da ” Vacanze in Sicilia ” di Enzo Lauretta
Quella del ’43 fu per la Sicilia l’ultima vacanza di guerra, difficile da dimenticare per noi ragazzi di terza liceo, licenziati frettolosamente a fine maggio. Il distacco dalla vecchia scuola aveva aggredito me e i miei compagni con un senso di rovina. Ognuno capiva vagamente che le magre ambizioni, corteggiate a lungo e con furia, erano destinate a rimanere tra le umide mura di quell’ex convento e che il futuro non sarebbe stato né triste né lieto. Forse più triste. Ma anche nei momenti di angoscia si insinuava un malizioso esaltante senso di euforia che faceva osservare con ipocrita compunzione: – C’è la guerra, i morti, i bombardamenti! – e si doveva stentare a soffocare uno sconcertante sorriso che ci si andava allargando dentro. In fondo godevamo della strabiliante occasione di recitare una parte, sia pure da comparsa , in un dramma vero anziché su un modesto palcoscenico di provincia.
Quanto era accaduto negli ultimi tre mesi ci aveva colto di sorpresa: gli idoli guardati col capogiro dei fanatici apparivano d’improvviso sotto altra luce. Nel gran circo avevano bruscamente eliminato i filtri a tutti i riflettori e nessuno riusciva a guardarsi attorno senza strabuzzare gli occhi o ammiccare.
La delusione per la sconfitta inevitabile degradava ad un inferno perfino il bellissimo paesaggio agrigentino e i giovani della compagnia antisbarco giravano imbronciati per le vie facendo timidamente la corte ai soldati tedeschi che si guardavano attorno con rabbiosa circospezione. Il capitano von Kassel e i suoi ufficiali ospiti del vecchio Hotel des Temples governavano con malagrazia i loro soldati acquartierati in una piccola radura vicina, spianata apposta quando il Duce era giunto in visita ufficiale nella città dei templi.
Nella grande calma della piazzetta si levava solo il brusio della gente in attesa: ognuno di noi aveva lasciato la famiglia nel ricovero antiaereo e aveva il cuore gonfio. Da un manifesto la grinta di un soldato imponeva il silenzio e sembrava dire.” Zitto! il nemico ci ascolta!”. Il soldato in elmetto era raffigurato in pieno assetto di guerra e faceva bella mostra di sé dietro il bancone del fornaio. Mai come in quel momento l’ammonimento appariva reale, col nemico così vicino.
Un altro manifesto invitava a combattere fino alla morte e faceva venir voglia di correre a zig zag , di diventare una palla impazzita e filare verso il cielo per far esplodere quell’aereo da ricognizione americano ch’era sempre sopra le nostre teste e ci faceva rimminchionire. Oppure scendere sott’acqua e centrare una di quelle navi che se ne stavano quiete alla fonda a godersi lo spettacolo, ma pronte a sparare se non ci arrendevamo.
La luce del mattino, disseminata sugli alberi del piazzale vicino, mi dava la febbre e creava girandole di figure rosse e blu negli occhi serrati per la rabbia. Che colpa avevo se il fascismo aveva conquistato anche me, oliando la vanagloria , il gusto del rischio e il piacere dell’avventura che brontolavano di desiderio insoddisfatto in ogni giovane? Sicuro, come Peppinello, anch’io ero fascista! Le divise i campeggi, i littoriali della cultura, le parate, le centurie corali, le esercitazioni militari fatte con un vero moschetto, le ore del dilettante, le manifestazioni ginniche, le compagnie filodrammatiche: era tutto un carosello di cultura e di milizia che ci toglieva il fiato e ci impediva di pensare. Si erano moltiplicati i contatti umani e anche una più intima e piacevole conoscenza con le ragazze che erano divenute spensierate e facili tanto che, si diceva, le case della gioventù italiana del littorio erano diventate un gran bordello.
Niente sembrava scuotere la mia fede nell’immancabile vittoria, neppure i rovesci militari su tutti i fronti: io e Peppinello il sabato fascista continuavamo ad andare a scuola in divisa premilitare e il pomeriggio ci ritrovavamo a fare le esercitazioni con i moschetti. E il lunedì mattina il nostro asmatico professore, nel commentare in camicia nera i fatti della settimana, aveva un bel da fare a dimostrare che, malgrado tutto, le cose andavano per il verso giusto. A pensarci bene, i suoi discorsi assomigliavano alla proposizioni di un oracolo pagano in cui tutte le verità, eccetto la verità, si mescolavano tanto bene che ognuno poteva attingervi liberamente la spiegazione che gradiva. E mentre il gruppo filodrammatico continuava a provare Come le foglie e Peppinello con i giovani premilitari più accesi organizzava battaglioni antisbarco e scavava trincee, gli Alleati erano davvero sbarcati in Sicilia.
Uno stormo di bombardieri americani volava basso verso nord e tutti alzammo il naso. Soltanto uno disse:- Maledetti!- ma gli altri osservarono che le nostre batterie tacevano. Tutti se n’erano andati e io stesso avevo trovato nel mio giardino mostrine e stellette militari strappate e gettate via.
Si parlò d’altro. Si parlò della giovinezza che “aveva perduto tutti i fumi”, della qualità della pasta e del pane, della moglie del capomanipolo che era scappata con il giovane dello studio dell’avvocato Barbagallo. Le ore passavano leste mentre il sole si alzava e la valle si arricchiva di colori fino al mare laggiù, tra S.Leone, la prora petulante di Punta Bianca e il pianoro di Porto Empedocle.La natura, indolente e appesantita dalla brutale calura di quel luglio afoso, sembrava ignorare la tragedia della città che viveva in stato d’assedio con gli abitanti che facevano la vita dei topi, ammucchiati nei ricoveri antiaerei.
Quel giorno due ricoveri vennero centrati e almeno mille persone erano morte tra le macerie. Distrutto anche il nostro Liceo e il vicino Istituto magistrale. La via Atenea si era trasformata in un ingorgo di macerie e il Viale della Vittoria, bombardato per l’intera lunghezza, faceva una gran pena, dal momento che è una tra le poche cose belle che gli agrigentini posseggono.
La città aveva fame. Nei rifugi si tremava per l’orrore e si pregava come spesso avviene quando si ha paura. Ma quando gli aerei la smettevano di bombardare, cercavamo passatempi e distrazioni. C’erano delle ragazze che ti facevano dimenticare le bombe e gli Alleati, il fascismo boccheggiante e il pericolo . alla caserma Crispi si levava un’alta colonna di fumo e sul viale c’era un affaccendato andirivieni di uomini, donne e ragazzi che arraffavano cassette di marmellata, scarpe, brandine, coperte, farina, libri. La miseria e la sconfitta hanno una sola maschera e i soldati americani anziché impedire il saccheggio si godevano lo spettacolo.
In quei giorni imparammo a fumare sigarette americane, a masticare gomma americana, a vendere agli americani cianfrusaglie in cambio di cibi in scatola. Ma il pane nero era scomparso e il forno di San Calogero era pieno di farina canadese. Solo le rovine della città e il piccolo campo di concentramento allestito in piazza Vittorio Emanuele e pieno di ex gerarchi fascisti destinati alla deportazione in Tunisia, erano i segni più sgarbati della sconfitta.Gli americani c’insegnarono il boogie-woogie e ci tolsero le nostre monete per dei pezzi di carta quadrata chiamati Am-lire. Le vie furono sgombrate dai cadaveri in putrefazione e la vita cominciò faticosamente a riprendere.