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Tempio di Giove ad Agrigento. Fotogalleria

1 Settembre 2014 //  by Elio Di Bella

“Il tempio di Giove! Gli scrittori dell’antichità non si saziano di cantarne le meraviglie. E se chiudiamo gli occhi, lo vediamo risorgere, nella camera oscura della fantasia, in tutta la sua immensità, la sua magnificenza. Vediamo la lunga fuga delle colonne, alternate da cariatidi colossali, una teoria di sovrumani Giganti.

Negli amplissimi corridoi fra le colonne e il muro delle celle, s’ingolfa, e muove tutto un popolo festoso. Sulle alte scale che circondano il tempio, danzano fanciulli e fanciulle, fiori fra le mani e fra le chiome, cantano il divino inno pindarico. “Te invoco, città di Persefone, città la più bella fra quante albergo son d’uomini”.
Così immaginava la grandezza del tempio di Giove ad Agrigento il poeta siciliano Giuseppe Longo, in un’operetta dell’inizio del nostro secolo. Ma purtroppo si tratta solo della fervida immaginazione di un sensibile poeta, poiché da molto tempo ormai non è possibile vedere se non le rovine del maggiore tempio greco della Sicilia.
Più fortunato fu lo storico greco Diodoro Siculo che ebbe invece la possibilità di ammirare il tempio quando esso era ancora integro e costituiva il vanto principale degli Agrigentini. Si trattava infatti di un colossale edificio, uno dei maggiori dell’architettura greca, superato solo dall’Artemision di Efeso e dal Didimeo di Mileto, che sono per altro di età e forme romane; in Sicilia può confrontarsi col tempio di Giove di Selinunte, di qualche metro più piccolo.
Fu cominciato dopo la vittoria di Imera (480 a.C.) e vi lavorarono i prigionieri cartaginesi.
Quando venne innalzato costituì un tipo nuovo di costruzione sacra, non imitato dai Greci neppure posteriormente.
Pur essendo di ordine dorico, possedeva infatti molti elementi peculiari. Diodoro Siculo (XII,82) ha descritto con grande ammirazione i frontoni:

“Di grandezza ed altezza stupenda sono anche i portici, nella parte orientale dei quali vedesi la battaglia dei Giganti a basso rilievo, che è lavoro, per estensione ed eleganza eccellentissimo; e nella parte occidentale è rappresentata la presa di Troia, ove si vede ognuno degli eroi, che in quella impresa si trovano raffigurati molto ingegnosamente nelle loro forme”.
Poi lo scrittore greco si sofferma sulla parte maggiormente degna di nota, a suo parere, ossia il muro esterno. Descrive le colonne sporgenti, le sue scanalature, i pilastri e tutto il muro che porta incastrati colonne e pilastri e gira attorno alla cella. Mentre non ci offre precise indicazioni sulla questione più importante, quella cioè relativa al numero dei Giganti che sostenevano parte del tempio e intorno al posto che era stato loro assegnato dagli abili costruttori. Nota infine che, stando dentro una scanalatura delle colonne, vi si trovava come dentro una piccola nicchia e toccava con le spalle ambo i lati. Si dice infatti che occorrevano ben ventidue uomini, posti gli uni accanto agli altri, per circondare una sola colonna.
Molti secoli dopo il tempio di Giove venne descritto dallo storico siciliano Tommaso Fazello, ma ciò avveniva già circa 130 anni dopo la caduta del colossale monumento, che secondo le cronache (in particolare un testo poetico di un anonimo letterato italiano del 1400) avvenne il 9 dicembre 1401. Dopo aver ripreso quanto scritto da Diodoro Siculo, lo studioso siciliano Fazello (originario di Sciacca) aggiungeva tra l’altro:” Questo tempio, sebbene nel decorso dei secoli era precipitato, pure una parte di esso sostenuta da tre giganti, e da colonne, stette poi lungamente ferma.
Quella parte la città di Agrigento avendo messo nella sue insegne tiene ancora oggi come un ricordo. Indi dagli Agrigentini fu divulgato il motto: “Signat Agrigentum mirabilis aula gigantum”. Dopo l’ultimo crollo divenne ancora più difficile per gli studiosi cercare di ricostruire la pianta e la struttura del tempio.
Nel 1802 l’avvocato Agrigentino Giuseppe Lo Presti ebbe l’incarico dal regime borbonico di avviare una campagna di scavi. Fece dunque sgombrare le rovine e così per la prima volta si poté avere un’idea più precisa della pianta, la quale risultò, da quei primi rilievi, di due quadrati precisi. Riguardo ai Giganti, Lo Presti avanzò l’ipotesi che fossero dodici e fossero addossati, a quattro a quattro, agli stipiti delle porte.
Successivamente, il marchese Haus, ispirandosi ai risultati del Lo Presti, realizzò i primi disegni sul tempio.
Una nuova ipotesi sui Telamoni venne presentata nel 1839 dall’architetto inglese Kockerelle, autore del libro “The Temple of Jupter at Agrigentum”.

Lo studioso collocò 24 telamoni nell’interno della cella. Questo studioso ha avuto in particolare il merito di avere trovato uno dei Telamoni (che più tardi venne meglio studiato da Raffaello Politi che pubblicò i risultati delle sue ricerche nell’opera intitolata “Sul rinvenimento del Telamone di Giove Olimpico in Agrigento, stampata a Venezia nel 1828).
Ma fu solo quando a Palermo venne costituita la Commissione di Antichità e Belle arti che finalmente anche le campagne archeologiche che riguardavano il tempio di Giove vennero meglio pianificate ed organizzate.

La commissione, presieduta dal duca Domenico Serradifalco, portò a termine importanti ricerche che ancora oggi possiamo leggere nella bella opera dal titolo “Antichità di Sicilia esplorate ed illustrate”, con decine di illustrazioni dei templi agrigentini.
Altre ricerche permisero di individuare altri due Telamoni e portare nuova luce su altri aspetti del magnifico tempio.
Altri ipotesi ricostruttive durante il secolo XIX sono state avanzate da Tommasini (cfr. “Briefs aus Sicilien”, Berlino e Stettino, 1825) che vedeva i Telamoni addossati ai pilastri interni del peristilio.

L’abate Nicolò Maggiore pensava invece di trovare alcune corrispondenze tra il tempio di Zeus di Agrigento e alcuni monumenti dell’antico oriente e incastrava i Telamoni nella faccia interna dei pilastri della cella.
Si può dire che la prima fase delle ricerche si concluse con il documento di una commissione di scienziati europei che il 10 settembre 1875 scrissero tra l’altro che il tempio presentava due porte sul lato orientale ed una porta sul lato meridionale nel settimo intercolumnio.
Dopo le ricerche del secolo scorso, nuovi scavi vennero realizzati, soprattutto negli anni 1922-23, presso l’angolo nord- est del tempio e anche nel 1926-27 da Pirro Marconi all’interno e all’esterno. Due decenni dopo altri scavi vennero eseguiti sotto la direzione di Goffredo Ricci nell’area del pronao.
Tali nuovi studi ci hanno fornito molti altri elementi utili per far luce intorno alla pianta dell’edificio. Tuttavia, per quanto concerne l’elevato, esso è rimasto a lungo (e in buona parte rimane ancora) ignoto. Così taluni essenziali aspetti strutturali e formali del tempio di Giove sono tutt’ora al centro di una interessante polemica tra i maggiori archeologi.

In particolare gli studiosi si sono divisi spesso sulla collocazione dei Telamoni.

Sono questi quelle gigantesche figure che apparivano con le braccia piegate ai lati della testa e che avevano senza dubbio funzione di sostegno. Koldewey e Puchstern li posero all’esterno, negli intercolumni, facendoli poggiare sopra una sporgenza del muro.
Nel progetto di Pace-Peirce li troviamo invece sistemati nell’interno della cella. Pirro Marconi condivide l’opinione degli archeologi tedeschi, ma sostituisce alle sporgenze del muro dei brevi mensoloni. Lo studioso Anselmo Prado ha invece fornito questa ipotesi:

” Eseguivo il rilievo del tempio, quando rinvenni tra i ruderi il piede sinistro di un telamone a ridosso di un concio in tutto simile a quello che avevo trovato in un altro punto del monumento e che avevo posto a coronamento del muro di cortina tra una semicolonna e l’altra, all’altezza di m.10,65. Poco discosta era la spalla di una finestra.
Mi balenò allora la soluzione di un altro grave problema quello dell’illuminazione degli ambulacri del tempio, considerando che a questo scopo erano sufficienti le porte laterali. Cercai ancora in quella congerie di massi: vi riconobbi i conci che formavano parte della gabbia gigante.
Con questi elementi una sola tesi poteva sembrarmi sostenibile: che cioè tra una semicolonna e l’altra fossero ricavate nel muro di cortina delle finestre di m.7,61 x 3,45, al centro delle quali s’innalzassero i telamoni a sostenere sulle braccia ricurve il peso immane dei fastigi del tempio”. (Anselmo Prado, articolo pubblicato su “L’illustrazione siciliana”, n. 1-4, gennaio – aprile 1952).
Il tempio di Giove Olimpio era uno pseudo-peripteroettastilo, lungo m. 112,70, largo 56,30, con peristilio sostituito da un muro scompartito all’esterno da mezze colonne (14 nel lati lunghi, 7 nei brevi), alte m. 17 almeno col diametro di m. 4,42 e all’interno da altrettanti pilastri.
Internamente misurava m 92 X 20,87 ed era diviso in tre navate da due file di 12 pilastri quadrati. La navata centrale era a sua volta scompartita in tre ambienti successivi; non sembra dubbio che fosse ipetra. Ha un’area complessiva di 7000 mq e fondazioni profonde oltre 6 metri; entro una delle scanalature delle colonne trova posto – come abbiamo già detto – un uomo. Sebbene nessuna colonna sia rimasta ritta, la vista delle rovine è ancora grandiosa. Tutt’intorno al vasto perimetro rettangolare è un argine di macerie, in cui si riconoscono le mura e i conci delle mezze colonne rovesciate dalle forze telluriche.
Delle sculture ricordate da Diodoro e che si pensa decorassero i frontoni, da qualcuno peraltro negate (Gigantomachia ad Est e Presa di Troia ad Ovest, sopra menzionate), non restano che miseri frammenti.
Una particolarità di questo tempio, come abbiamo già detto, sono i Telamoni, colossali figure umane in funzione architettonica, alte m. 7,75, la cui collocazione ha rappresentato un problema affrontato da molti studiosi, ma è certo che essi non avevano funzione decorativa bensì statica. Uno di essi, il cosiddetto gigante, che si vede steso al suolo, fu ricomposto da Raffaello Politi, pittore e archeologo, più di un secolo fa.

Gli scavi del 1926 e l’esplorazione degli immensi cumuli di rovine del lato Sud del tempio hanno condotto al ritrovamento dei resti di altri quattro telamoni, conservati in parte (le teste di tre) in una grande sala del Museo archeologico nazionale.

di   ELIO DI BELLA

Categoria: Storia AgrigentoTag: tempio di giove, valle dei tempi

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