Guardando dall’alto l’agro agrigentino la fila degli antichi tempi si disegna splendida nell’azzurro mare africano e con questo ordine da oriente ad occidente: tempio di Giunone Lacinia, della Concordia, di Ercole o Vulcano, di Castore e Polluce ecc
Avendo già parlato del tempio della Concordia come quello che attira maggiore attenzione per la sua, quasi integra, conservazione, passiamo a trattare degli altri secondo l’ordine annunziato e quindi di quello di Giunone Lacinia.
Triste privilegio dei monumenti agrigentini, dice il Salinas, è il battesimo somministrato ad ognuno di essi: triste ricordo di quel tempo quando gli eruditi potevano imporre al pubblico, come certezze scientifiche, i vaneggiamenti della loro fantasia ; onde lo Schubring, a scanso di equivoci; li denomina in questo modo: il così detto tempio di Giunone Lacinia, il cosidetto tempio della Concordia, il così detto tempio «di Ercole, e così di seguito. Parliamo dunque del così detto Tempio di Giunone Lacinia.
E prima di tutto: donde questo sopprannome alla dea Giunone ?
E questo soppranuome è Lacina, Licina, Licinia o Lucina ?
A consultare gli scrittori antichi e moderni, anche i più gravi ed accreditati, nessuuo ha saputo addurre un qualsiasi motivo di questo soprannome’: e tutti, o quasi, indifferentemente chiamano Lacina, Licina, Licinia o Lucina, comechè quest’ultimo abbondi di più degli altri. Adolfo Holm nella sua pregevole Storia della Sicilia nell’antichità dice che Giunone ebbe “questo soprannome perchè era venerata in un celebre tempio presso il promontorio Lacinio. Dove sia questo promontorio non mi è stato dato indovinare. Sarà vicino Olimpia o nei pressi di Samo, dove sontuosi tempii furono eretti a Giunone e di cui tuttora ci rimangono notevoli avanzi ? Chi lo sa ! È innegabile però che Holm, rispetto alla Sicilia, merita quel posto che tengono il Mommsen per la Storia Romana e il Curtius per la greca.
Noi quindi, senz’altro, forti della sua autorità, chiameremo sempre il monumento che stiamo illustrando Tempio di Giunone Lacinia.
Esso sorge maestoso sull’angolo sud-est, sopra un suolo disuguale, sicché le fondamenta sono di altezza molto diversa, di cui la maggiore è ad occidente e tramontana. Verso oriente si avvicina al suolo e quasi scompare all’angolo nord-est. Il lato sud, specialmente la parte occidentale, sta proprio sul precipizio Sopra queste fondazioni si sollevano quattro gradini, che verso oriente dov’era la facciata, sono ridotti ad una vera scala per potere salire più comodamente, e fra gli ornamenti di questi gradini, specie nel lato sud, trovansi ancora avanzi di bellissimo stucco e in tanta estensione da non lasciare più dubbio che tutto il tempio era così rivestito e sfarzosamente colorato. Sul gradino superiore poggiano le colonne del peristilio. Il tempio è periptero, cioè alato o circondato da una file di colonne, oltre alle due che ci sono nel pronao e nel postico, tra le ante: potrebbe quindi appartenere alla forma così detta, in greco, in parastate, o così detta, in latino, in antis cioè alla forma più semplice fra tutte, dopo la creazione degli ordini architettonici. É esastile, cioè con sei colonne nella facciata e nel lato corrispondente, e undici nei due fianchi, conforme all’uso comune in architettura di mettere ai fianchi del tempio il doppio delle colonne della facciata. In tutto le colonne sono trentaquattro, oltre alle solite quattro, in antis, due nel pronao e due nel postico della cella. Ai lati della porta di questa si vedono gli avanzi delle due gradinate che portavano al tetto. La cella, cioè la parte essenziale del tempio, è divisa in tre parti : nel pronao o vestibolo, nel nao, nell’epistodomo che dovevano esser muniti negl’intercolonni, tra le testate, di cancelli di bronzo e cortine ricchissime, come ci dice il Prof. Luigi Archinti nella sua opera Stili nell’Architettura, Parte I, voi. I. fasc. 19, pag, 210 e seg.
Il pronao o vestibolo era il luogo dinanzi la porta del tempio, dove, forse, gli oblatori aspettavano il cominciare delle cerimonie. La cella propriamente detta o Nao, rispondeva a quello che si dice oggi la casa o l’abitazione del Signore, ossia la stanza nella quale era supposta la presenza della divinità, e le sue mura spesso erano coperte di ex voto in rame, in argento, in oro. Vi si tenevano gli oggetti destinati al culto, vasi, candelabri, incensièri, casse piene di stoffe ricamate in oro per parati dei sacerdoti e delle statue.
L’epistodomo o postico, specie di pronao posteriore, serviva ad uso analogo a quello delle nostre sacrestie e del tesoro, che hanno molte cattedrali. In fondo a questo spazio, nel mezzo, si vede un luogo elevato di quattro gradini, sui quali, certo, doveva sorgere la statua di Giunone.,
Le muraglie della cella portano ancora le tracce del fuoco che un dì distrusse il tempio; e vuolsi, secondo molti scrittori, che siasi qui ritirato il ricco e generoso Gellia con la sua famiglia e i suoi tesori allorché Agrigento fu presa dai Cartaginesi sotto il comando di Annone. Quando egli si accorse che i nemici si disponevano ad atterrare la porta del tempio, vi appiccò il fuoco e vi perì con tutto il suo seguito. All’epoca che lo visitò il Fazello, il tempio era ancora completo, ma ne previde la non lontana rovina per alcune colonne che mal si reggevano e che nessuno pensava a restaurare; e il tempio in parte crollò. Il B.ne de Riedesel nel suo Voyage en Sicile e dans la Grande Grece, che non deve rimontare ad epoca assai remota, assicura di averlo trovato ottimamente conservato: le temple trés bien conservé qui porte le nom de Iuno Lacinia. Nel 1787 il Principe di Torromuzza, lume delle lettere e decoro dell’Isola nostra, cooperò perchè il grande edificio si fosse conservato in quello stato in cui oggi si trova, cioè con tutte le colonne ad eccezione di tre al lato meridionale ed una al lato orientale. Quelle a nord e due all’angolo sudest, conservano anche il capitello, le altre il tronco più o meno alto. Ogni colonna era composta di quattro tamburi, oltre al capitello, che in bellissima sagoma ha, oltre i soliti anelli sotto l’echino, due anelletti che tagliano le scanalature sino al sommo scapo e formano un grazioso collarino.
Avevano l’altezza di metri 5, 85 e con diametro al sommo scapo di metri 1, 070 e ciascuno aveva venti strie. Più dettagliate misure potrebbero riscontrarsi nella Topografia storica di Agrigento di Schubring e nella citata Storia di Holm, i quali riportano le misure già prese e dal duca di Serradifalco e dal Prof. Basile, che lo visitò nel 1858. Secondo queste misure, la lunghezza del tempio, senza gli ultimi scalini aggiuntivi al lato di oriente, è di metri 41, 106.
La considerevole altezza dell’architrave e del fregio, la semplicità degli ornamenti, la somma purezza dello stile e la nitidezza dell’esecuzione dimostrano come uno dei più antichi templi, con pietre poste a secco, cioè senza alcun cemento, tranne le quattro cilindriche, che compongono il fusto delle colonne innestate nel loro cateto con un asse di castagno.
Dinnanzi alia facciata di questo tempio vi sono avanzi di muratura, che sembrano avere appartenuto ad una galleria, forse aperta, provveduta di sedili, che potevano essere serviti per gare di musica o per comodità del popolo in attendere l’ora dei sacrificii o passeggiarvi. Era il più bel sito dello antico Agrigento, e di là potevasi godere il panorama della città e della campagna, la incantevole vista del mare da fare esclamare, come al Barone di Riedesel :
Hic vivere vellem
Oblitusque meorum, obliviscendus et illis.
Ma questo tempio appartenne davvero a Giunone ? Picone lo mette in dubbio, dicendo che forse era consacrato a Venere, e ne adduce tre argomenti : primo perchè l’antica tradizione ne serba tuttora il nome, appellandosi dai contadini di quei dintorni lu tempiu della Dia Vennira; secondo perchè supera in leggiadria le forme di tutti gli altri tempii agrigentini; terzo perché un tempio fu dai Cretesi edificato a Venere nel sito ove Terone costrusse la muraglia della città. Holm dichiara che è lecito supporre che questo tempio fosse consacrato al culto di Nettuno, ch’era tanto caro agli Agrigentini, come è dimostrato dalle monete coi numerosi simboli di quel dio (granchio, delfino, polpo, scilla) ; e difficilmente si poteva trovare in Agrigento un luogo più bello per erigere un tempio a Nettuno.
Ma che un tempio ci fosse in Agrigento dedicato a Giunone, risulta da quanto ci narra Plinio, cioè che Zeusi, dovendo dipingere, per uso degli Agrigentini, un quadro che rappresentasse quella dea ed esporla nel tempio a lei dedicato, scelse cinque fra molte leggiadre vergini agrigentine, dalle quali raccolse quanto poté di più bello e ne formò la figura, che fu stimata inapprezzabile. Ma tutta questa storia, soggiunge Holm, pare si debba riferire ai Crotoniati. Ed infatti il tempio di Giunone Lacinia sorgeva presso il loro paese, e Cicerone a loro riferisce il fatto di Zeusi. Lo scambio con Agrigento si potrebbe spiegare supponendo che Zeusi facesse per questa città un altro quadro, il che sarebbe argomento della esistenza in Agrigento di un tempio dedicato a Giunoue. Ma perchè, domando io, ricorrere a questo scambio, quando già sappiamo che il quadro fatto da Zeusi ai Crotoniati non rappresentava mica Giunone, ma la bella Elena, come ci assicura Lipparini nella sua eccellente Storia dell Arte ?
Non può forse conciliarsi l’uno e l’altro fatto, che cioè Zeusi dipinse il quadro di Giunone su le più leggiadre donzelle degli Agrigentini, dei quali ebbe commissione per il loro tempio, e il quadro di Elena sulle più belle figliuole dei Crotoniati per qualcuno dei loro templi ? Al quale argomento, che sembrami di non poco valore, bisogna aggiungere che le leggiadre dimensioni di questo edificio, i suoi ornati, gli stucchi, di cui rimangono ancora larghe tracce, c’inducono a credere che si apparteneva alla Dea uscita dal cervello di Giove, a Giunone. E di bellissimi stucchi dovette essere rivestito il suo tempio e vivamente colorato alla foggia di quelli di Egitto e di Assiria, dai quali i Greci trassero l’ornamentazione dei loro edifizi.
A leggere infatti certi passi dell’Odissea, dove Omero descrive palazzi riccamente ornati, par di vedere dei palagi niniviti. E nessuno più dubita che i templi di Selinunte e Siracusa, di Pesto e di Agrigento fossero stati dipinti, tanto più i nostri, che per nascondete la imperfezione della pietra arenaria, di che son costruiti, ebber bisogno prima del rivestimento in stucco e poi della decorazione policroma, in cui figurano i colori più vivi e taglienti, il rosso scarlatto, il rosso cupo, l’azzurro, il giallo paglia, il giallo oro e il nero; colori che convenivano agli effetti robusti e sontuosi di una architettura destinata ad essere involta da una luce meridionale, giacché le tintarelline, come osserva l’Archinti, si perdono in Sicilia e in Grecia. Varii frammenti infatti con vivissimi colori furono trovati negli scavi dei nostri tempii di Castore e Polluce e dell’Ercole, frammenti che tuttora possono ammirarsi nel museo di Palermo.. !
Ed a restare veramente maravigliati basta riscontrare la tavola VIII del volume Primo dell’Architettura nella Storia e nella pratica, Parte seconda dell’Ornamento nell’Architettura, del prof. Alfredo Melani, in cui fu raccolta una serie di tipi di policromia architettonica dei templi di Selinunte e di Agrigento’. Meraviglia sorprendente che, più che in ogni altro, doveva risplendere nel tempio di Giunone, di quella Dea, che, sorella e sposa del tonante Giove, doveva dal famoso Zeusi essere ritratta dalle più belle forme delle più belle vergini agrigentine (*).
Giuseppe Russo, Le antichità di Girgenti. Il tempio di Giunone, in La Siciliana, n.9, pp.-100, 1912