di corrado giambra
AVEVA dei confini piuttosto limitati il mondo della mia prima infanzia : tutto era racchiuso tra il piano della Bibbirria, un nome misterioso che qualcuno mi spiegò dovesse la sua origine in ” Plebs rea ” le famose parole pronunciate da san Libertino che aveva voluto abbandonare quella città minacciando che neanche le sue ossa i cittadini di Agrigento avrebbero mai potuto vedere e Piano S: Giuseppe.
Io ad Agrigento c’ero nato, ci stavo veramente bene ed ero proprio felice lì, in via Bac Bac altro nome misterioso di cui però nessuno mai mi ha saputo dare spiegazioni. Sapevo solo che la provenienza di tale nome era araba, allora la fantasia mi portava in quel quartiere che per me era off limits: “chianu paliddru” e che ho rivisto da grande senza più quel fascino incantato della tenera età.
L’arteria principale del mio mondo si snodava dalla “Bibbirria” a San Giuseppe attraverso la via Bac Bac e traverse limitrofe: via Serroj, vicolo Gozza, salita San Vincenzo, via Saponara, via Santa Sofia, discesa Tribunale fino ad arrivare a piazza Gallo come un fiume alimentato dai suoi affluenti. Che mondo incantato! Quello che allora mi sembrava uno spazio immenso, teatro di appassionate e sudatissime partite a pallone, anzi a palle di carta pressata e legata con lo spago a mo di paralleli e meridiani, con Leo Grado, Totò Sutera, Tonino D’Oro, mio fratello Teo ( i quattro da maiddra) e altri il cui ricordo si perde nella memoria dei tempi , adesso, da grande, altro non è che un angusto marciapiede triangolare.
Che dire poi degli altri giochi che ci inventavamo per trascorrere lietamente e con spensieratezza le ore delle giornate, soprattutto quelle calde e afose, piuttosto che riposare come desideratodai nostri genitori. Non avevamo come i ragazzi di oggi giochi già pronti all’uso: ci dovevamo inventare un po’ tutto e maggiore era la difficoltà dell’invenzione più grande era lo spasso. Così archi e frecce ( di indiana memoria) venivano ricavati dalle stecche degli ombrelli, i residui di pesce abbandonati dai venditori sui banconi di marmo “do chianu Lena” servivano,con le bottiglie recuperate dalla vicina fabbrica di gazzose di Canzoneri , per la caccia grossa alle vespe.
La tecnica usata, per chi è curioso, era quella di legare i pezzetti di pesce ad un filo a mo’ di amo in tal modo l’insetto che abboccava
mercato del pesca al chiano lenaveniva calato dentro la bottiglia immediatamente tappata. Fili di ferro, recuperati chissà dove, venivano modellati in cerchi e fatti scorrere lungo la via a mezzo di un’asta anch’essa di ferro modellata a uncino; due assi di legno, due cuscinetti a sfera , chiodi e martello ci consentivano la goduria di fabbricare e scorrazzare su trabiccoli che ostinatamente diventavano bellissimi monopattini.
Se poi si aveva la fortuna insperata di venire in posseso di ulteriori cuscinetti a sfera era il massimo: l’inventore si fabbricava la quattro ruote e sfoggiava il suo mezzo di locomozione con orgoglio, tra l’invidia e la richiesta di passaggi degli altri che tale fortuna non avevano avuto. Ma attenzione ! Il mezzo in questione funzionava solo in discesa perchè per le risalite si doveva fare ricorso alle proprie gambe appesantite, peraltro, dalla fatica e dal peso del mezzo stesso.
Ma che felicità assaporare l’ebbrezza della velocità! Il carrettino, superati i primi momenti di proprietà esclusiva diventava di multiproprietà con turnazione affidata ad una folkloristica conta dal sapore veramente misterioso.
Ricordi, quanti ricordi, meravigliosi ricordi.
fonte rivista Agrigentini a Roma e altrove
https://www.spreaker.com/episode/42227791
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