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Le Origini dei Fasci Siciliani in Sicilia nel Racconto di Uno dei Protagonisti, l’Agrigentino Francesco de Luca

1 Maggio 2017 //  by Elio Di Bella

Il titolo dello scritto mi obbliga ad accennare che l’idea di unire in una vasta associazione tutte le forze operaie nacque nella mente di Giuseppe De Felice, il quale pel primo fondò a Catania nel 1891 un Fascio, forte sin da nascere di circa 600 soci. S’è detto che Pètrina Niccolò avesse molto prima fondato a Messina od ideato un Fascio, lasciato in asso per la sua carcerazione; ma io nulla ho potuto conoscere su ciò dallo stesso Pètrina, e bisogna confessare che l’idea del Fascio, se ci fu in Pètrina, rimase in embrione nel suo cervello o si circoscrisse a Messina, la cui provincia non si distinse nell’ultimo e meraviglioso movimento proletario della Sicilia.

De Felice, per la sua attività febbrile, per l’innato spirito di organizzazione, fe’ penetrare la nuova forma del sodalizio operaio in parecchi Comuni della sua provincia e di quella vicinissima di Siracusa. Intanto Colajanni aveva pubblicato il suo Socialismo, libro che, pel modo come fu scritto, attirò alle nuove idee sociali molti giovani repubblicani dell’isola, la cui classe intelligente e studiosa non si mostrava, poco prima del 1890, gran fatto tenera del socialismo, creduto un ritorno a vecchie utopie e ad un ordinamento di sociale dispotismo.

Codesto libro di Colajanni — è giocoforza confessarlo — produsse grande impressione in Sicilia e raddrizzò molte idee storte; chi scrive può farne irrefragabile testimonianza, perché fu tra i repubblicani che dalla lettura del Socialismo si convertì alla novella dottrina. La Sociologia criminale fece il resto e preparò molto efficacemente il terreno elettorale per l’affermazione del giovanissimo partito socialista di Sicilia sul nome di Colajanni, che in quattro Collegi ottenne circa 18.000 voti: i quali, se non si possono attribuire tutti ai socialisti siciliani, sono una prova del lavoro oculato, efficace da essi compiuto: perchè i Comitati elettorali pel Colajanni erano in gran parte composti di socialisti.

processo ai capi dei fasci

La fusione dei Circoli radicali di Palermo, invitanti nel 1890 — credo nel maggio — il Colajanni ad una conferenza, generò una Federazione dei repubblicani-socialisti di tutta l’isola, i rappresentanti dei quali, convenuti ad un banchetto e ad un Comizio a Palermo, il 4 o 5 aprile 1891, stabilirono che quind’innanzi tutte le forze radicali della Sicilia fossero strette ad un patto. E la prova mirabile di quel patto, rinsaldato dalla propaganda del giornale l’Isola, si ebbe nel maggio 1892, a Palermo, in occasione del Congresso delle Società affratellate; Congresso che esercitò grandissima influenza sul progresso delle idee socialiste in Sicilia.

Vi partecipò De Felice, con una larghissima rappresentanza dei Fasci di Catania e di Paterno, e parlò oltre un’ora, dimostrando i vantaggi meravigliosi dei Fasci. Ma chi spezzò una lancia, davvero poderosa, pel socialismo fu Errico De Marinis, ingegno elevatissimo e colto, attorno al quale si strinsero i collettivisti dell’isola, che in grande maggioranza ebbero speditamente ragione dei mazziniani, attraendo a sè lo stesso Felice Albani, dichiaratosi collettivista.

Ed ecco che in Sicilia si afferma in modo solenne il socialismo, spoglio di quei malintesi e di quei sentimentalismi che l’aveano accompagnato sin dal suo apparire. Un solo passo, ma importantissimo, rimaneva a dare: far accettare ai Fasci, sorti o da sorgere, la tattica del partito socialista. E’ ciò che fece Bosco Garibaldi, che tornato più entusiasta dal Congresso socialista di Genova nel 1892, scrisse nell’Isola che era tempo di uscire dagli equivoci e che i Fasci veramente decisi a conseguire il miglioramento degli operai doveano ascriversi al « Partito dei lavoratori italiani »; e, datosi egli stesso a una propaganda instancabile, suscitò in provincia di Palermo tanti Fasci, che furono come una scintilla su polveri ammucchiate. L’isola tutta si coprì di una fitta rete di nuovi sodalizii, ciò che permise la pubblicazione di un loro organo speciale: la Giustizia sociale.

Giammai niente di simile s’era vista in Sicilia: e il maggior merito ne va dato a Bosco Garibaldi, la cui opera benefica, solerte, disinteressata resterà nella storia dell’isola nostra.

Però l’attività e l’energia d’un partito, specialmente se giovane e poco numeroso come il socialista, non potevano produrre un così largo e celere moto, se profonde ed antichissime cause non vi avessero concorso. E, a ben comprenderle, non è un fuor d’opera un cenno storico.

Un po’ di storia.

Esposta, per la sua postura geografica, alle irruzioni e rapine di moltissimi popoli invasori, la Sicilia — dopo aver goduto, a quanto sembra, una pace e una prosperità relative alla fine dell’epoca quaternaria, con una gente quasi autoctona, la sicana — disputata da Greci e da Cartaginesi, sfruttata a sangue dal dominio di Roma che le imponeva, fin d’allora, la feroce rapacità dei suoi più tristi aguzzini — dopo una serie di sanguinose vicende, ebbe, alfine, nel medio evo, una monarchia propria, la normanna, che, se può essere soggetto di drammi e liriche, esaminata con la critica storica si palesa quale un potere dispotico, a tutto profitto di re, baroni e prelati, gravanti con tasse ed arbitrii sulle povere plebi, per nulla rappresentate nel famoso Parlamento o Magna Curia.

Ed anche quando le città regie o demaniali ebbero rappresentanti nel grande Consesso — periodo degli Aragonesi, a cominciare dal 1286 — i mandatari popolari (chiamiamoli così) non potevano valere gran cosa, sopraffatti dagli aristocratici della spada e della stola; il che appare molto più chiaramente nella dominazione dei viceré, soggetti alle pretese dei baroni e dei vescovi, in nulla infrenati dalle istituzioni popolari, rigogliose nell’alto e medio continente italiano.

Priva la Sicilia della libertà dei Comuni e delle guarentigie assicurate all’Inghilterra dalla Magna Charta, dovette subire nel modo più infame tutti gli orrori del feudalismo, che non permise la diffusione di quelle gilde o corporazioni d’arti e mestieri, le quali in altri paesi furono la fonte di tanti vantaggi del popolo.

Il soffio della Rivoluzione francese non penetrò nell’isola a dissolvere la vecchia compagine delle angherie e di mille pregiudizi; ed il feudo continuò a regna con la sua coorte di brutalità e d’inaudite spoliazioni, che il tentativo di Costituzione del 1812 — dopo pochi anni abolita da Ferdinando I — non potè far sparire con una rachitica e incompleta trasformazione dei feudi in allodii.

A questo punto è da notare che l’aristocrazia del blasone e della Chiesa, col Parlamento — diviso in tre bracci, e quello dei Comuni era il più corto e il più debole — spadroneggiava di fatto nelle cose politiche: e il re, o il viceré, era un fantoccio nelle sue mani, poiché il predominio economico importa sempre preponderanza politica.

Inauguratasi però la monarchia assoluta dei Borboni, l’aristocrazia — che ancora in Sicilia è la classe più ricca, almeno in certe provincie — perdette molti privilegi; ed ecco che, abolita la costituzione del 1812, essa congiura per avere una monarchia temperata — donde l’apparire di molti nobili tra i patrioti. Ma il liberalismo degli aristocratici non aveva di mira, come di leggieri si comprende, che le prerogative della propria classe, e non pensava gran fatto alla libertà ed indipendenza d’Italia.

Infatti nel 1848 la rivoluzione mirava ad una costituzione siciliana, ed un re si chiedeva alle dinastie che erano più in odore di liberalismo, come la sabauda e la lorenese. Lo stesso gran patriota e liberalone Crispi, segretario di Ruggero Settimo, si rassegnava ad una semplice costituzione siciliana, e mentre il fiore del patriottismo italiano s’irrorava di sangue sotto le mura di Roma, egli, Crispi, ponzava decreti.

Non ancora aveva egli ricevuto ammaestramenti da quel Mazzini che lo fece conoscere agli italiani e che poi fu tradito ed ora è dal Crispi calunniato col dire (portentosa ignoranza!) che il programma politico dell’esule generoso si restringe ad uno sterile nazionalismo e non giunge sino ali’umanità. Da che pulpiti certe prediche!…

Francesco De Luca, I fasci e la questione siciliana, 1894

Francesco De Luca (Agrigento, 1858 – 1923), avvocato, negli anni Novanta si avvicinò al socialismo comparendo tra i fondatori della federazione repubblicano socialista siciliana. Con l’adesione ai Fasci venne arrestato e diventò uno degli esponenti di spicco del socialismo siciliano. Trasferitosi a Catania, collaborò con la Rivista di diritto penale e di sociologia criminale e con la Scuola positiva di Enrico Ferri.

 

Categoria: Storia SiciliaTag: fasci siciliani

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