Agrigento,.
A Pesto ho veduto un guasto agli inizii, una minaccia per un futuro imminente che potrebbe anche non avverarsi se veramente i nostri governanti intendano porvi rimedio. Ad Agrigento il misfatto è già compiuto, il danno è irreparabile, orrendo risultato della associazione a delinquere dei peggiori nemici che abbia questa nostra patria infelice, nessuna regione esclusa: speculatori avidi, politici e governanti indifferenti — o peggio — proni alle voglie e agli arbitrii dei primi, cittadini che chiudono ne! cuore un motore a scoppio e hanno in uggia ogni richiamo alla bellezza alla tradizione e alla civiltà.
La Valle dei Templi c’è ancora, e bisogna ringraziare il soprintendente alle antichità se ancora non c’è un distributore di benzina accanto al tempio della Concordia, se non si è costruita una fornace presso il tempio di Giunone per sfruttare il banco di bruna argilla su cui poggia, se un albergo sorto di recente al margine della zona archeologica non si è ancora trasmutato, com’è nell’intento del suo proprietario, in un gigantesco edificio a elle alto cinque piani.
Ma non c’è più, non tornerà più intorno ai templi il vasto scenario della campagna arborata e solitaria fino al mare, non avranno più l’armonioso sfondo della città medievale tutta raccolta al sommo del monte — l’antica acropoli — fusa dai secoli in una composta armonia di volumi e di colori, e sotto le case più al basso una lucida balza di verde scendente fino alla strada che conduce ai templi; quasi se avessero i suoi abitanti un sacro timore. Oggi la fascia di verde è scomparsa, cala dall’acropoli e marcia minaccioso verso le favolose rovine un disordinato esercito dei più sgraziati edifici che frettolosi capomastri possono concepire, i soliti giganteschi canterani con i sovrapposti cassetti semiaperti; avanzano ancora in ordine sparso, ma ogni stagione ne accorrono altri a rinforzare la prima linea, saranno ben presto una barricata compatta. Scendono come calamitati verso i templi d’oro, come non potessero avere altra meta, fanno massa e groviglio invece di estendersi come sarebbe più ragionevole sull’ampia pianura a sud ovest verso Porto Empedocle che della città è il sobborgo marino.
La direzione generale delle Belle Arti ha preparato un piano di rispetto che vincoli la superstite cornice di campagna intorno alla zona archeologica; ma prima che il piano divenga legge, che abbia tutte le approvazioni necessarie, che riesca indenne da proteste e pressioni d’ogni genere, passerà tempo; e non è detto che sarà poi rispettato, gli amministratori e i profittatori della città hanno imparato a fare come Semiramide, «che libito fe’ licito in sua legge ».
Tutta questa fungaia di costru-zioni è sorta nel giro di una decina d’anni; e con moto accelerato negli ultimi cinque. Guido Piovenc, che visitò Agrigento nel 1955, scrisse allora che l’espansione edilizia non l’aveva ancora sciupata. Il primo edificio spropositato, un torrione di sedici piani che aduggia la pittoresca piazza del Municipio, è venuto su in fretta senza che il sindaco e gli assessori che se lo vedevano crescere sotto gli occhi di ora in ora ci abbiano trovato nulla a ridire. Fece opposizione, mi dicono, il soprintendente ai monumenti di allora, ma si dette per vinto quando venne a sapere che l’impresa costrut-trice era potentemente ammani-gliata a Roma. Trovò invece il coraggio di ribellarsi il cittadino proprietario di una casa su cui il torrione incombe; e il suo ricorso è stato accolto dal presidente della Regione che ha ordinato la demolizione degli ultimi piani. Ma i sedici piani sono ancora lì, perché l’impresa ha fatto ricorso al Consiglio di Stato; e intanto, mi dicono, il proprietario ricorrente sarebbe stato indotto con un bel gruzzolo di milioni a ritirare il ricorso.
A me pare che la violazione delle norme vigenti in tema di elevazione e di distanza dai vicini edifici sia reato di azione pubblica, e l’ordine di demolizione resti valido; se non avvenga che quei purissimi giuristi del Consiglio di Stato, come hanno già fatto lo scorso anno dichiarando nullo un provvedimento del ministero della Pubblica Istruzione che sottoponeva a vincolo due delle poche superstiti ville romane, considerando cosa sotto l’aspetto del summum jus, injuria, non commettano la notoria injuria di dar ragione all’impresa. Ad ogni modo è opinione di a quegli agrigentini che si danno e premura della sorte della loro città, che l’impunita costruzione r dell’enorme torrione è stata come lo sbaglio del primo botto ne; dietro al primo una schiera di appaltatori e di speculatori si sono buttati allegramente a costruire in barba al regolamento edilizio, ai vincoli, ai divieti, con una anarchia che non tiene conto né di allineamenti né di livelli, scatoloni di cemento accanto a casupole meschine, la stalla accanto a un casermone popolare.
Il caso più pacchiano è quello del viale Porta di Mare. Qualche anno fa, con i soldi i della Cassa per il Mezzogiorno, <fu costruito questo viale in funzione di strada panoramica. Una ringhiera lo chiude da sud; chi vi si affaccia, domina a sinistra, i templi al sommo delle verdi : ondulazioni, e sotto e a destra vede una vastissima campagna florida e mossa al mar d’Africa, fino al pino solitario sulla spiaggia di Caos presso la casa natale di Pirandello. Si vede, o meglio si vedeva. Il viale era ancora in costruzione che subito sorsero tre o quattro torracchioni, nel lato a monte di otto o dieci piani; li chiamano grattacieli, ma sono scatoloni mal fatti, scomodi, ciascuno con una sola scala e così angusta elle si dice che se uno ci muore non si sa come fare a portarlo giù, è dubbio che possa trovar posto se non in piedi nella scatoletta dell’ascensore, dovranno calarlo dalia finestra con un corbello da muratore.
Ed ecco che adesso dal lato opposto hanno costruito o stanno costruendo altri casoni che sorgendo dal pendio sottostante alla ringhiera già oltrepassano di sette o otto piani l’orlo del viale e hanno tolto la veduta ai falansteri di fronte, la ringhiera serve ormai per curiosare dentro alle finestre. Due di questi nuovi baracconi fanno addirittura parete; la balaustrata per godere la bella vista, è scomparsa come la bella vista stessa; ancora il panorama si vede a tratti dagli spazi rimasti liberi fra una costruzione e l’altra, ma anche quei vuoti saranno tappati ben presto, la strada nata panoramica diventerà un budello imo fra due altissimi fianchi di case. Il presidente della Regione, mosso dai sospetti di abusi e di favoritismi politici nel campo edilizio manifestati dai cittadini, ha mandato ad Agrigento a vedere come stavano le cose il viceprefetto Nicola Di Paola e il maggiore dei carabinieri Rosario Barbagallo; e in questi giorni i due ispettori hanno presentato un rapporto al presidente della Regione che è stato integralmente pubblicato dall’Ora di Palermo. E’ un rapporto esplosivo. L’amministrazione comunale di Agrigento, come appare, non si è data premura, da quando gliene fu fatto obbligo sette anni fa, di preparare un piano regolatore, non si è curata di fare osservare le disposizioni legislative e regolamentari nel campo edilizio, concedendo anzi ampie sanatorie alla massima parte degli edifici abusivamente costruti, in contrasto con le norme vigenti o con quelle indicate nella licenza di costruzione, quelle rare volte che i costruttori si davano premura di chiederla.
Ne è derivata, dice il rapporto, una condizione di cose preoccupante. « Da un lato cittadini si sono semiti autorizzati a realizzare opere in contrasto con le prescrizioni in vigore; dall’altro gli amministratori hanno fatto a gara nell’accordare facilitazioni e benefìci di ogni genere in contrasto con le norme stesse. Tutti coloro che hanno costruito nella città negli ultimi dieci anni hanno contribuito a creare un disordine insanabile; ma in particolar modo vi ha influito il comportamento inqualificabile dei i cosiddetti grandi costruttori, che : profittando forse di appoggi di i varia natura, nonché della condiscendenza di alcuni amministratori, hanno elevato assurde ed orribili costruzioni in cemento armato, ad un’altezza non i consentita…« Né a frenare la loro perniciosa attività sono state bastevoli le ordinanze di sospensione dei lavori e gli atti di diffida, né le condanne al pagamento di una ammenda, ovvero all’arresto di qualche mese emesse dall’autorità giudiziaria, perché essi erano (e sono) sicuri che mai nei loro confronti sarebbe stato preso ed eseguito il provvedimento dell’abbattimento delle opere abusivamente costruite (…) Ora di fronte alle continue infrazioni, all’occupazione abusiva di suolo comunale, ecc. gli amministratori avrebbero dovuto mutare direttive ed imporsi nei confronti di tutti per ottenere la completa osservanza delle disposizioni in vigore; invece essi hanno continuato ad apportare riduzioni alle cauzioni (generalmente condonando i nove decimi) e ad approvare progetti in sanatoria ed a concedere deroghe per costruire ad un’altezza maggiore di quella consentita… ».
E’ un duro atto d’accusa. Ma io mi chiedo perplesso : un’inchiesta di questo genere condotta nella maggior parte delle città italiane, a cominciare dalla capitale, non porterebbe a conclusioni altrettanto scoraggianti? E una analoga indagine ordinata dalla Corte Costituzionale, che s’inducesse una buona volta a investigare come lo Stato si sia comportato e si comporti nei riguardi del più violato articolo della Costituzione, il nono («La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione ») non finirebbe con una condanna ben più severa?
Paolo Monelli
La Stampa maggio 1964