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Tu giocavi per strada ? Giochi dei bimbi di Agrigento di una volta

15 Aprile 2016 //  by Elio Di Bella

fonte https://www.primapaginacastelvetrano.it/

 

PRESENTAZIONE

Quando un pratica tradizionale (ludica, lavorativa, alimentare, rituale) entra in crisi e visibilmente (e talvolta precipitosamente) declina, si moltiplicano i tentativi di documentarne le residue testimonianze, anche attraver­so i percorsi della memoria.

Questa raccolta dedicata ai giochi di una volta, possiede la rara qualità di riunire in una trattazione gra­devolmente equilibrata il rigore della documentazione, la passione del testimone, l’amore per la cultura ormai al tramonto.

Qualcuno si è chiesto se sia possibile insegnare ai bambini di oggi i giochi di ieri.

Ma il problema è forse un po’meno propositivo, meno programmatico: i tanti “giardini dei giochi dimen­ticati” (musei, raccolte, ricostruzioni) che vanno oggi sorgendo sotto lo sguardo dei nuovi giocatori (o gio­colieri?) ammiccanti da conturbanti gigantografie urbane, vanno forse interpretati come l’estremo tentativo della cultura tradizionale di opporsi all’irrompere dei “grandi fratelli”. Con una così elementare riflessione, saluto la pubblicazione di questo prezioso volumentto.

Giovanni Ruffino

INTRODUZIONE

L’idea di questo libro nasce a seguito di una ricerca da noi condotta, per anni, sui giochi ed i giocatto­li del passato, quasi un viaggio nella memoria del gioco, certamente non esaustivo, ma che comunque inten­de essere un primo contributo per la conservazione e la rivitalizzazione di una cultura ludica che, quasi come un filo invisibile, coniughi passato e presente.

La nostra esperienza si è accresciuta, allorquando abbiamo collaborato ad una “Ricerca sul gioco pove­ro” nel territorio agrigentino, presentando i primi risultati nell’ambito di un Convegno europeo.

Abbiamo messo insieme e speriamo di esserci riuscite, alcuni tra i giochi ed i giocattoli di ieri, in un con­testo narrativo, perché ci è sembrato, più aderente alla realtà, anche se le piccole storie raccontate sono frut­to di fantasia coniugata, spesso, a ricordi della nostra infanzia e di quella di tante amiche e amici che, incon­sapevolmente, hanno arricchito i nostri racconti.

Abbiamo avvicinato molti anziani, abbiamo ascoltato e registrato le loro memorie i loro “tesori sommersi”, abbiamo riso insieme a loro, mentre raccontavano.

I giochi ed i giocattoli che si trovano in questo volumetto parlano di cortili, di grida di ragazzi di ogni età, di filastrocche, di cunta, “conservando” pagine di cultura siciliana.

Un Grazie intendiamo rivolgere a tutti coloro che hanno contribuito alla stesura di questo piccolo libro.

 

– Tu giocavi per strada?

– Raramente, era difficile che noi bambine scendessimo in strada, però io avevo due fratelli ed uscivo con

loro, anzi scappavo con loro.

– Io invece non uscivo mai, guardavo attraverso i vetri i bambini che si rincorrevano ed i miei giochi erano

tranquilli, troppo tranquilli, disegno, pongo…

– Non puoi immaginare l’emozione di vedere i ragazzi, i maschi che scendevano a folle velocità sui loro “car-

ruzzuna”. Io non potevo, non era dignitoso, ma per anni ho desiderato essere un ragazzo per potere prova-

re quelle sensazioni. Il rumore delle ruote me lo sento ancora nelle orecchie, come quello di un treno a folle

velocità sulle rotaie.

– E allora? Guardavi e basta, non giocavi?

– No! Avevo anch’io i miei spazi ludici; per noi femmine c’era il campanaro, il mercato, costruire bambole

con pezze, stracci e cuscini vecchi…

– Ti ricordi le cadute? Quante cadute durante i giochi e ad ognuna erano dolori. Le strade non erano tutte

asfaltate quando eravamo piccole.

– Si. C’erano giochi nei quali la caduta era inevitabile, era li che t’aspettava e quando arrivava non c’erano

né alcool né pezzette, solo i pianti

– E le urla…

– Le urla delle madri che si affacciavano premurose al balcone: “bedda mia cu fù”! Quando addirittura non

scendevano per strada e ti mollavano uno schiaffo, chissà perché…

– Altri tempi, – certo i carruzzuna erano proprio belli…

U CARRUZZUNI

Il problema più grande era quello di riuscire ad avere da mia madre, il permesso per uscire a giocare con

i miei fratelli.

Inventavo scuse, raccontavo bugie

– devo andare dalla nonna.

Meditavo per delle ore, rodendomi per come farlo, per tranquillizzarmi dicevo tra me e me

– Cosa può succedere di peggio?

– Che ti dica di no, lo sai

– Ma se non chiedo il permesso?

– È come se ti dicesse no

– Allora lo chiedo?

– Prova

– Non ho il coraggio…

Andavo avanti così per ore intere; io ci tenevo tanto e avevo un sacro terrore di quel no che rimandavo

continuamente la richiesta, raramente era un sì (ed erano canti e balli) più spesso un no deciso. Diventavo

matta.

A volte non riuscivo proprio a trattenermi, mi lasciavo andare, piangevo.

Invece quel giorno fu un si, forse per togliermi di torno, ma non m’interessava capirne le ragioni, ero

troppo contenta, potevo andare a giocare con loro.

Il luogo d’incontro deputato alla lotta era la piazza dove una volta si faceva il mercato, Piazza

Ravanusella, lì abitava mia nonna.

 

Di solito i ragazzi salivano lungo la stradina in pendenza e poi scendevano in picchiata.

A volte però iniziavano le gare sulla strada in pianura.

Ogni sfidante sceglieva dei ragazzi più piccoli i “mulacciuna”; questi dovevano spingere “u carruzzuni”,

con tutte le loro forze, correndo fino al punto di partenza tracciato sulla strada, lì, lo lasciavano andare.

I compagni, intanto, incitavano, tifavano…

– Sminchialo, … l’ammazzari, … strunzu, … fimminedda…

Queste frasi più o meno variate non creavano problemi. Gli incitamenti, anche se succulenti, di fatto non

uccidevano il senso del gioco e della festa, mai lasciavano il posto alla furia di voler prevalere con ogni mezzo

sull’altro.

Il vincere ad ogni costo non era importante.

Ma quel giorno nella piazza c’era qualcosa di strano, una tensione insolita.

I ragazzi in cima alla salita erano divisi in due gruppi che si fronteggiavano. Fofò e Nenè, uno di fronte

all’altro, sporchi ma bellissimi, sembravano due galli pronti a colpirsi a beccate.

– Si sì omu a pruvari arrè.

– Si pruvamu. Ma l’a diri io comu!

– Comu?

– Curcati!

– Curcati!

Ciò voleva dire sdraiati a pancia in giù sul carretto. Era pericolosissimo.L’eccitazione cominciava a mon-

tare, la voce si sparse in un lampo, in un lampo “s’arricampanu picciotti dunni e ghiè”.

C’era aria di tragedia!

Mio fratello maggiore mi fece un cenno con gli occhi. Mi misi in disparte, ma mi guardava ancora, dura-

mente; capii che dovevo allontanarmi di più, poteva essere pericoloso per me stare lì. Mi spostai più in giù fin

davanti al portone di mia nonna e guardavo.

Le urla si facevano sempre più forti, quando il silenzio giunse improvviso, pauroso.

Guardavo la discesa come se fossi ipnotizzata.Da quella mia posizione, dal basso Fofò e Nenè sembra-

vano più grandi, li seguivo nei movimenti sicuri, ne ero incantata.

Cercai con gli occhi i miei fratelli, vidi un guizzo in quelli del più piccolo.Perché si agitava? Perché?

– A petra, a petra!

– Livati a petra!

Non fece in tempo… la gara cominciò.

Fofò, Nenè e i carruzzuna erano un’unica cosa, due schegge fiammeggianti.

Adesso la curva, i corpi inclinati a sinistra. Fofò non riuscì a mantenere la traiettoria, “u carruzzuni sban-

dò, s’apizzò na petra e si susì” comu na catapulta, lanciando in aria Fofò come un proiettile che passò davan-

ti a tutti per poi schiantarsi a terra.

Tutti i ragazzi arretrarono, poi si fermarono impietriti.

I miei fratelli mi raggiunsero di corsa, bussiamo il batacchio dalla faccia di leone (del portone di nonna)

gridiamo, saliamo su.

– Chi successi?

– Nonnì u carruzzuni, un si susi, u figliu di Mimmo, un si susi chiù

– Chi fù, chi fù.

– Lestu, lestu, to niputi! Nunzia scinni, portati l’acqua.

– Sì curr bar

– U zuccaru, Pina, Pina! U zuccaru, e tu chi talii? Un ti moviri di cà, un scinniri chiù.

Non potevo disubbidire a mia nonna, mi affaccio al balcone.

Mia nonna dirigeva le operazioni di soccorso come un generale, non vedo Fofò, gli stanno tutti addosso,

sua zia Nunzia arriva di corsa e allontana i ragazzi, finalmente ne intravedo il viso, sembra una maschera tutta

sporca di sangue.

Zi Nunzia lo lava, Fofò si muove.

– Lassami, lassami vogliu a rivincita

– Ta carmari, Fofonè, ta carmari, disgraziatu si. Itivinni arrassu. N’aviti a fari moriri quarchi ghiornu.

Arriva la madre

– Fofò, Fofò. U picciriddu me. Cu fu, cu fu?

– Nenti, Marì, nenti, cosi di picciotti, zittuti, nenti è…

 

Vedo la madre abbracciare forte forte Fofò, stringerlo fino quasi a farlo sparire.

Adesso mi sembra piccolo piccolo. Finalmente si alza, Maria lo aiuta insieme a Nunzia, avanzavano

verso la macchina del padre, che è già arrivato.

Ad ogni passo Fofò sembra aumentare in statura, i ragazzi intorno gli fanno largo e lo salutano in silen-

zio.

Compare Nenè, cu carruzzuni suttauvrazzu: è li davanti la macchina. Fofò u talia “fissu ne l’occhi”.

– Pozzi ca ti pari ca finì, dumani arrè!

 

– Tu credi si giochi ancora in questo modo?

– Non penso, forse in alcune zone, nel centro storico, a Villaseta, troppa tecnologia….

– Che mare oggi.

– È bellissimo.

– Guarda queste pietre piatte!Sull’acqua rimbalzano

– Ma servivano anche per giocare a campanaro

– Che bei saltelli…

– Provo…

– Alla nostra età…

– Il gioco non ha età, io potrei giocare ancora a campanaro guarda … Campanaru, campanaru.

campanaru

U CAMPANARU

L’estate del ’57 è stata unica. Mi trovavo come ogni anno al mare a Santu Lì, eravamo appena scesi e mentre mia madre ordinava io ero uscita fuori, in cerca di amici.

Avevo 10 anni e la vita mi sembrava bellissima.

Totuccio mi venne subito incontro:

– Ciao Mariù, che fai?

– Niente, siamo arrivati oggi, il mare è ancora agitato; gli altri dove sono?

– In giro, andiamo a cercarli.

Gli altri erano la banda di bambine e bambini del quartiere.

Di solito ci si riuniva nella villetta di una nostra amica, Sonia, che veniva da Roma a passare ogni estate le

vacanze in Sicilia.

C’era un grande giardino e giocavamo in tanti modi.

Ma purtroppo, non era ancora arrivata, per cui raccogliendo una decina d’amici, pensammo di rifugiarci

nel cortile dove si affacciavano le abitazioni di alcuni di noi.

– Ragà giochiamo

– Si, dai facciamo ammucciarè

– No, facciamo a sciusciari

– U campanaru, facciamo u campanaru

Insomma ogni volta era un interminabile tiro alla fune, tra chi voleva fare giochi di sfida e di movimen-

to e chi preferiva giochi più tranquilli.

Era inevitabile che alla fine ci dividessimo e questa volta noi ragazze scegliemmo il campanaro.

La ricerca della pietra per disegnare il campanaro era un’impresa, doveva essere “morbida” e scrivere

come un gesso.

Dopo mezz’ora di affannosa ricerca, la pietra era nelle mani di Caterina, la disegnatrice, che cominciava

a tracciare lo schema, l’enorme campana con il 2000 alla testa.

 

La ricerca, a quel punto si spostava sulla pietra da lanciare, piatta, liscia, che scivolasse bene e poi…

– A la cunta vediamo chi comincia

– Per me, per me, per me … otto

– Caterina, inizia Caterina

Caterina iniziava a buttare la pietra spingendola su una sola gamba …

– Fuori, hai sbagliato, hai sbagliato!

E si passava alla seconda, mentre le ore scorrevano senza che ce ne accorgessimo.

Unico disturbo alla piacevole monotonia del gioco erano gli altri, quelli che non avevano voluto giocare

con noi che spingevano le pietre e davano “ammuttuna” a chi era di turno facendolo sbagliare e lì urla, spin-

toni…

Ma un episodio doveva spezzare la “routine” di quell’afoso pomeriggio.

Nel cortile, era solita sedere su una vecchia sedia impagliata, una vecchina che tutti chiamavano affet-

tuosamente a Za Pidda, vestita di nero, nero pure il fazzoletto che aveva in testa, con una “falletta” che le stava

appiccicata addosso come una seconda pelle.

Quel giorno, in grembo, aveva uno scolapasta dove riposavano delle verdure che lei pazientemente puli-

va; era quasi un’istituzione, ci guardava sempre mentre giocavamo, anche se lo sguardo sembrava spesso pro-

cedere oltre le verdure da pulire e noi.

Ma quell’afoso pomeriggio d’estate la “MAGIA” del gioco fece la sua parte.

– Chi faciti picciutteddi

– Iucamu a campanaru

– Campanaru, campanaru,

a Za Pidda iniziò la sua nenia.

– Unu, dui, tri, quattro,

facitimi fari stu quatrazzu

cincu, sei, setti e ottu

portu a petra sinu all’orlu

facitimi arrivari a lu dumila

e vinciri u iocu pi stasira….

E così dicendo si alzò.

Era piccola, un mucchietto di ossa con due occhi neri neri che certamente avevano visto tante cose, si

avvicinò a noi che restammo, immobili, ad osservarla mentre ci veniva incontro.

Giunta davanti al campanaro ci guardò e sorrise, con gli unici tre denti che le rimanevano, alzò la gonna nera

con le mani, mostrando le calze di filanca anch’esse nere (con quel caldo!) prese la pietra, la lanciò, cominciò a

spingere e iniziò a giocare mentre si accompagnava con quella cantilena…

– …Campanaru campanaru…

La gonna le si apriva a palloncino e se non fosse stato per il viso rugoso e l’instabilità, dovuta all’età, che

la faceva ondeggiare dentro il campanaro, l’avresti scambiata per una bambina, per una di noi. Presi da quel-

la strana atmosfera cominciammo anche noi a cantare, accompagnando con le mani i movimenti da Za Pidda

che saltellava con un’agilità che nessuno le avrebbe dato.

– Evviva a Za Pidda, Evviva a Za Pidda… campanaru …campanaru

Raggiunto il 2000 a Za Pidda si fermò… si aggiustò il fazzoletto, si sistemò la gonna e, riprendendo il suo lento

incedere, si avviò verso la sua sedia ed il suo scolapasta che l’attendevano tolleranti; non senza averci prima lan-

ciato un’occhiata di complicità.

Giunta al suo posto, preso lo scolapasta lo mise nuovamente in grembo, alzò lo sguardo ritornato “lonta-

no” e riprese il suo lavoro…

 

– Ci sono dei bambini

– Cosa stanno facendo?

– Mi pare giochino a nascondino

– Nascondino, si gioca ovunque a nascondino, ma quante estati abbiamo passato a giocare a nasconderci

– È forse uno tra i più bei giochi che conosco

– Ammucciarè

ammucciarè

AMMUCCIARÈ

Giocavamo lungo il fiume, alla “Babbaluciara”, dieci quindici ragazzi e bambini.

C’eravamo tutti. Non potevamo mancare.

Impiegavamo ore nella scelta dei vestiti, niente di chiaro.

La conta, la sorte, il lupo e poi in fuga verso i “nascondigli”.

Intorno a noi le luci erano strane, viste da diverse prospettive inusuali, c’era silenzio, un silenzio pieno,

l’aria era calda, piacevole, umidiccia, intensa… dare spesso.

Sono acquattata a terra, sdraiata a pancia in giù, sotto l’albero di ficus, chiudo gli occhi per concentrar-

mi, per individuare meglio i passi del lupo, non sento altro, è come se annullassi tutto il resto, sono felice.

Un rumore di rami calpestati, mi giro di scatto, è quello stupido di mio cugino, quello di Roma, mi sta

sempre appiccicato.

– Sss che fai? Vuoi farmi scoprire. Perché sei qui, in due non c’è posto. Che ridi?

– Non ce la facevo a star li dietro.

– Non mi importa; “ti ‘nna ghiri”

– Cosa?

– Ti ‘nna ghiri, smamma, caccia, via, in due non ci stiamo.

– Hai un buon odore.

Divento inquieta, con la voglia di alzarmi e scappare, rischiare tutto e farla finita.

All’ improvviso la corsa di Mimmo che arriva al tingolo.

– Libero me, libero me!

È il momento, è il momento, mi alzo di scatto.

– Non venire che il lupo c’è, non venire che il lupo c’è. Non venire che il lupo c’è …

Lo scemo ridacchia, devo accucciarmi, niente da fare, non posso uscire, mi sto già perdendo d’animo, mi

troverà, mi troverà, con questo scocciatore a lato non ho scampo.

Maledizione, ho le scarpe bianche, sembrano fosforescenti. Mi rannicchio su me stessa, mi stringo alle

ginocchia, caccio i piedi sotto di me e serro gli occhi forte forte.

– Con questo buio non ci vedrà e poi se ci scopre, si confonderà, magari uno di noi riuscirà a liberare tutti.

– Sta zitto, non parlare

– Perché c’è l’hai con me?

– Uffa! Sta zitto Sss….senti?

– Si

La paura arriva come una scarica, le gambe mi si liquefanno, devo reagire, devo reagire, devo essere

pronta, serro i pugni.

Chiudo gli occhi e faccio un gioco, se non…, è inutile è qui è qui vicino. Vorrei sparire, mi ha visto, m’ha

visto, m’ha visto.

Mi slancio, corro corro, corro, corro corro.

Per un soffio.

– Libero me, libero me

L’amarezza sul volto di Enzo.

– Mannaggia a te

– Il lupo sei tu!

– Mi sono stancato, non trovo nessuno. – Ne restano tanti, finiscila, di lamentarti il gioco è gioco.

– Si, ma a me non va di stare da solo.

– Quante storie, uffa, se non trovi nessuno, dopo, il lupo, lo faccio io (Non so perché sto dicendo questo)

– E allora?

Mi guarda, strizza gli occhi furbetti mi sento arrossire e vorrei dargli uno schiaffo.

– E allora… niente!

Enzo si allontana con passo forte in cerca degli altri

 

– Non me ne parlare. Sull’autoscontro mi è saltato un dente e da allora sono sempre stata prudente, troppo

prudente, non mi divertivo più

– Si, ma vuoi mettere, le musiche, i colori e l’emozione….

– Mi piacevano, da bambina, le giostre con i cavallucci e con le automobiline piccole e colorate…

 

POPI POPI:

l’automobilina di latta celeste

– Bambini io vado a fare un po’di spesa, mi raccomando Ninetta, stai attenta ai tuoi fratelli e non toccate né

gas né luce, torno presto, arrivo a S. Francesco! Giocate con il pongo…

– Evviva la mamma se n’è andata!

Come aspettavamo questo momento, quando mia madre usciva per andare a comprare qualcosa e ci

lasciava soli.

Io avevo 9 anni Rosalia, mia sorella 7 e Salvatore 4; sotto stava mia nonna che ogni tanto saliva a dare

un’occhiatina, ma ero soprattutto io a badare ai miei fratelli. Era bellissimo rimanere soli!

Questo succedeva in particolare quando eravamo ammalati, (sapete le malattie dei bambini?) era inevi-

tabile, allora, che a turno ci contagiassimo e siccome, dopo c’era la convalescenza, si rimaneva per lunghi

periodi a casa, al caldo, perché come diceva mia nonna:

– Ci vonnu i tri elle: lana, latte, letto.

Ma mentre per la lana ed il latte non facevamo storie, era proprio difficile tenerci a letto…

I miei avevano regalato a Salvatore, per i morti, un’automobilina di latta celeste, a pedali, che aveva pure

le luci ed un carillon e non avendo il permesso di giocare in strada, la usavamo, a casa.

Quel giorno…

– Che facciamo oggi Ninè, come giochiamo, a pongo?

– Ma che pongo e pongo … Sai che ti dico, facciamo il “tunnel della paura”, come quelli che ci sono alle

giostre.

– Ma come?

– Facile, la macchina l’abbiamo, uno sta alla cassa a dare i biglietti, per le ragnatele useremo le cravatte di

papà, disegniamo i teschi e l’incolliamo, poi li facciamo scendere dall’armadio ed usiamo i mattoni per

aprirlo…

La nostra casa era grande e antica, il pavimento era un po’ in discesa ed aveva qualche mattonella “tra-

ballante” quasi in ogni stanza che, una volta pressata, in camera da letto faceva aprire l’anta dell’armadio e

nelle altre creava undi un tasto di pianoforte scordato.

Poteva essere terrificante! Bastava un poco di fantasia e quella certo non ci mancava.

Le stanze s’inseguivano l’una con l’altra secondo un criterio architettonico molto in voga negli anni 50,

per cui, partendo dalla prima stanza, com’era nostra intenzione, sull’automobilina celeste POPI POPI, come

la chiamava Salvatore, con una spintarella potevamo percorrere le altre stanze e ritornare al punto di parten-

za, proprio come nel tunnel.

Ah! Le porte erano molto alte in legno con due ante in vetro e facilmente apribili.

Preparammo tutto!

Una sedia che fungeva da cassa, i biglietti colorati e i soldi con la carta, i teschi per le cravatte, una scopa

con tanti foulard di mia madre, un secchio, una palla di gomma morbidissima che suonava e soprattutto POPI

POPI.

Il tutto posizionato opportunamente in ogni stanza.

Impiegammo un’ora e finalmente…

– Ecco siamo pronti, Salvatore partirà con me, faremo il primo giro e tu Rosalia starai alla cassa, poi cam-

bieremo.

– Va bene, dai sbrighiamoci.

Chiuse tutte le imposte nelle stanze, sistemato Salvatore dentro l’automobilina e affidatogli il compito di

tenere il volante, fatti i biglietti, Rosalia diede la spinta e….via …nel buio

POPI POPI lenta ma decisa, grazie alla lieve pendenza iniziò il suo viaggio.

Dopo avere spalancato la porta, nella prima stanza, al buio pesto, solamente una fioca luce dei fari del-

l’automobilina, al tocco delle ruote le mattonelle fecero la loro parte e le cravatte ci vennero incontro sfio-

randoci il viso come tante mani fredde ed incollose grazie all’enorme quantità di colla utilizzata per fare ade-

 

sua “folle” corsa, poiché aveva acquistato velocità, POPI POPI incappò nel secchio che avevamo piazzato al

centro di un’altra stanza, pieno di mele, che rotolarono furiosamente per terra; poi la palla suonò e quel suono

fu accompagnato dalle urla nostre e da quelle di Rosalia che, all’“ingresso” ci invitava ad arrivare perché vole-

va iniziare il suo giro.

Ma… all’uscita dell’ultima stanza… la paura più grande fu quella di vedere un’ enorme sagoma ferma

ad aspettarci.

– Ma quella… non l’abbiamo messa noi! Aiuto!

Certo… Quella sagoma era mia madre! Apriti cielo! Ogni stanza era un caos, noi piangevamo e rideva-

mo, Rosalia urlava:

– Non ho ancora fatto il giro, voglio fare il giro anch’io

Mia madre cercava di sistemare tutto, ma purtroppo i teschi dalle cravatte di mio padre, non se ne anda-

rono più.

L’avevamo fatta grossa, “mizzica” se l’avevamo fatta grossa!

Conclusione: POPI POPI fu portata a mare, da usarsi solo in estate, all’aperto, nel grande marciapiede

antistante la casa che affittavamo ogni anno per le vacanze.

A Salvatore che voleva la sua macchinina ne fu regalata un’altra… celeste, di latta, ma grande… quanto

la sua mano.

Però per molti anni, quando a giugno scendevamo a mare, la prima cosa che facevamo era andare a salu-

tare POPI POPI che ci aveva regalato quel meraviglioso giorno nel “tunnel della paura” di casa nostra.

 

– Torniamo a casa, si sta facendo tardi.

– Questa corsa contro il tempo…

– Una volta il tempo sembrava più lungo

– E’ vero! Quando tornavo da scuola la strada mi sembrava interminabile. E giocavo da sola. Tu giocavi da

sola contro te stessa?

– No. Così mai, non conosco questo gioco

– Io spesso…c’era un mio amico che era un maestro in questo tipo di gioco…

 

FRANK

Ho 11 anni, vivo a Palermo. Vado a scuola in pullman, non so perché, ma i soldi per il rientro non

li ho mai. Li gioco sempre, li perdo, li spendo e così tornando a piedi faccio dei giochi.

Ad esempio: macchine pari contro dispari; io sono me stesso e l’altro, l’avversario, mi sdoppio, se vinco

passo ad un altro gioco.

Oggi per la prima volta ne ho trovato uno nuovo, funziona!

Cammino guardando le mattonelle e sto attento a non mettere i piedi sulle “sime”. Vorrei essere già da

un’altra parte, a casa? Magari in spiaggia. Ma sono sempre affamato e ho sete. Mi allontano dal marciapie-

de, mia madre dice che le persone che camminano rasente i muri, hanno qualcosa da nascondere e non sono

sicure.

Accelero il passo, drizzo le spalle, mi sposto, mi distraggo, una penalità!

Devo stare più attento, fissare bene gli occhi a terra, non devo pensare a niente.

La strada è grigia e sporca, gli sputi dei vecchi, li riconosco, non ce la faccio, mi disgustano e vorrei dis-

togliere lo sguardo, ma non posso.

Devo tenere la testa bassa sono già arrivato al negozio d’alimentari, guardo l’orologio 13 e 40.

– Fa qualcosa, accellera!

Continuo, vincerà il mio avversario ho già una penalità, se arrivo a tre ho perso.

– Cosa?

– Ho perso.

– Sì ma qual è la posta in gioco.

– Non potrò telefonare a Laura.

– Così tanto!

Non esiste che un modo per convincermi, io non sopporto di ritardare quella telefonata, mi fa star male.

Supplico silenziosamente il mio “altro” devo patteggiare, sto perdendo la concentrazione.

Comincio a sudare, infastidito dal peso dei libri, dei vestiti, mi sento in un bagno

– E se vinco?

– Se vinci, vincerai un bacio

– Si, o no?

– D’accordo. Trovo qualcosa che luccica – posso fermarmi?

– No, non puoi, attento a non barare.

E’ allora che mi rendo conto di essere quasi arrivato, i gradini in discesa, aumento il ritmo 1-2-3-4-5-6-

7-8-9-10-11 sono sempre 11.

Corro, mi sento sollevato, non sbaglierò, non sbaglierò!

Fatta è fatta, sono al portone. Mi sposto, gli occhi a terra, vedo i miei piedi, mi ricordo di qualcosa, entro a

casa, ho deciso di non raccontare nulla

– Perché arrivi sempre in ritardo?

Alzo le spalle e chiudo la porta. Non entreranno mai nella mia testa. Che stupido, da piccolo pensavo

potessero leggervi dentro.

 

– Ecco siamo arrivate a casa tua.

– Vuoi salire?

– È tardi.

– Dai! Ti offro un po’ di rosolio di mandarino che ho fatto io e dei dolcetti.

– Mi tenti…

– Ho i rami di miele, taralli e qualche frutto di martorana.

– I dolci dei morti?Ma ne fanno ancora?

– Certo.

– E i regali? Si festeggia ancora il giorno per i bambini

– Questo sempre meno, è rimasta una tradizione solo in alcuni posti, ma si va perdendo. Ora c’è il Natale

come occasione per trovare i regali

– Peccato. La “festa dei morti” a casa mia seguiva sempre lo stesso atteso rituale.

 

I MORTI

Per anni ho pensato che i morti fossero solo “temporaneamente morti”, insomma dei morti vivi! Non è

che non sapessi che non c’erano più, che non potevo vederli. Ma la mia convinzione era avvalorata dalla mia

giovane età, cinque anni e dal fatto che, ogni anno, il 2 Novembre, questi morti ci portavano i regali!

Se uno è morto come fa a comprare i regali? Quindi…

Ogni anno era un rito che aspettavamo con ansia mio fratello ed io.

Giorni prima l’atmosfera si preparava, persino l’aria avvolgeva le case, le vie di Girgenti, lasciandosi die-

tro una scia odorosa di frutti di marturana, carcagnetti, rami di miele, inciminati e pupi di zucchero.

Poi iniziavano le domande a noi bambini, quasi buttate lì per caso.

– Cosa ti piacerebbe?

– Quale giocattolo vorresti avere?

Ogni azione predisponeva al giorno dei morti.

L’elettricità era nell’aria e si trasmetteva a tutti, tutti si agitavano.

Il coinvolgimento dei bambini, il loro entusiasmo serviva a smorzare il tono severo della commemora-

zione.

Soltanto la zia Caterina, 73 anni, rimasta signorina, perché tre giorni prima del matrimonio, il fidanzato

Callisto era morto di polmonite, solo lei che viveva con noi e dormiva nella nostra stanza, versava un fiume

di lacrime.

Piangeva ogni anno, per questa ricorrenza ed esattamente:

due giorni prima, i due giorni di festa, e due dopo.

In tutto piangeva per un’intera settimana!

Le sue lacrime erano così distribuite: il primo giorno per lo zio Benito (morto ad 88 anni) con una lamen-

tazione che somigliava all’urlo del Coyote e che non terminava neppure a tavola quando, cosa insopportabi-

le, mangiavamo formaggio grattugiato, da lei stessa, con le sue lacrime dentro; il secondo per la zia Concettina

(92 anni), i giorni di “Festa” erano dedicati alla povera “mammina” (83 anni) e a u “papuzzu” (95 anni) a zia

Minica (98 anni) e Luigino (il fratellino defunto appena nato nel ’39), gli ultimi due alla sorella Luciuzza (90

anni) ed al fratello Gaetano (76 anni) il più giovane.

In tutto 621 anni di lacrime!

Per Callisto c’era tutto un rituale a parte.

Sei lumini di quelli grossi e rossi, accesi sul comò, per tutti quei giorni e le notti che rischiavano di farci

finire bruciati o intossicati; ma che noi “astutavamu” non appena sentivamo russare la zia.

E la povera zia era convinta che quella astutata fosse un “segno” della presenza di Callisto nella stanza.

Poi c’era il mazzo di crisantemi, ogni giorno uno al cimitero. Ma queste erano le cose che comprende-

vamo anche noi bambini.

La sera prima non riuscivamo a stare fermi

– E c’aviti u ballu di San Vito, diciva zia Caterina!

Andavamo a dormire molto presto e solo la paura che i morti venissero a “grattarci” i piedi ci teneva

fermi a letto, con gli occhi rivolti al soffitto;

– Zia Caterì, piangi in silenzio e cerca di farci dormire.

– C’è la farò a dormire Totò?

– Zitto io sto già per prendere sonno.

Nel soggiorno, nel frattempo mio padre e mia madre:

– Hai sistemato tutto

– Talè, ma picchì u nu fa tu comunque è tutto a posto.

– E nel tavolo?

– No! A chiddu ccia pinsari tu.

– Va bene. Allora: u vassoiu di lignu, i cosi duci pi picciriddi e i pupi di zuccaru, du, a cavaddu.

Più tardi al centro della tavola troneggiavano dentro il vassoio di legno rettangolare due pupi di zucche-

 

alzarci per iniziare la ricerca.

Ma verso l’una, anche se con gli occhi serrati, eravamo ancora svegli, per l’eccitazione, mentre mio padre

entrava furtivo nella nostra stanza con i pacchi.

– Ma chista sempri chianci!

La zia Caterina proseguiva il suo lamento e mio padre tistiava;

– I morti. Sono loro, i morti, pensavo io. – Non mi devo muovere, devo fare finta di dormire se no mi “grat-

tano” i piedi.

Diventavo un baccalà, cercando di non fare il minimo rumore, il collo mi si irrigidiva e non riuscivo più

a deglutire, tenevo le palpebre serrate, e finalmente mio padre poteva sistemare ogni cosa. Alle sei.

– Drinnnn!

– Alzati Totò.

– Si, arrivo.

Con gli occhi ancora chiusi trascinati dalla curiosità giravamo per tutta la casa, guardando per prima cosa

sotto i nostri letti, poi in cucina, nel bagno, in ogni stanza e svegliavamo la zia Caterina per mostrarle i gio-

cattoli.

Ogni giocattolo trovato era accompagnato da un urlo di gioia, mentre da fuori si sentivano le stesse urla,

ed alla fine, seduti in soggiorno, mangiavamo i “cosi duci” mentre i pupi di zucchero li posteggiavamo sui

nostri comodini, a volte per cinque o sei mesi, fino a quando, a Maggio, il caldo e le nostre leccate li rende-

vano appiccicosi.

Alle undici si andava dai nonni per restare lì a pranzo.

Altre ricerche, altri giocattoli, altre urla, poi, nel pomeriggio, venivano i cugini e giocavamo ancora.

A sera, rientrati a casa, ci addormentavamo distrutti con tutti i regali attorno a noi, sopra il letto e senza più

alcuna preoccupazione che i morti potessero “grattarci” i piedi – Ci avremmo pensato l’anno prossimo!

 

– Ti ringrazio dei dolci. Veramente buoni. Vedo che hai cambiato alcune cose a casa

– Si ho raccolto, alcuni pezzi che appartenevano a mia zia, sai la mia passione per l’antico, queste tazze, sono belle vero? Guarda, i libri, il vaso liberty e queste posate, non preziose, ma antiche; non sono tutte, parecchie si sono perse…

 

U CAVADDU

Teresa e Pinuzzu una giovane coppia con due bambini Antonio quattro anni e Maria due anni e mezzo.

Un giorno Teresa in cucina.

– Bedda matri, ma unni fineru…. Mi sta niscennu u sensu. Cuntamuli arrè: unu, dui, tri, quattru,… nenti,

nenti, spareru Pinuuu Piiiiiiiiiii! (si susi di scattu e sinni va no bagno a circari u marito ca stava arriparan-

nu u sifuni).

– Chi bò Terè, lassami stari, unnu vidi, ca travagliu

– A pò finiri cu stu tubu, assettati, a cosa è granni assettati ti disse: Mi spareru i pusati!

– Ma chi dici?

– Mi spareru i pusati!

– Terè spiriti e ‘nguantisimi uncinnè, cu è ca veni cà? u vulissi sapiri.

– Picchì? Chi bò diri?

– A nenti, nenti

– Chi bò diri aa?

– Dda bedda di to soru Nunzia e d’antra bedda di to mà.

– Tu, a me mà, unni l’ha muntuari; e chi sinn’avi a fari me soru de mè pusati? Me soru avi pusati cà ti po’

linghiri tutta la casa.

Un rumore infernale veniva dal corridoio. Teresa accuminciò a ittari vuci.

– Antò Antò l’ha finiri! Quann’è u misi ca a finisci cu stu sceccu. Pinù diccillu tu.

– Chi bà facennu, Antò, chi bà facennu cu stu cavaddu, sempri appressu navanti e ‘narrè. Puru a scola tu

purtasti.

– Si, è mio! E lo porto pure a scuola.

– E’ tò, e to.Vattinni va, va ioca arrassu.Va bè Terè, tu chi diciatu? ca i pusati vannu sparennu? amu abbidi-

ri cu è!

– Allura?

– Allura chi?

– Allura camu a fari?

– Nenti, aspittamu!

 

L’INDOMANI

– Terè ‘nni spareru oi?

– No, un mi pari.

– Sicura si, cuntamuli.

– Iu u cuntu l’aiu ‘na testa, ma aspè ca va viu, unu, du, tri ihhh! Bedda matri u cucchiarinu e un cuteddo. Mi

voglio fari a cruci ca manu manca Pinu, Pinuuu, Pinu u sensu, mi voli nesciri u sensu, ci su i spirita…

– Addumannasti a to soru? Ascuta a mia!

– Talè basta un parlari cchiù, chiuemula ccà sta storia. E’ RI…DI..CU..LA!! ‘ndà.

L’INDOMANI

– Oi chi c’è?

– Du cucchiara e na forchetta .

Il dialogo viene interrotto dallo squillo del telefono.

– Arrispunni o telefono.

– Prondo?

– Cu è, cu è?

– I monachi da scola. Va bene. Subito?

– Chi ti dissiru, chi è? u picciriddu. Ma chi successi?

– Nenti u picciriddu sta bonu Pinu ma a beniri cu mia

 

– Ihh!! I me pusati! Suor Maria e comu ci fineru ca?

– Ecco Signora, era proprio questo che desideravo dirle, vede, Antonio lo sa, si trascina dietro il suo caval-

lo da tempo, noi abbiamo tollerato… Ma stamattina, cara la mia signora, stamattina, Antonio proprio non

riusciva a farlo camminare, allora gli abbiamo detto:

– Antonio vuoi essere aiutato?

Ma il bimbo:

– No, No, No, – gridava, – è il mio tesoro, è mio! Nessuno lo tocchi!

– Antonio, di quale tesoro stai parlando?

– È un cavalluccio non vedi, è di cartapesta, ma è ricco come me, lui mi aiuta a conservare il tesoro.

– E dove sarebbe questo tesoro?

– Se ne mangia uno al giorno!

– Chi?

– Il cavalluccio, ha tutto nella pancia.

– A quel punto, cara Signora Tortola, siamo stati costretti ad allargare la feritoia che si trovava sul dorso del

cavallo… ed ecco qua.. è tutto!

– E cu su putia figurari! Comu su tirava ddu sceccu, comu si lu tirava…

 

– Ciao me ne vado. È stato un bel pomeriggio dovremo ripeterlo spesso adesso che sono tornata qui.

– Hai ragione! Serve a rilassarci.

– Ci vediamo domani, in ufficio.

– Ah! Dimenticavo. Tieni.

– Ma è un libro

– Si, sono certa ti piacerà…

E Tolì Tolì Tolì

setti fimmini e un tolì

’u tolì è troppu pocu

setti fimmini e un pircocu

u pircocu avi lu pizzu

setti fimmini e un marbizzu

’u marbizzu avi l’ali

setti fimmini e un canali

nnu canali cci curri l’acqua

setti fimmini a ’na vacca

e la vacca avi li corna

setti fimmini e ’na donna

e la donna frii l’ova

p’accurdari a Mastru Nicola

mastru Nicola vinni nuciddi

p’accurdari li picciliddi.

 

Ca c’è ‘na funtanedda

Ci vivi a picuredda

Chista avi fami

Chista avi siti

Chista avi sonnu

Chista voli iocu

Chista cci dici

camina cu mia

ca t’insignu la via

 

Dumani è duminica

Tagliamu a testa a minica

Minica nun c’è

Tagliamula a lu re

Lu re è ammalatu

Tagliamula a lu surdatu

U surdatu è alla guerra

Sbattemu u culu ‘nterra

 

Manu modda

Manu modda

U Signori ti l’incodda

Ti l’incodda cu la codda

Manu modda

Manu modda

 

Chistu è l’occhiu beddu

Chistu è so frateddu

Chista è la vuccuzza

Chistu è u campaneddu

Giru tutta la chiazza

E chista è a to facciazza

 

Ninna o ninna o

I picciriddi fannu a vo

Fannu a vo

cu la siminsedda

U rosmarinu e lu basilicò

 

Batti li manuzzi

Ca veni papà

Porta cosi duci

E poi si ‘nni va

Porta mennuli e nuciddri

Pi iucari li picciriddi

Porta mennuli e carameddi

Pi iucari li bimbi beddi

 

Aceddu acidduzzu

Chiama a lu signuruzzu

Chiamalu a la matina

P’addummisciri

a picciriddina

La fa addummisciri

cu li ciancianeddi

E cu l’angeli ca su beddi.

La fa addummisciri

cu li vasateddi

E arrisvigliari

cu li surriseddi.

Varvarutteddu

Vucca d’aneddu

nasu nasiddu

occhi di griddu

frunti di balata

te cca na timbulata.

San Giusippuzzu

calati calati

iu vi l’annacu

e vui l’addummisciti.

Nome in dialetto: A munachedda;

 

Materiali:

Stoffa, cotone;

Modalità di costruzione:

Bambola confezionata con avanzi di stoffe o asciugamani. La stoffa si arroto­lava ed alla fine un lembo veniva rivoltato in modo tale da ottenere l’effetto di una suora in piedi, si aggiungevano i tratti del viso con ago e filo;

Modalità di gioco:

Gioco utilizzato dalle bambine per giocare alle “suore”;

 

 

Nome in dialetto:

U carrettu di pali di ficudinnia;

Nome in italiano:

Il Carretto di pale di ficodindia;

Materiali:

Pale di ficodindia, corda e legnetti;

Modalità di costruzione:

Il carrettino si costruiva utilizzando pale di ficodindia che venivano lavorate con un coltellino dai bambini che le tagliavano per dare forma ed eliminare le spine.Si utilizzavano anche due pezzetti di legno, da inserire nel carrettino per fissare le ruote, anch’esse di pale di ficodindia;

Modalità di gioco:

Dopo averlo costruito i bambini se ne servivano per trasportare materiali (es:

sassi, terra), trainandolo con un pezzo di spago;

 

Nome in dialetto:
Pupe di pezza;

Nome in italiano:
Bambole di pezza;

Materiali:

Lana di diversi colori, pezze, ago e filo, uncinetto;

Modalità di costruzione:

si formava il corpo delle bambole con la lana lavorata all’uncinetto; i capelli erano ottenuti con lana di diversi colori; i vestitini da pezze messe insieme, il viso con ago e lana si costruiva come si voleva;

Modalità di gioco:

gioco imitativo delle mamme;

 

 

Nome in dialetto:
A tortula;

Nome in italiano:
La trottola;

Materiali:

Legno, ferro, spago;

Modalità di costruzione:

All’estremità del legno di forma conica, s’inseriva una punta di ferro e intorno

al giocattolo si avvolgeva della corda;

Modalità di gioco:

Si poteva giocare “sottomano” o “sopramano”, l’abilità consisteva nel lanciare la trottola per terra tirando lo spago in modo tale che girasse: l’importanza sta va nelle punte; “ballerina” se saltava, “filedda” se era leggera e “perciamano” se era pesante;

 

 

Nome in dialetto:
A Fileccia;

Nome in italiano:
La fionda;

Modalità di costruzione:

Prendendo un pezzetto di legno a forma di forbice, si fissavano alle due estre­mità due lacci di gomma, ritagliati da copertoni di bicicletta, che venivano legati, attraverso due fori, ad un pezzetto di pelle a forma di piattino;

Modalità di gioco:

Nel pezzo di pelle a forma di piattino s’inseriva una piccola pietra e si lancia-

va per colpire un bersaglio, vinceva chi colpiva più bersagli;

 

 

 

 

 

Nome in dialetto:
Lignu santu;

Nome in italiano:
Lippa;

Modalità di costruzione:

Due pezzi di legno venivano lavorati dai bambini con un coltellino in modo da ricavarne due bastoni uno lungo circa 40 cm e l’altro con le estremità appunti­te di 15 cm. Il diametro di entrambi era di circa 4 cm;

Modalità di gioco:

I bambini lanciavano il bastone piccolo (mazzolu) usando i bastoni grandi

(mazzi);

 

 

Nome in dialetto:
U Telefunu

Nome in italiano:
Il Telefono

Materiali:

Due barattoli vuoti e del filo.

Modalità di costruzione:

Prendendo due “buatte”, (barattoli vuoti di pomodoro), si praticava un forelli-no in ognuno e s’inseriva il filo fermato all’interno di ciascun barattolo da un pezzetto di legno. Il filo univa entrambi;

Modalità di gioco:

Si giocava in due, ognuno appoggiava all’orecchio o alla bocca il proprio barat­tolo e spostandosi per tutta la lunghezza del filo parlava come se fosse un tele­fono.

 

 

Nome in dialetto:
U motopattinu;

Nome in italiano:
Il moto – pattino;

Materiali:

Legno e delle rotelle (cuscinetti a sfera);

Modalità di costruzione:

Si prendeva una tavola di legno e alla base si montavano tre o quattro ruote, il gioco poteva essere tirato da una corda oppure vi si costruiva un appoggio ver­ticale;

Modalità di gioco:

Vi si poteva giocare da soli o in squadre, in sfide ad alta velocità sia in discesa

che in pianura;

 

 

 

Campanaru

Campana (mondo o settimana)

Gioco non esclusivamente femminile

La versione giurgintana consiste nel lanciare una pietra in successione nei vari riquadri numerati che compongono lo schema (sopra proposto) tracciato col gesso sul marciapiede saltellando con un piede (tranne al 4 – 5 – 7 – 8), a piè pari e secondo determinate regole, fino a compiere l’intero percorso e ritorna­re al punto di partenza,quali:

si deve saltare il riquadro con la pietra

se si tocca la “sima” (linea) si passa la mano all’avversario.

Numerose sono le varianti
per compiere il percorso:
ad occhi chiusi

ad occhi chiusi e mano darrè

Quando si compiva il percorso ad occhi chiusi il gruppo incita il concorrente gridando “Salam salam” se non tocca la sima.

Ammucciarè

Nascondino ovvero uno contro tutti

Partecipanti almeno due o più giocatori

Per giocare “ammucciarè” occorreva innanzitutto delimitare il campo d’azio-ne. (poteva essere un muro, un palo ecc.)

Si sceglieva poi il “tingolo” (poteva essere un muro, un palo ecc.).

Si procedeva quindi ad estrarre a sorte magari con una bella conta chi dei par­tecipanti facesse il lupo.

Estratto il lupo questi andava a faccia al tingolo, chiudeva gli occhi e comin­ciava a contare (doveva contare fino a 10 – 10 per ogni partecipante es. se 2 fino

 

il tingolo e “tingolarlo” cioè doveva dire toccando il palo “tingolo” ed il nome dell’avversario (es. tingolo Luigi).

Se arrivava prima l’avversario, questi toccando il tingolo poteva liberarsi gri­dando “libero me”.

Quando rimaneva l’ultimo avversario (e gli altri poverini erano tingolati) que-st’ultimo poteva liberare se stesso e tutti gli altri (libero me, libero tutti).

In questo caso il lupo restava lupo, altrimenti la triste sorte toccava al primo tingolato.

La “toppa” toppare stava per errare, sbagliare, scambiare uno per un altro, in questo caso bisognava ricominciare a contare.

 

 

Categoria: Agrigento RaccontaTag: agrigento raccconta, agrigento racconta

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