno alte e spaziose di quelle di Napoli, ma più grandi, più intricate, ed ispirano più religioso terrore : le catacombe di Girgenti, con minore elevatezza, e minore imponenza, si accostano più alle seconde che alle prime. Queste opere dunque appartengono ai primi tempi della Chiesa, e quando le persecuzioni del l’idolatria infierivano.
Tutti gli eruditi, visitando Agrigento, chieggono di un sarcofago , divenuto celebre non per esimia bellezza d’arte, o per istraordinario pregio di composizione, ma perchè tutte le guide, le descrizioni, i viaggi antiquari, che sulle antichità agrigentine, in numero quasi infinito si sono pubblicati, hanno per ogni dove diffuso le più minuto notizie di questo monumento.
Esso è oggi tramutalo in fonte battesimale del Duomo, con quanta logica cristiana non so. Perciocché raffigura con una espressione, che vivamente colpisce, ed è il migliore dell’opera, gl’infelici e colpevoli amori di Fedra. Se questa pietra fosse stata in Roma, Napoli o Firenze , sarebbe forse passata inosservata , o appena indicata , per la copia infinita di monumenti di tal fatta, che ivi esistono : ma in Agrigento , ove per le inaudite dilapidazioni , a cui l’ antico popolo soggiacque , monumento di pregio trasportabile non rimase , questo sarcofago ebbe conienti ed illustrazioni. Ma non per questo dei credere che la moderna Girgenti possa esser priva di oggetti che decoravano le pubbliche e private case degli antichi : poiché, appena scavasi con qualche intelligenza, rinvengonsi, come si sono rinvenuti, vasi fittili stupendissimi, lucerne, anfore, gemme, ed altre cose di gran pregio. Imperciocché fu Agrigento città delle più opulenti del mondo : rilassati i costumi, viveano gli Agrigentini in una mollezza estrema , e con lusso che vince la più adita immaginazione : e a tanto giunse l’abbandono di ogni severità di principi, e di dignità umana, che innalzarono monumenti cospicui (fino a cavalli cani ed augell)i. Quindi le case erano decorate di ogni più nobile e squisita suppellettile : la città tutta presentava in ciascuna parte tale magnificenza che Atene e Cartagine ne furon prese sì fattamente da cimentare, per desiderio di farne il conquisto, tutta la loro gloria e la potenza.
Ma giunti, figlia mia , al fine dei ricordi agrigentini, un grido sorge da quei sacri ruderi, e ci ferma.
È desso il suono della voce di Empedocle, che vien collocato fra i più grandi sapienti della terra , ed è gloria di Sicilia, maraviglia dell’ellade antica.
Egli scopri l’ elemento dell’odio e dell’ amore, che governano il mondo : nel che Newton attinse la gran
verità dell’attrazione e repulsione universale di tutti i corpi : e dalla gran mente di lui, che regolava il governo di Agragante, fu creato il principio della civile uguaglianza ‘ che diffuso fra le genti , i dritti degli
uomini in equabile bilancia collocava.
Egli, gran fisico, pensò pria di ogni altro che una massa di fuoco nel centro della terra , principio dei vulcani e delle acque, esistesse : egli fu il primo che vide non aver la luna luce propria , ma opaca per natura, dal sole la ricevesse, e come satellite della terra intorno ad essa girasse. Egli scopri il peso dell’aria, la propagazione della luce, lo sviluppo, la nutrizione del germe , si che tutte le più grandi scoperte di Linneo ad Empedocle si debbono.
Egli infinite opere per Sicilia fece, che l’ammirazione e lo stupore universale eccitavano. Deviò le acque dei fiumi, che andavansi stagnando nei loro corsi, e mortalità infinite producevano; essiccò paludi; chiuse le gole dei monti, donde venti malefici sulle città scagliavansi; salvò le produzioni, fecondando i campi, che rimanevano inariditi da quelle infocale correnti; operò prodigiose guarigioni con quell’ occhio di medica filosofia, che lo rendeva singolare e grande : diguisachè fu tale la sua fama , che divenne una potenza, che tutte le altre vinceva.
E siccome rifiutò lo scettro, che gli Agragantini gli aveano offerto,, cosi manifestò al mondo che non l’ambizione, non l’ avidità di dominio, ma il bene degli uomini, I’ amore della scienza , la felicità della sua patria gli aveano fallo durare si grandi fatiche , con una abnegazione, che non ebbe mai pari sulla terra.
Quindi tutto che l’ antica istoria è andata narrando dei falli suoi , e che ha dello strano e del miracoloso, dipingendolo come mago ed incantatore, non è che l’ effetto d’ immaginazioni cieche , le quali nelle opere della sapienza, die non si concepivano, vedevano sortilegi c magie, attribuendo al grand’uomo un potere misterioso e soprannaturale, mentre era quello che gli dava la sua dottrina nella conoscenza delle cause fisiche della natura. Cosi egli non fermò i venti, ma con opere ingegnose ne deviò il corso : non Scongiurò la peste, perchè più non venisse a flagellar Sicilia, ma tolse le cause che la producevano : non facea ritornare in vita gli estinti, ma coi rimedi che il suo senno ed il suo sapere gli suggerivano, alla vita soffocata, ma non spenta, gli asfissiaci richiamava.
Empedocle non disarmò l’ira, nè placò lo sdegno degli uomini col canto , come narrasi di aver fatto verso un tale, che volea uccidere Archila, perchè gli avea, qual magistrato, condannalo a morte il padre.
Ma sibbene colla sua morale azione , colla influenza ch’esercitava il suo nome su tutti , colla forza della sua ragione disarmò il braccio dello sconsiglialo : non già toccando la lira, e cantando versi di Omero, come andaron fantasticando gli antichi , che quei fatti ci trasmisero. Porfirio parlando della dottrina pitagorica dicea, che « Pitagora avea alcuni canti e versi particolari, con cui guariva le malattie del corpo ; e questi cantando restituiva alla sanità gl’ infermi. Ne avea parimente degli altri, coi quali cagionava l’obblio dei dolori, mitigava l’ira, e raffrenava gl’inopportuni desideri (1) ».
Dalle quali parole si è creduto che con effetto Empedocle, che nulla avea sapientemente svolta la pitagorica dottrina, operasse quei prodigi, ed ottenesse quel fine. Le infermità umane non si curano con canti e con versi. Vi vogliono rimedi efficaci e possenti, secondo il clima le costituzioni l’esperienza l’indole varia delle infermità medesime.
Gli uomini facilmente corrono al maraviglioso, e si fanno ingannare dalle illusioni della propria mente.
Quindi non deesi prestar fede al Giamblico, che Empedocle cantando a quel giovane alcuni versi dell’Odissea, ne avesse disarmato l’ira, perciocché la natura umana fu sempre la stessa : gli uomini sono spesso strascinali da una cieca fantasia, e vaneggiano , secondo i tempi e le condizioni della società, in che vivono, più o meno esperta, e nella civiltà avanzata.
Nulla vi ha dunque di realità nelle parole del calcidese filosofo.
Porfirio spiega la dottrina di Pitagora, e s’ illude, quando attribuisce al folosofo di Samo una qualità, che non potea mai avere. Giamblico pieno delle pitagoriche massime cade in errore volendo dare ad Empedocle, come Porfirio a Pitagora, una virtù, che nella sua applicazione non è che falsa o effimera. I primitivi tempi si presentano sempre colla stessa faccia del maraviglioso, perchè non conoscendosi gli effetti naturali delle cose, ed ignorandosi quel che possa l’elettro magnetico principio, ch’è diffuso per la vita, e la segreta potenza della natura , attribuivasi a forze soprannaturali l’andamento regolare delle cose fisiche del mondo.
Nè la musica può esercitare sull’ uomo tutto quel magico potere che le si vuole attribuire. Ella non può avere al più che un’azione limitala sulle malattie mentali , c sulle morali affezioni. Il guarir dunque colla musica le malattie del corpo è un fantastico principio. Lascisi alle fole di Orfeo, che ammansiva col suono della sua lira le Dere, ogni concetto che vi si approssima, e che la ragione e la verità respingono.
Nel quale errore panni che sia caduto lo Scimi , quando dice che sia sotto effetto della musica adoperata da Empedocle il veder temperato lo sdegno di quel giovane, e spenta l’ira sua (1). Si guardi la natura con occhio più maturo , e si esamini non con mobile fantasia, ma con senno e con calma.
Queste cose io dunque ragiono , per ispogliare da ogni lontana idea d’ impostura uno dei più nobili e forti filodofi che avesse avuto la terra : e il dire, come pure lo Alessi ha detto, che la forza del suono della sua lira giungeva a disarmare lo sdegno degli uomini, e con versi curava le infermità umane (2), non è un felice concetto, e sparge sulla memoria di quel sommo una fosca luce.
I moderni che trattano delle cose antiche dovrebbero essere più dei nostri tempi, e più degni della moderna filosofia , onde non seguire gli antichi stessi, che vollero farsi chiosatori ed annotatori di quei primi geni. Essi, per contrario, dovrebbero correggere degli antichi, ch’eran vergini delle cose della natura, gli errori, i pregiudizi, le fantasie. Difatti pare che seguendo idee non giuste, ed ingoiando le leggerezze antiche facciali ritornare indietro il povero mondo , che pure va innanzi , e innanzi sempre più si spigne.
(1) Memorie sulla vita c filosofia ili Empedocle. — Pai. 1813.
(2) Slor. crit. di Sic. v. Il, p. II.
Le cose di Empedocle sono profonde; e i frammenti dei vari scritti, che arricchirono il mondo passato, e si sono oggi con tanta cura e tanto senno dai dotti uomini raccolti , insieme a lutto ciò che l’ antichità ci ha trasmesso, sono un elemento infallibile del genio, e della sapienza sua.
Empedocle scrisse in versi un’infinità di opere non già per ottenere I’ alloro dei poeti , ma perche tutte le cose in versi allora si scrivevano. Quindi potea Aristotile risparmiarsi l’osservazione ch’egli non dovesse riputarsi poeta , ma narratore. Perciocché non ebbe mai l’agrigentino filosofo quel pensiero, chè su ben altra vetta il poggiava. Egli le fisiche cose, e le morali svolse con sapienza infinita. Difatti maravigliosa era l ‘opera sulla natura, in cui i fenomeni dell’Universo spiegava, spingendo per entro il pensiero di Dio lo sguardo suo ; grande era quella sulle purgazioni, nella quale i misteri dell’oriente, e la dottrina di Pitagora svelava, svolgendo i principi più sublimi dell’etica, ed elevando l’anima dell’uomo alla contemplazione del creato, innanzi a cui l’umano intendimento si annichila.
Il poema sulla medicina tendeva a prevenire i mali con precetti di salutare igiene, e a curarli quando venivano a travagliare I’ umanità. Insomma Empedocle fu mente delle prime che il mondo abbia avuto : egli abbracciò tulle le parli della creazione, e guidò con una fiaccola non mai accesa gli spiriti nei più segreti misteri della natura.
Io, figlia mia, non li posso, in mezzo alle macerie antiche indicare la tomba, ove il grand’uomo fu sepolto; perchè egli non fini nella patria i giorni suoi.
Mille cose gli antichi andaron favoleggiando sull’ultima sua fine. Alcuni dissero, che, sparito dal consorzio degli uomini, si fosse gittato nei crateri delll’Etna; altri chr si fosse da sé stesso pugnalato; i terzi che fosse stato assunto in cielo , e che una striscia di luce celeste lo avesse indicato; altri vollero che in mare cadesse, o da un cocchio, portandosi in Messina, precipitasse; gli ultimi finalmente sostennero, che viaggiando per Grecia morisse. Ma queste cose, figlia mia, mandale giù col tuo senno, che menzogne e fole son tutte. Perciocché panni un calunniare Empedocle, quando gli s’imputa dopo tanta saggezza, c vicino a scender nella tomba, perchè già vecchio, un delitto nell’ uccider sè stesso. Il suicida è un pazzo, o un debole : ed Empedocle fu sempre nella forza della sua ragione : era segno all’ammirazione di lutti : nessuna causa potea muoverlo ad un passo si crudele e reo.
Se Empedocle fosse morto per una caduta, il suo corpo dovea trovarsi, e non già sparire ; gli uomini dell’epoca sua doveano manifestarlo in mille guise; la tradizione popolare ne dovea conservare la memoria. Se fosse morto in Grecia, i Greci non avrebbero mancato di lamentare la fine del grand’uomo, di predicare la sua virtù, d’ innalzargli un segno di onore come al più gran sapiente che allora vivesse ; ed in Grecia nessun seguo vi fu di dolore, nessuna pietra indicò mai il luogo, ov’egli fosse stato sepolto. Ed i sepolcri fin dai primi tempi dell’antichità reputavansi benedetti , ed avevano un culto sacro ed universale.
Tutti gli scrittori dunque ondeggiano; nessuna cosa fu mai detta, die l’apparenza avesse di verità; nessuno ha mai pensato a quel che ora li dirò. La fama di Empedocle era immensa, egli sovraneggiava a tutti, sebbene il potere sovrano avesse rifiutalo : ma il potere di lui, per la sua mente, era assai più grande di quello che può dare la corona c lo scettro. Laonde invidi molti, nemici non pochi, e se non palesi, occulti senza dubbio , dovea Empedocle avere…. e la storia dice che ne avea. Quindi la codarda mano di un invido e scellerato uomo , e assai più di questo è l’ uomo capace, tolse dal mondo la più bella gloria , che offuscava col proprio splendore le luci minori, soffocava la segreta rabbia dei tristi, schiacciava col suo nome i meschini, che, nel segreto fango dellla loro anima, vedevano con feroce rabbia la gloria e la grandezza dell’agrigentino filosofo. La ragione respinge tutte quelle fallaci idee, che gli antichi ivan mettendo in campo. La conoscenza del cuore umano, e dell’invidia, che gli uomini rode nella medesima fossa, mi fa balenare al pensiero il modo spietato ed empio , con cui il grand’uomo perì, fu dunque da credersi, come più prossimo a verità, che Empedocle fosse da nemica mano ucciso , e nel segreto Io assassinio sepolto; il corpo scomparso, per togliere le tracce della colpa, e dare ad intendere agli uomini una misteriosa sparizione.
Non potendo tu dunque, figlia mia, onorare la pietra che dovea racchiudere la salma del grand’ uomo, inchinati riverente in mezzo ai ruderi dell’agrigentina potenza, e di’ a le stessa : qui Empedocle respirò le prime aure della vita, qui visse glorioso, qui i grandi pensieri concepì, qui penetrò i segreti della natura , qui insegnò agli nomini di riconoscere Dio, come autore del gran libro dell’Universo, ch’egli con tanta sapienza lesse, e spiegò al mondo.
Dopo di Empedocle non dovrebbe parlarsi di nessun altro, chè basta egli solo per onorare i secoli e le nazioni. Ma non voglio defraudare gli altri del guiderdone, che io lor debbo innanzi i ruderi dell’ antica Agrigento.
Cinque secoli innanzi l’era nostra, nacque Feace , sovrano architetto dell’età prima. Egli privo di esempi, e senza libri, che lo avessero guidalo, fu, come tutti i geni primi , creatore nell’ arie sua. Difatti meravigliose reputansi le opere che dal suo pensiero sortirono in guisa che il suo nome ai posteri celebrato si tramandò, e feaci diconsi tuttavia i monumenti, che alla falce inesorabile del tempo resistono, e nei loro rottami mostrano l’antico carattere di forza e di grandezza.
Le chiaviche di Girgenti, di cui ti ho favellato, ne fanno solennissima prova, che sono opera erculea, e tale che il pensiero antico se ne dà vanto che non perisce.
Feace, secondo l’asserzione di Diodoro , creò pure, o almeno possentemente contribuì alla creazione del tempio di Giove Olimpico, che la sua patria al re dei numi innalzò. Egli, giusta il parere dello stesso istorico, la grandiosa peschiera, che facea la delizia degli Agrigentini , e degli stranieri che la magnifica città ivano a visitare, ivi costrusse ; e conserve di acqua, magazzini per vettovaglie, tutto ciò che la sicurezza di quella riguardava dal pensiero di Feace usciva a perpetua memoria delle genti.
Polo, retore filosofo ed oratore, ebbe pure in Agrigento la vita. Egli fu da Platone altamente lodato ,per la sapienza la forza e la facilità del suo dire.
Apparteneva a ricca, e cospicua famiglia, ed avea frequentato la scuola di Gorgia, che particolarmente nell’eloquenza lo ammaestrò, si che divenne famoso per Grecia, e fu tra i più illustri di Sicilia annoveralo.
Aristotile ne rialzò la fama , avendo registralo il suo nome tra coloro che acutamente dialogizzando i vari sistemi di filosofìa analizzarono.
Scrisse pure un libro sulla rettorica, ed altro sulla giustizia. E questi argomenti, sebbene disparati appaiano , furon tuttavia dal sapiente uomo insieme congiunti , dimostrando che la giustizia debb’essere sorretta dalla parola, per meglio risplendere fra gli uomini, onde il vero , dirozzato ed abbellito, più penetri i cuori, e trionfi.
Filino è stato collocalo fra gli scrittori migliori del tempo suo, malgrado che si fosse creduto, come storico, parziale ai Cartaginesi , e contrario ai romani.
Nato in Agragante nell’ epoca più splendida di Sicilia, e quando Gerone la gloria ne diffondeva, egli s’infiammò il petto alla sacra scintilla di quel generale movimento di ragione e di sapienza.
I suoi libri si smarrirono nel naufragio generale.
E siccome sulla prima guerra punica si aggiravano, e tutti gli avvenimenti di quel gran fatto, sia in terra sia in mare, si descrivevano, cosi grande è la perdita che lamentiamo. Perciocché la storia antica di Sicilia va si spesso claudicando nelle tenebre che la involgono , per mancanza di memorie della medesima età.
La dominazione di Cartagine , avvegnaché nessun utile, e nessuna gloria le avesse mai procacciato, perchè non nazionale, ma straniera, e dedita a dissanguarla con un commercio tutto a danno suo , e ad assoluta utilità dei Punici , pure era divenuta stabile in alcuni luoghi dell’isola ; c quindi la guerra che coi Romani invasori doveasi sostenere fu nel principio dubbia e sanguinosa per Roma.
Perlochè Filino vedea la latina invasione, come un atto di violenza empio e crudele verso Sicilia. E sebbene egli avesse dovuto guardare Cartaginesi e Romani, del pari nemici della sua patria, perchè stranieri gli uni e gli altri, e conculcatori ingiusti e feroci, che venivano a straziarla nelle sue viscere pur tuttavolta egli pieno della romana prepotenza, descrisse con dure pennellate i fatti di Roma , e quelli di Cartagine blandì.
Ciò non pertanto non sappiamo precisamente i particolari di quel grande evento, e non possiamo realmente dire, come Polibio dicea, che Filino grave torto si avesse nel favoreggiare Cartagine, e nel deprimere i Romani. Polibio ingrandiva i fatti di Roma, e coi colori vividi della sua penna le aquile Ialine grandeggiavano. Quindi vedea con rancore una storia, che iva già gloriosa pel mondo , e che era ai suoi principi contraria.
Il certo è che tre guerre dovette sostenere Roma, per prostrare ai suoi piedi la punica potenza : e nella prima che in Sicilia successe, e 24 anni durò, quel valoroso popolo dovette far sentire a Roma la sua forza. I Cartaginesi difendevano le città da loro occupate, i Romani venivano per conquistarle. Quindi nella difesa, che i prodi di Cartagine contro quei di Roma fanno , alti degni di memoria, od onorevoli dovettero seguirne. Il che, messo da Filino in piena luce, dispiaceva a coloro che la parte di Roma a torto o a dritto sostenevano. E siccome l’ingiustizia umana decide dagli eventi le cose di questo povero mondo, ed aggrava , o alleggerisce , secondo la loro fine infausta o lieta, cosi l’ infortunio di Cartagine ricadde sulla riputazione dello storico agrigentino : talché tutte le cose, ch’egli in favor dell’emula di Roma avea detto, furono dannate, di spregio colmato il suo nome, ed i più moderati lo notavano come storico parziale pei Punici , ed avverso a Roma. Ma la posterità ride di quei giudizi, perchè non sostenuti da falli contrari, e solo favoreggiali dalla romana fortuna.
Ora essendo Sicilia teatro della prima punica guerra, non possa Filino scegliere migliore argomento di quel- lo, per iscrivere una storia, che tanto da vicino alla sua patria premeva, e tanti svariali casi offeriva. Dalla scelta del tema si ha il primo e più saldo elemento per giudicare del senno e della forza del pensiero di chi lo sceglie. E Filino non potea sceglier meglio lo assunto suo. Il veder poi che Polibio insigne uomo, e dei primi dell’ etade antica , cerca in lutti i modi di sfiancare i concetti del siciliano storico, e di annerire i fatti da lui descritti, per far campeggiare i suoi, che tanto le gesta di Roma illustrano, e la gloria ne accrescono , fa chiaramente manifesto che il nostro agrigentino dovea essere un sommo storico. Perciocché di un uomo debole e di nessun conto non si occupa un grande, nè si valutano le cose contrarie che si possa dire. I grandi solo dei grandi temono
Dunque Filino si per la scelta dell’argomento, si per le cose che Polibio dice, dee riputarsi un grand’uomo, e degno di sedere fra i più illusili storici del tempo antico. Saluta tu dunque, figlia mia, questi luoghi, e mi segui altrove.