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La Famiglia Pirandello

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21 Aprile 2016 //  by Elio Di Bella

pirandello

Dalla comunione di ideali e di fede nacque il matrimonio tra Don Stefano Pirandello e Donna Caterina Ricci Gramitto, nel 13 novembre del 1863.

 Dopo due anni nasceva da questa unione Rosolina, dopo quattro anni nel 1867 nasceva Luigi, e via via nel ’69 Annetta, nel ’74 Innocenzo, nel ’79 Giovanni.

Luigi nasceva per caso in campagna, nella villa del Caos, che fu tanto cara al Poeta. Ed ecco come avvenne la sua nascita in quella villa.

Infieriva ad Agrigento l’epidemia colerica del 1867; si era nel mese di Maggio, Donna Caterina era nell’ottavo mese di gestazione, Don Stefano si sentì colpire dal morbo mentre era per la strada, ad accudire i suoi affari.

 Per non dare alla moglie, in quello stato, una improvvisa preoccupazione pensò di recarsi presso il cognato Don Diego Vassallo, Garibaldino anche lui, e lo pregò di recarsi nella sua abitazione per annunziare a Donna Caterina che doveva partire per affari alla volta di Palermo; gli preparasse subito una valigia con un po’ di biancheria, egli avrebbe dato notizia da Palermo.

Così passò circa un mese in cui Don Stefano fu per morire; salvatosi dal male fece ritorno a casa, e informò la moglie, che era vissuta in grande ansia pel silenzio ostinato del marito, che intendeva recarsi in campagna, al Caos, per ristabilirsi.

Così Donna Caterina che aveva già completato il nono mese di gestazione fu trasportata in campagna in lettiga; era il 22 giugno, dopo sei giorni nasceva in questa villa Luigi Pirandello, senza l’ausilio della levatrice perchè nessuno voleva recarsi in campagna per assistere la puerpera in quel terribile tempo di epidemia.

 La casina del Caos è la Valsania de « I vecchi e i giovani » ; il « camerone » di cui si parla in quel romanzo è proprio la stanza ove il Poeta vide la luce; Don Cosmo del romanzo è lo zio materno Don Vincenzo, che assistette alla nascita del nipote.

La casina del Caos, era stata acquistata nel 1811 dal Canonico Don Innocenzo Ricci Gramitto ciantro della Cattedrale di Girgenti e da questi donata al nipote Avv. Don Francesco che a sua volta la donò al fratello Avv. Don Rocco.

Fu sempre un luogo estremamente caro a tutta la famiglia dei Ricci Gramitto e del Pirandello, tanto che le feste nuziali della sorella maggiore e di Luigi con la Antonietta Portulano ebbero luogo in quella villa ‑ e quando Luigi, venne in Agrigento con la compagnia Pirandelliana nel 1927 vi fu accolto dal fratello Enzo, con la famiglia Abba, e con quasi tutti i parenti Agrigentini e moltissimi amici.

Quante volte ricorrono nell’opera del nostro Grande Estinto quei cari luoghi! nelle novelle, nel romanzo « I vecchi e i giovani » e nelle liriche! « Io non dovea, te piccolo alberetto, oltrepassar giammai… ». L’alberetto è un albicocco che era davanti la scala a collo della casina!

Luigi crebbe ad Agrigento, nella casa sita in via Luigi Pirandello, ex San Pietro. Fu scritto che la sua iscrizione alle Scuole Ginnasiali, diede luogo a scene violente da parte del padre Don Stefano; nulla di più inesatto: Don Stefano aveva desiderato che il figlio seguisse gli studi tecnici, ma dopo due mesi, vedendo che il ragazzo mal si adattava a quel genere di studi, consentì senza protestare che si scrivesse alle scuole ginnasiali di Agrigento.

Nei primi mesi del 1882 la famiglia di Don Stefano si trasferì a Palermo, e Luigi, quindicenne, fu per morire per un assalto di febbre miliare. La famiglia abitava allora in via Porto di Castro, in un appartamento al primo piano dietro le mura del palazzo Reale, di proprietà del Sig. Ricevuti; lì rimase per un anno, si trasferì poi in via Borgo, dirimpetto la Chiesa di S. Lucia, al secondo piano, ove rimase per altri due anni.

In questo periodo Luigi entrò in intimità con molti cugini paterni, e specialmente coi figli dello zio Andrea, la cui figliuola Lina fu il primo amore giovanile del Poeta.

 Ritornata la famiglia ad Agrigento nel 1885, Luigi, per non interrompere i corsi liceali, rimase a Palermo insieme col fratello Enzo, minore di lui di sette anni, in pensione presso una vecchia zia paterna, di nome Rosaria, vedova Gonza che abitava sul principio di via Bontà, in un appartamen- tino al primo piano.

In questo periodo Egli già scriveva le prime liriche che furono raccolte poi nel suo primo volume di versi edito da Pedone Lauriel a Palermo, col  titolo ” Mal Giocondo “.

Di questo volumetto si occupò anche la « Nuova Antologia » che pubblicò una recensione col titolo   «Per un nuovo poeta ». In questo medesimo periodo il Maestro oggi estinto, si legò in fraterna amicizia col poeta albanese Giuseppe Schirò, mancato ai vivi pochi anni fa, e col giovane critico Enrico Sicardi che fu poi professore di filosofia e gli fu amico assai caro.

Conseguita la licenza liceale, il Maestro si trasferì a Roma in casa dello zio materno Rocco Ricci Gramitto, che aveva la carica di Consigliere Delegato della Prefettura Roma, e che gli era tanto vicino per le sue tendenze alla poesia, come degno figlio di Don Giovanni Ricci Gramitto.

A Roma rimase due soli anni, e fu allievo prediletto del Monaci che lo consigliò di recarsi in Germania. Difatti si recò a Bonn, chè Don Stefano, orgoglioso dei primi successi del figlio gli fu largo di aiuti.

Laureatosi in  Filosofia romanza con una tesi assai dotta (Laute und Lautentwickelung der Mundart von Girgenti) per cui meritò il Summus in philosophia honoris; fu dallo stesso rettore Riccardo Förster, incaricato dell’insegnamento  della Filosofia comparata delle lingue neo‑latine in quell’Università.

Fu là che conobbe ed amò la Jenny Schülz Lander a cui dedicò la « Pasqua di Gea » poemetto composto in quel tempo, ed a cui si riferirono parecchie delle sue Elegie Renane. Ammalatosi di difterite, fu per morire nella città sulle rive del Reno; guaritosi fece ritorno a Roma, accolto ancora dallo zio Rocco presso il quale fissò la sua dimora in quella casa di via Ripetta, sita dirimpetto al ponte omonimo, che fu poi da Lui magistralmente descritta ne « II fu Mattia Pascal » e ne «I vecchi e i giovani » .

 Lì fu raggiunto dal fratello Enzo che si iscrisse all’Università in facoltà di Matematica, e gli fu compagno indivisibile in tutta la Sua attività di quel tempo.

Fu allora che Luigi compose il Suo primo romanzo « L’esclusa » che si chiamò in origine « Marta Ayala»  e molte novelle che non trovarono editore. Egli soleva scrivere in cartelle volanti nitidissime i suoi lavori e riuniva le cartelle in copertine adorne di fregi. Il Bemporad fu tra i primi suoi editori e pubblicò il volumetto di novelle « Amori senza amore » che non ebbe fortuna; qualche giornale letterario pubblicò qualche novella. Scrisse anche allora il suo primo lavoro per il teatro « La morsa » in un atto, che gli fu rifiutato dal capocomico Claudio Laigheb! Incominciò anche il « I vecchi e i giovani » , che videro la luce nel 1913 pei tipi Treves.

Fu quello uno dei periodi più umani dell’esistenza del Poeta che trovava chiuse tutte le porte. Intanto il fratello Enzo rispondeva per Luigi alla chiamata alle armi pel servizio militare (in quel tempo era consentita la surroga di un fratello con un altro). Luigi si era intanto legato in amicizia con Ugo Fleres, col Maestro Saya e con Luigi Capuana che gli furono carissimi amici fino alla morte.

Nel ’94 sposava Antonietta Portulano che amò sempre teneramente e di cui ebbe tre figlioli: Stefano, Lietta e Fausto. Nei primi anni del suo matrimonio il Ministro Gallo gli offrì la cattedra di Commento Dantesco alla Scuola Superiore di Magistero. Un rovescio di fortuna del padre gli fece perdere tutta la dote della moglie che trovavasi investita nella casa commerciale di lui. Furono mesi terribili in cui il Poeta dovette lottare con le ristrettezze più penose. Ma egli era di buona tempra, scrisse in tempo « Il fu Mattia Pascal » col quale si afferma come narratore di eccezione.

 Le sue novelle s’impongono al gran pubblico e la via della gloria comincia ad aprirsi davanti a lui. Siamo così allo scoppio della grande guerra che gli procura ansie inenarrabili per la sorte del figlio Stefano accorso volontario sotto le bandiere e caduto prigioniero e ferito nel primo anno della guerra.

 La moglie, colpita da un male che non perdona, peggiora sempre e si avvia verso la demenza. Intanto lo spirito del poeta si evolve sempre più, e risente del tormento interno che lo travaglia. Vengono  i primi lavori teatrali, le prime grandi battaglie con « Se non cose »,  « Il piacere dell’onestà » , « Così è se vi pare » e poi tutta la serie dei drammi che gli conquistarono la fama mondiale e l’apogeo della gloria fino all’ultima tragica ventata che lo strappa all’affetto dei suoi e all’ammirazione del mondo, così, come un in sogno d’incubo da cui non si riesce a riaversi!

 

Quella che segue è la seconda parte di un lungo articolo che il fratello del drammaturgo scrisse per il  “Fascicolo Pirandelliano ” di « Retroscena »(foto sotto) alle pagine 10‑12.

“Viva Garibaldi e Vittorio Emanuele! Viva l’Italia!”. Era il quindici maggio 1860.  I fratelli Vincenzo e Innocenzo Ricci Gramitto, entrambi avviati al sacerdozio per volontà di uno zio prete, alla tonaca avevano le baionette, ed il giorno dell’insurrezione erano scappati via dal Seminario, unendosi ad altri coraggiosi giovani patrioti. Dopo essersi riuniti nella parte alta della città, essi correvano per le strade di Girgenti, inseguiti dai gendarmi borbonici, sventolando il tricolore cucito dalla madre e dalle sorelle Caterina e Rosalia. I fratelli Ricci Gramitto erano, infatti, dei ferventi antiborbonici, così come il padre, l’avvocato Giovanni Battista Ricci Gramitto, che avendo partecipato ai moti palermitani del ’48, a fianco di Ruggero Settimo, era stato costretto, dopo la riconquista borbonica della Sicilia, a riparare a Malta  Solo un mese prima dello sbarco di Garibaldi e dei suoi mille a Marsala, in barba ai soldati del re napoletano, i due fratelli, mentre i compagni, per distrarre i soldati borbonici, inscenavano una rissa, aveva legato un altro tricolore ad una delle statue poste ai lati della chiesa del Purgatorio. Il comitato rivoluzionario di Girgenti, in collegamento con quello di Palermo, aveva stabilito, infatti, che quella mattina del 4 aprile 1860 dovesse scattare un’insurrezione anche a Girgenti, coordinata con quella più vasta palermitana, dove Rocco, un altro dei sette fratelli Ricci Gramitto,  era stato uno degli organizzatori della rivolta della Gancia, rischiando di perdere la vita .

 

Prima di disperdersi per le campagne, scongiurando l’arresto da parte della sbirraglia borbonica, i giovani erano riusciti a diffondere la notizia che i Mille, l’undici maggio, erano sbarcati a Marsala, aiutati dai vascelli inglesi presenti nel porto, ed ora si preparavano a conquistare Palermo. Vincenzo, Innocenzo ed i loro compagni rimasero per qualche giorno nascosti dalle parti del Caos, campagna che i Ricci Gramitto possedevano in virtù di un diritto di enfieteusi, sin dal 1817, per concessione del barone Don Salvatore Ricca, lungo un tratto di spiaggia alla foce del fiume Akragas, compreso tra Punta Bianca Bianca a levante e Punta Grande a ponente. In quello stesso luogo i coloni greci/gelesi avevano creato l’’Emporio. Presto in città si sparse la voce che Nino Bixio, a capo di una colonna di garibaldini, di cui faceva parte anche il fratello Rocco, si stava avvicinando a Girgenti.  “ State tranquilli picciotti che non va a finire come nel ’48!” li assicurava Vincenzo, sollevato da quella notizia. “ Quando il mio povero padre dovette riparare a Malta, dove morì esule in solitudine, a soli quarantasei anni; che, non fu fortunato come il Crispi, il quale, a Malta, trovò una moglie ed una garibaldina….” Giovanni Ricci Gramitto era stato, infatti, uno dei 43 proscritti in tutta la Sicilia, non ricompresi nell’amnistia del “general perdono del Borbone”.

 

Frattanto, lo zio prete, Don Innocenzo, che, dalla prematura morte del fratello, si sarebbe fatto carico del mantenimento della cognata e dei suoi sette figli, nonché dell’istruzione dei maschi e della dote delle femmine, dopo la sfortunata rivoluzione del ’48, era stato costretto, controvoglia, a cantare in cattedrale il Te Deum di ringraziamento per il ritorno al trono del Borbone. Così i fratelli Ricci Gramitto, non dimenticando la triste sorte del padre, erano cresciuti antiborbonici convinti, e quando Bixio, con la sua colonna di camicie rosse, giunse al Molo di Girgenti, si unirono anch’essi, insieme a tanti picciotti della Valle di Girgenti, ai garibaldini. Nino Bixio per prendere la città usò, allora, uno stratagemma tanto brillante, quanto audace, che permise di evitare lo scontro a fuoco ed ulteriore spargimento di sangue. Uno dei gruppi, in cui Bixio aveva diviso la sua colonna, dopo essere entrati in città, attraverso campi e trazzere indicati dai volontari girgentani, occuparono la caserma Gioeni ed il suo magazzino vestiario, impadronendosi delle divise borboniche. Così per Nino Bixio, travestito da capitano borbonico, alla guida di un manipolo di camicie rosse nella parte di soldati, fu un gioco da ragazzi arrivare a Porta di Ponte – dove il plotone borbonico attendeva ancora l’assalto dei garibaldini – e ordinare al comandante del plotone di tornare in caserma, dove soldati ed ufficiale furono alla fine catturati. Assicurata all’Italia ed ai Savoia la Sicilia orientale, i garibaldini proseguirono alla volta di Catania, dovunque incontrando entusiasmo ed supporto tra la gente. Vincenzo e Innocenzo si unirono anch’essi ai Mille, fino a Napoli, rinunciando all’abito talare per una vita da rivoluzionari – come un tempo aveva fatto il padre -, con buona pace dello zio canonico, costretto a benedire quell’esercito di mangiapreti per amore dei nipoti. Pure Rocco si unì alle camicie rosse, lasciando lo studio legale all’altro fratello Francesco, con gran sollievo dello zio: che Garibaldi, almeno questo nipote glielo aveva lasciato a casa. Se Vincenzo, rientrato in Sicilia dall’impresa, si dedicò alla pacifica vita di insegnante al Regio Ginnasio di Girgenti; ed Innocenzo fece carriera nell’esercito italiano; Rocco tornò a Girgenti con l’aureola dell’eroe.

 

Aveva, infatti, seguito il Generale, come suo luogotenente, fino all’Aspromonte, fino a quell’infausto 29 agosto 1862: quando l’esercito dei Savoia fermò il tentativo di Garibaldi e dei suoi volontari di arrivare sino a Roma e scacciare il Papa Pio IX, rispondendo con i fatti all’irrispettoso dubbio avanzato, alcuni mesi prima, dal quotidiano milanese “La Perseveranza”. Questa importante voce del risorgimento italiano si era chiesto, infatti, quale dei due – se il Re, o Garibaldi, se la monarchia o la rivoluzione – avesse sovranità in Italia, concludendo che “finché questa suprema quistione non si risolva, trattarne ogni altra diventa impossibile.” Da parte sua Garibaldi, in un discorso tenuto a Termini Imprese il 4 luglio del ’62, aveva infiammato la folla dei volontari, facendo nuovi proseliti tra i giovani siciliani. “…Fino a che noi abbiamo altri fratelli schiavi, non siamo veramente liberi”, disse in quell’occasione, “ non avremo libertà perfetta, senza la totale emancipazione dallo straniero. Da Marettimo a Susa, da Susa all’Isonzo, siamo tutti fratelli, tutti una sola famiglia. L’italiano è valoroso. Uniti, avremo Roma, avremo Venezia”. Ma per il Re e Rattazzi la liberazione di Roma, invocata da Garibaldi, appariva come un atto di aggressione nei confronti del Papato e una ingiustificabile dimostrazione di ostilità verso il migliore alleato del Regno di Italia, la Francia di Napoleone III. Così,  in Aspromonte, a conclusione della seconda campagna siciliana, come avrebbe scritto “l’eroe dei due mondi”, qualche tempo dopo, nella sua autobiografia ebbe “ in regalo due palle di carabina”[3]: una all’anca sinistra e l’altra al malleolo interno del piede destro. Non era stato Garibaldi a volere lo scontro; anzi il Generale aveva dato ordine ai suoi, di non rispondere al fuoco e proseguire per la montagna, lontano dai cannoni della Marina Regia. Anche quando i bersaglieri di Pallavicini avanzarono facendo fuoco sui volontari, il generale corse di fronte alla propria linea e prese ad urlare: “No, fermi. Non fate fuoco. Sono nostri fratelli”. Accadde  così l’inevitabile: Garibaldi, in piedi allo scoperto fra le due linee, fu ferito e poi arrestato insieme a tutto il suo stato maggiore e a 909 volontari garibaldini, dei circa tremila guidati dal generale, tra cui anche 232 minorenni, che vennero riaccompagnati nelle case dei genitori. Il primo a soccorrere Garibaldi fu il suo luogotenente, Rocco Ricci Gramitto, che lo liberò dello stivale, che affidò al suo attendente.

 

Il fedele Gaetano Navarra, lo portò poi, insanguinato e forato da una pallottola, a Girgenti. Il ferimento di Garibaldi, nel frattempo, aveva avuto una grande risonanza internazionale: a Londra 100 000 persone si erano radunati a Hyde Park per manifestare la loro solidarietà.; il Primo Ministro inglese, Lord Palmerston aveva offerto all’eroe un letto speciale per la convalescenza. Il governo di Rattazzi venne accusato, in quell’occasione di aver tradito la rivoluzione italiana. Lo stesso Garibaldi, nelle sue Memorie, avrebbe accusato il  Pallavicini di aver ordinato ai suoi bersaglieri l’ “esterminio” dei volontari. Quando Rocco, dopo sei mesi di prigionia, tornò nella sua città, il partito garibaldino locale chiese al Prefetto Falconcini l’autorizzazione per una grande manifestazione in onore del reduce Ricci Gramitto e dello stivale; che venne poi concessa al fine di “evitare ulteriore turbativa” in un periodo in cui, le autorità militari di stanza in Sicilia, cercando di farsi perdonare la eccessiva tolleranza dell’agosto, attuarono una vera e propria “caccia al garibaldino”, che portò all’eccidio di Fantin, con l’uccisione di sette volontari. Durante la grande manifestazione di Girgenti, lo stivale di Garibaldi venne venerato da un’immensa folla di “fedeli garibaldini” giunti da ogni parte della Sicilia e del Meridione continentale, più della stessa reliquia di San Calogero, “lu Santu Niuru” di Girgenti, con grande scandalo e nasi arricciati dei nobili e della borghesia conservatrice.

 

In quell’occasione Caterina Ricci Gramitto conobbe un compagno d’armi del fratello, trovatosi in città per affari attinenti al commercio dello zolfo, tale Stefano Pirandello, fervente repubblicano e garibaldino convinto. Abile tiratore, egli aveva partecipato all’impresa dei Mille, da Palermo a Napoli, in qualità di carabiniere genovese. I due si innamorarono e si sposarono. Dalla loro unione, la notte del 28 giugno1867 alle ore tre e un quarto, nella campagna del Caos, vicino al Molo di Girgenti,  sarebbe nato Luigi Pirandello, “…come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna di ulivi saraceni affacciata agli orli di un altopiano d’argille azzurre sul mare africano”. Indicando lo stivale ai suoi concittadini, Rocco ricordava con commozione il Generale ferito, appoggiato ad un pino, con in bocca un mezzo toscano, mentre veniva soccorso dai medici aggregati ai volontari, con il colonnello Pallavicini che, parlandogli all’orecchio e con la dovuta cortesia, gli intimava la resa ed alcuni, tra i bersaglieri, che erano stati con lui in altre imprese, mortificati e tristi. “ Adagiammo il Generale,” raccontava Rocco, “ su una barella e lo trasportammo a braccia verso Scilla. Era tarda sera quando trovammo, per lui, ospitalità nella capanna di un pastore, dove bevve brodo di capra e dormì, per quanto glielo permettevano le sue ferite, in un giaciglio fatto con i cappotti di noi ufficiali. Riprendemmo all’alba la marcia fino al mare.

 

Il Generale chiese ai “vincitori” di essere imbarcato su di una nave inglese, ma “essendo prigioniero”, la richiesta venne respinta. Così ci imbarcammo sulla “Duca di Genova”. Fu un viaggio penoso per il Generale a causa del dolore che gli procurava la ferita al piede. Il problema dei medici era quello di trovare la posizione esatta della pallottola, che si era pure portata con sé un pezzo di stivale e di calzino. Essi così gli praticarono purghe ed impiastri di semi di lino per evitare la cancrena. Ma intanto la febbre non abbandonava il Generale. Ottantasei giorni – durante i quali gli vennero somministrati oppio e chinino – sarebbe durato quel calvario, con atroci dolori al piede e lo spettro dell’imputazione. Con noi c’era anche suo figlio Menotti. Figuratevi che quel cialtrone di Cialdini non degnò neppure di uno sguardo il nostro Generale. Bella gratitudine da parte dell’Italia! All’arrivo in Liguria, Garibaldi venne alloggiato in un’ala della palazzina del comandante del carcere di Varignano. Per fortuna ci fu il matrimonio della figlia del re, Maria Pia, con il re del Portogallo, il 5 ottobre del 1862! Così il Generale e tutti noi garibaldini venimmo amnistiati! Ma solo dopo l’estrazione di quel maledetto proiettile dal piede, grazie ad un francese, il 23 novembre, il Generale poté tornarsene a Caprera….” Egli sarebbe tornato a combattere nella terza guerra di indipendenza, conducendo da par suo una brillante campagna militare nel Trentino, conclusasi con la vittoria di Bezzecca.

 

Da Girgenti, intanto, Rocco Ricci Gramitto inviò una lettera a Garibaldi, dedicandogli dei versi e chiedendo notizie sulla sua salute. Il generale, accettando con riconoscenza la dedica dei versi, gli rispose ricordando come egli “con la mente e col braccio” avesse dimostrato di “qual santo affetto” amasse la Patria , e lasciandogli in dono lo stivale raccolto in Aspromonte “per memoria del Vostro Giuseppe Garibaldi”. Anche a Stefano Pirandello, che gli aveva chiesto notizie sulla sua salute, scrisse il nostro eroe, assicurandolo come, già dopo l’estrazione della pallottola, il gonfiore e la ferita si fossero attenuati permettendo al piede di compiere “qualche timido passo”; ma che solo l’estate aveva portato la definitiva guarigione; anche se, in verità, lo preoccupava il fatto di dover trascorrere la rimanente sua esistenza appoggiato ad un bastone. “Pur tuttavia,” concluse il generale, “Dite ai vostri compaesani che abbiamo fede nei destini dell’Italia, dessi sono maturi e presto ci troveremo ancora sulla via di Roma e Venezia. Vostro G. Garibaldi”. Con il suo urlo “Roma o Morte “ nella notte del 18 agosto 1862, affacciato al balcone del Circolo Operai a Catania, il Generale aveva già infiammato,  in tal maniera, gli animi dei catanesi, che il suo corrispondente e “correligionario” Mario Rapisardi  l’avrebbe ricordato per sempre in un’epigrafe.

 

Ma la questione romana sarebbe stata risolta solo il 20 settembre 1870 – dopo il fallimento del ’67 e la disfatta dei garibaldini a Mentana – quando sconfitto Napoleone III dai prussiani a Sedan, il governo di Giovanni Lanza fu finalmente libero di inviare un corpo d’armata, guidato dal generale Cadorna, che entrava a Roma attraverso la breccia di Porta Pia. Così finiva la romantica stagione del risorgimento. Se Rocco Ricci Gramitto, portando con sé lo stivale di Garibaldi – che, dopo la sua morte, avrebbe legato, con atto di ultima volontà, al Municipio della nuova capitale – fece una luminosa carriera a Roma, raggiungendo il grado di Vice Prefetto; Stefano Pirandello, ormai anziano e sul lastrico (la moglie del figlio Luigi ci aveva perso pure la sua dote!) a causa di un allagamento ed una frana nella sua miniera di zolfo, avrebbe scritto alle sue nipotine: “…i Carabinieri Genovesi erano esclusivamente comandati dal Generale Garibaldi, ed il vostro vecchio nonno ebbe l’onore d’appartenere a questo Corpo scelto che pagò sempre con usura il suo tributo di sangue! Ora il governo dell’ineffabile Giolitti ci ha ricompensati con una pensione di 25 centesimi al giorno dopo trascorsi 49 anni! Però la nostra ricompensa, più che dai 25 centesimi l’abbiamo ricevuta dalla nostra coscienza…

 

 

 Bibliografia: Gaetano Allotta “Temi diversi di Storia letteraria e civile” – Edizioni “Centro Studi Giulio Pastore” Agrigento; Giovanni Di Falco “ La Campagna del Caos – Storia della casa natale di Luigi Pirandello – Editrice Petiteplaisance – Palermo; Wikipedia, l’enciclopedia libera, “La giornata dell’Aspromonte”; Lorenzo Amadori “Il ferimento di Garibaldi”; http://www.tuttostoria.net;

 

 

Categoria: Storia Agrigento

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