GIRGENTI
Risoluto di tornare in Sicilia il Viaggiatore, per continuare il suo giro, mentre egli è per condursi in Girgenti, la fama della magnificenza, e del numero di sue Antichità lunga gli farà forse sembrare quella breve navigazione, sinchè non giungerà a quel porto, che sta attaccato al gran Caricatore, che può chiamarsi l’Emporio de’ grani Siciliani, non più che quattro miglia distante dalla Città. Colla possibile premura lascerà il mare per ammirare i monumenti dell’antico Agrigento, che spirano ancora tra le loro rovine aria di maestosa magnificenza. Quivi presa esperta guida, farà egli condursi in quella parte dell’agro Agrigentino, ov’era l’antica fortezza, fabbricata per opera di Dedalo in luogo inespugnabile, e di sì difficile, e stretto, e tortuoso accesso, che pochissime persone potean difenderla da qualunque ostile violenza, come infatti quì Cocalo Re de’ Sicani stabilì la sua Regia, e quì teneva in sicuro il suo Tesoro.
TEMPJ DI GIRGENTI.
I numerosi augusti Tempj di Girgenti potranno somministrare grato pabulo agli amatori d’Antichità. Per gli quali volendo noi scortare il nostro Viaggiatore, daremo principio da quello di Giove Polieo, un avanzo del quale osserverà dietro la Chiesa di S. Maria de’ Greci, consistente in un tratto di muro lungo circa quattro canne, formato di grosse riquadrate pietre; e tre scalini di simile struttura formano lo Zoccolo dell’edifizio. Si dee alla diligenza del P. D. Giuseppe Pancrazi la cognizione di questa antichità; notandone lo scoprimento al fol. 71. dell’11. volume dell’Antichità di Girgenti: il quale osservò altresì in varie parti vicine molte grotte incavate nel sasso, ed acquedotti della stessa fattura.
Uscendo dalla porta del ponte, si trova il sito occupato già dall’antico Agrigento, e seguitando la strada de’ Cappuccini, si arriva alla estremità della scoscesa; ove a mano sinistra riguardando il Levante, troverà il Pellegrino non poche rovine del Tempio di Cerere. Quello, che oggi ne rimane, è una parte dell’antico, giacchè ben chiaro potrà conoscere, che l’edifizio era di maggiore estensione; e perchè è situato nella scoscesa, potrà vedere non poca parte delle mura, che sostenevano, e mantenevano in piano il terreno. Egli era di figura quadrata, e senza colonne. Forse questo Tempio, secondo la saggia riflessione del P. Pancrazj[1], fu il più antico, che fosse stato fabbricato in Girgenti, giacchè secondochè racconta Plinio[2], in questo era adunato il Popolo Agrigentino, celebrando le feste di Cerere, allorchè Falaride usurpò il dominio della Città; nel qual tempo stava fabbricando nella fortezza il Tempio di Giove Polieo. Sopra queste rovine oggi il Forastiere osserverà fabbricata una devota Cappella, dedicata a S. Biagio. Poco distante da questo Tempio, al quanto più basso della scoscesa, lungo la pubblica via potrà osservare qualche residuo della porta della Città ridotta in assai miserabile stato, e confusa tra molte rovine.
Seguitando la natura del declive terreno, si vanno ad incontrare gli avanzi del magnifico Tempio di Giunone Lucina rammemorato da Diodoro, e da Plinio. Erra il Fazello, credendo, che questo sia stato il Tempio bruciato da Gellia nella presa, che fecero i Cartaginesi di Girgenti; giacchè Diodoro chiaramente racconta, che il Tempio incendiato fu quello di Giove Atabiri, e di Minerva[3].
In questo Tempio si vuole, che fosse stata un tempo conservata quella famosa pittura di Zeusi rappresentante una bellissima Giovane; nella formazione della quale opera raccolse l’Autore il bello di diverse Donzelle, secondoche scrive Plinio[4]: Deprehendit tamen Zeuxis grandior in capitibus, articulisque, alioquin tantus diligentia, ut Agrigentinis facturus tabulam, quam in Templo Junonis Lucinae publice dicarent, inspexerit Virgines eorum nudas, & quinque elegerit; ut quod in quaque laudatissimum esset, picturae redderet.
In questo quadro rappresentavasi Giunone, come si è detto, di bellissima effigie, come narra il Fazello[5]: Quintum erat Templum Junoni Lucinae sacrum, cujus meminit Diodorus; in quo Tabula erat eximio Junonis simulacro insignis; quam facturus Zeuxis omnes Agrigentinorum Virgines nudas sibi exhiberi voluit; e quarum numero delectis quinque forma praestantissimis, ductisque in judicium singulis, singularum membris, quod in unaquaque laudatissimum erat in effingenda Junone expressit, reddiditque ut lib. 35. c. 9. Plin. memorat. Zeuxis namque, etsi (ut in Poetica tradit Aristoteles) pulcriora omnia in pingendo exprimeret; pulcherrimam tamen Junonem effingere voluit, ne qua mulier esset, quae tota Junoni se se conferre auderet. Id Templum Gellias postea, capto a Carthaginiensibus Agrigento, hostium impetum evasurus, cum eo confugisset, irrumpentibus in illud hostibus, ne in captivitatem veniret, combussit, ac se ipsum cum iis omnibus, qui secum ibi aderant, igni dedit, ut Diodorus memoriae tradidit.
Sede questo edifizio sopra un poggetto all’angolo della scoscesa sopraccennata, in figura quadrilunga, circondato da Portici, ornato di scannellate colonne d’ordine Dorico, e senza basi; delle quali se ne osserva oggi un lato quasi intero con porzione del cornicione, e varie altre dal lato opposto. Ed alla parte orientale di esso troverà il Viaggiatore diversi pezzi di mura di riquadrate grosse pietre, che trattenevano il terreno, formando intorno al medesimo spaziosa pianura, per la quale si ascendeva ai gradini, che circondavano l’edifizio. Seguendo da Levante a Ponente, poco lontano dal medesimo nel cammino potrà osservare il dotto Pellegrino molte sepolture incavate superficialmente nel sasso, e diverse camere sepolcrali della stessa fattura, molte delle quali s’internano sotto le antiche mura, che formate sono anche esse della pietra medesima, gran tratto delle quali oggi esiste.
Non più che trecento passi lontano da quello di Giunone sarà mostrato al Viaggiatore il famoso Tempio della Concordia, e se per lo addietro non ha osservato negli altri Edifizj, che lagrimevoli rovine, potrà restare molto contento nell’ammirar questo nella più desiderabile conservazione; non mancandogli, che porzione del cornicione, un pezzo del Frontone, ed il tetto; ed alcune colonne corrose dal tempo minacciano non lontana rovina; ma si spera, che accorrerà la Real volontà con pronta riparazione, per la conservazione di esso.
Esaminando questo Edifizio, sarà riconosciuto lungo nella sua base 185. palmi, largo 66. La sua cella è lunga palmi 110. incirca, e larga 36., incluse le grossezze delle mura. Ha due entrate principali nelle testate di Levante, e di Ponente, aperte, e ornate di due colonne per ciascheduna: sei entrate minori formate ad arco riguardarti la Tramontana, ed il Mezzogiorno aprono l’ingresso nella Cella, la quale è circondata da 34. colonne scannellate d’ordine Dorico, senza basi, che sostengono il cornicione, e formate di quattro soli pezzi a tamburo, che hanno palmi sei di diametro.
Entrando nella Cella dalla parte di Levante, che era il principale ingresso, si vede questa interrotta da due scale, delle quali occupa ciascuna la terza parte del vano, lasciando aperta quella di mezzo, per la comunicazione nel Tempio, e ciascheduna ha una porta, che corrisponde ancora nell’Atrio laterale. Posa tutto l’Edifizio sopra sei grandi scalini, che alzandolo da terra, lo rendono maestoso. Tutta la costruzione è di grandissime pietre quadrate, senza alcuna calce, e così perfettamente connesse, che, per così dire, appena si conoscono le giunture.
Epoca alcuna della fondazione di questo Edifizio non può assegnarsi, ma solamente può credersi per la sua conservazione, che sia stata posteriore all’età di Diodoro; giacchè questo Storico dice, parlando del Tempio di Giove Olimpico: Caeterae enim aedes sacrae, vel exusta sunt, vel funditus destructae per crebras urbis expugnationes. E sebbene comunemente si crede, che questo Tempio sia stato dedicato alla Dea Concordia, pure alcuno argomento certo non vi è, che lo dimostri. Solamente il P. Tommaso Fazello, ma senza addurre alcuna testimonianza, lo crede tale per una Iscrizione, che oggi osservasi murata nella piazza del presente Girgenti, la quale dice:
Concordiae Agrigentinorum Sacrum.
Respublica Lilibetanorum.
Dedicantibus M. Amerio Candido Proc.
Et L. Cornelio Marcello Q. Pr. P.
Questa Iscrizione non sembra bastante argomento per istabilire, che questo Tempio sia stato dedicato alla Concordia; perchè può riferirsi a qualunque altro monumento, che fosse stato eretto in memoria della vittoria degli Agrigentini sopra i Lilibetani. Non si sa il luogo della invenzione di essa, che possa far sospettare tal fatto. Non scorgesi in tutta la fabbrica di questo conservato Edifizio luogo alcuno, ove fosse stata collocata, che avrebbe dovuto essere il più nobile, e patente, ed esposto alla cognizione comune. Nè certamente in sì magnifico Edifizio avrebbero incisa Iscrizione di sì picciolo carattere; nè una Iscrizione Romana saria convenuta ad un fatto passato tra Greci. Argomenti tutti, che mostrano, che tale Iscrizione in tempi meno antichi ad altro monumento appartenesse.
Questo gran Tempio dee credersi fabbricato dopo la guerra Punica, giacchè se prima di questa fosse stato eretto, avrebbe corsa la sorte degli altri Tempj o distrutti affatto, o dati in preda alle fiamme, come notò Diodoro: Caetera enim (dice egli) Aedes Sacrae, vel exustae sunt, vel funditus destructae per crebras urbis expugnationes. Il Signor d’Orville crede per non lievi argomenti, che questo Tempio fosse stato più tosto a Cerere consecrato; il quale dietro le sue dotte riflessioni conchiude: Quid si conjiciamus Templum hoc Cereri fuisse sacrum?
Seguitando le medesime tracce, incontrerà per istrada il curioso Viaggiatore non pochi Sepolcri incavati nella superficie della pietra, e camere sepolcrali, tutte dello stesso stile degli antecedenti; e alla distanza di circa 300. passi gli si presenteranno le rovine del celebre Tempio d’Ercole. L’occupato terreno da sì gran quantità di lavorati sassi, qualche porzione della sua fabbrica, il numero de’ pezzi delle cadute colonne mostrano l’ampiezza, e la magnificenza di questo edifizio, di cui non resta in piedi, che una sola colonna. Vedendo queste scontrafatte rovine, si sveglierà nel Viaggiatore la speranza di osservare alcun vestigio del Foro, che gli stava vicino: ma resteranno deluse le sue premure, non trovando di esso nè pure un segno; ma ce ne lasciò la memoria Cicerone, che nel dar notizia di questo Tempio, lo situa vicino al Foro, dicendo: Herculis Templum est apud Agrigentinos, non longe a Foro[6].
Proverà tutto il piacere però nel ridurre a memoria il fatto accaduto in questo Tempio tra gli Agrigentini, ed i famigliari di Verre, sotto la scorta di Timarchide; i quali per di lui commissione proccurarono di notte tempo sforzare le porte, ed indi rapire la celebre Statua di bronzo colà adorata. Se non che la vigilanza de’ Custodi rese vano il di loro attentato; perchè sparsosi di tale ardimento il rumore per la Città, corsero in difesa del Tempio i Cittadini di ogni età, di ogni sesso, con quelle armi, che poterono avere già pronte, e misero in fuga i sagrileghi assalitori. Cicerone ci lasciò memoria di questo successo nel libro quarto delle Verrine, ove così lo descrive: Herculis templum est apud Agrigentinos non longe a Foro, sane sanctum apud illos, & Religiosum; ibi est ex aere Simulacrum ipsius Herculis, quo non facile quidquam dixerim vidisse pulcrius (tametsi non tam multum in istis rebus intelligo, quam multa vidi) usque eo judices, ut rictum ejus, ac mentum paulo sit attritius, quod in precibus, ac gratulationibus non solum id venerari, verum etiam osculari solent. Ad hoc templum, cum esset ipse Agrigenti, duce Timarchide, repente notte intempesta, servorum armatorum sit concursus, atque impetus. Clamor a vigilibus, Fanique custodibus tollitur. Qui primo cum obsistere, ac defendere conarentur, male mulcati clavis, ac fustibus repelluntur; postea convulsis repagulis, effractisque valvis, demoliri Signum, ac fustibus labefactare conantur. Interea ex clamore fama tota Urbe percrebuit, expugnari Deos patria, non hostium adventu, nec opinato, neque repentino praedonum impetu, sed ex domo, atque cohorte Praetoria, manum fugitivorum instructam, armatamque venisse.
In questo Tempio fu lungamente conservata l’inestimabile pittura di Alcmena, opera del famoso Zeusi, e dal medesimo creduta d’imprezzabile pregio. Onde questo Pittore stimò meglio far dono delle sue opere, non potendone riportare prezzo corrispondente; e perciò donò agli Agrigentini quella pittura, come Plinio racconta[7]: Postea donare opera sua instituit, quod ea nullo satis digno pretio permutari posse diceret, sicuti Alcmenam Agrigentinis, Pana Archelao. Questo quadro forse fu quello descritto dallo stesso Plinio, in cui era dipinto Ercole bambino; giacchè fu riposto nel di lui Tempio[8]. Magnificus est Juppiter ejus in throno, astantibus Diis, & Hercules infans dracones strangulans, Alcmena matre coram pavente, & Amphitryone.
Molto cammino non dovrà fare il Viaggiatore per ritrovare le rovine dell’opera più magnifica, che fosse stata nell’antico Agrigento, che fu il famoso Tempio di Giove Olimpico, come attesta Diodoro[9].
Ci fa sapere questo Autore, che tale magnifico Edificio non arrivò alla sua perfezione, a cagione della sopravvenuta guerra de’ Cartaginesi, che distrussero tutti i Tempj, che allora esistevano[10]. Aedes sacrae vel exustae sunt, vel funditus destructae per crebras Urbis expugnationes; Olympico, cum jam prope esset, ut tectum induceretur, bellum impedimento fuit. Onde non è meraviglia, se rimasto senza tetto, e non perfezionato patisse quella totale demolizione, che oggi con pena si vede. Resterà sorpreso il Viaggiatore, che di un’opera così grande ne rimangono solamente le vestigia sì scontraffatte, che altro non rappresentano, che un monte di lavorati sassi, i quali vestigio alcuno non lasciano conoscere della loro antica forma; e se non fosse per un Triglifo rimasto tra quelle rovine, non sarebbesi ne pur saputo, che fosse stato d’ordine Dorico. Non ostante tutto questo, se ne brama il Viaggiatore sicura notizia, la troverà in Diodoro, che dice[11] parlando di questo Tempio: Fanum illud pedum CCCXL. longitudine porrectum est, LX. vero latitudine patet, & ad CXX. altitudinem, fundamento tamen excepto, attollitur. Maximum hoc omnium est, qua per Insulam habentur, & magnitudine substructionum cum exteris quoque comparari meretur; nam etiamsi molitio ista ad finem perducta non fuit, pristina tamen deformatio adhuc in conspectu est. Quum enim alii ad parietes usque Templa educant, aut columnis aedes complectantur, utriusque structurae genus huic Fano commune est. Nam una cum parietibus columnae assurgunt, rotunda extrinsecus, sed quadrata intus forma. Ambitus harum ab esteriori parte XX. pedes habet, tanta strigum amplitudine, ut corpus humanum inserere se apte queat: intrinsecus vero XII. pedes continet. Magnitudo Porticuum, & sublimitas stupenda est; in quarum parte Orientali Gigantum conflictus, coelatura, magnitudine, & elegantia operis excellens. Ad occasum Trojae expugnatio efficta habetur, ubi Eroum unumquemque videre est, ad habitus sui formam elaboratae fabricatum. Una sì distinta relazione di questo Edifizio sembra non averla potuto dare, se non chi l’abbia ocularmente osservata, e un perito Architetto ne potrebbe formare un quasi compito dissegno. Conoscesi dalla medesima, che questo Tempio non provò la furia delle armi vincitrici de’ Cartaginesi; e giustamente è ciò da credersi, non per motivo di Religione, ma perchè in una fabbrica non terminata, e ancora scoperta non potea sperar la licenza militare di poter ivi saziare l’ingorda brama di un opulente bottino. Esposto perciò alla inclemenza delle stagioni, travagliato dalla lunghezza de’ secoli, non ajutato colle restaurazioni da’ spossati Cittadini, andò provando sì rispettabile monumento gli effetti della vecchiezza, e di parte in parte mancando, perdette il suo bello, ed il sodo, finchè debilitato a segno di non poter più resistere al proprio peso, e scosso da alcun terremoto, precipitando restò sepolto nelle proprie rovine, divenendo miserabile oggetto di compassione.
L’epoca di tale rovina la seppe trovare la diligenza del P. Tommaso Fazello, portandola all’anno 1401. essendo sino a quel tempo sopravanzata una parte del muro del portico Orientale, ove era scolpita la guerra de’ Giganti; e questo avanzo diede argomento allo stemma della moderna Città di Girgenti, che rappresenta tre Giganti, i quali sostengono sul dorso una Torre. Ecco le parole del Fazello forse antecedentemente dal Viaggiatore ponderate[12]: Id Templum licet processu aevi olim corruerit, pars tamen ejus, tribus Gigantibus, columnisque suffulta diu post superstitit: quam Agrigentina Urbs insignibus suis additam adhuc pro monumento habet. Inde Agrigentinis vulgatum carmen: Signat Agrigentum mirabilis Aula Gigantum. At tandem Agrigentorum incuria anno salutis 1401. Id. Decemb. 10. Ind. in extremas ruinas abiit, nihilque adhuc hodie eo cernitur loco, quam insanarum molium cumulus, Palatium Gigantum vulgo adhuc appellatus, ut hoc epigrammate imperitiam, barbariemque puram sonante a Poeta quodam ejus saeculi, & casum, & tempus memoriae (dum prosternebatur) proditum in Archivio Agrigentino inveni.
Ardua bellorum fuit gens Agrigentinorum.
Pro cujus factis magna virtute peractis.
In sola digna Siculorum tollere signa,
Gigantum trina cunctorum forma sublima
Paries alta ruit, Civibus incognita fuit.
Magna Gigantea cunctis videbatur ut Dea
Quadringenteno primo sub anno milleno
Nona Decembris defecit undique membris.
Talis ruina fuit inditione bisquina.
Farà delle meraviglie il Viaggiatore in osservare, che in questo monte di rovine non potrà trovare alcun pezzo delle maestose colonne, o del gran cornicione, fuorchè un maltrattato Triglifo, e uno scontornato capitello: e gli si sveglierà certamente nell’animo il desiderio, che quel luogo venisse sgombrato almeno in parte da quelle materie, sotto le quali debbonsi certamente trovare i pezzi, che formavano le colonne attaccate al muro, ed altri ornati. Imperocchè rimessane in piedi qualche porzione, si restituirebbe la memoria del più gran Tempio, che sia stato in Sicilia.
Dopo aver soddisfatta la sua curiosità il Viaggiatore, osservando le rovine del Tempio di Giove olimpico, retrocedendo alquanto verso il veduto Tempio di Ercole, e scendendo sulla sinistra verso il mare, troverà il creduto Sepolcro del celebre Terone, che dominò sedici anni la Città di Agrigento, molto ben veduto da quei cittadini, i quali dopo la di lui morte ne onorarono la memoria di nobile sepoltura.
Si crede, che questo monumento fosse Sepolcro di Terone sulla congettura della di lui esistenza, essendo stato il solo rispettato per atto di religione dall’armata Cartaginese, che nell’assedio di Agrigento demolì tutti i Sepolcri alzati attorno ad esso, perchè impedivano le militari operazioni, lasciando il sepolcro di Terone, che credettero protetto da Giove: imperocchè intrapreso avendone la demolizione, fu questo colpito da un fulmine; da che argomentarono, che Giove voleva, che quella memoria restasse illesa, e che gli Dei sdegnati per tale irreligiosità avessero mandata tra essi la peste, ed altri guai, che tolsero a moltissimi la vita; e tra gli altri ad Annibale loro Capitano. Tale fu il timore, che occupò l’animo dell’esercito, che alle sentinelle in tempo di notte sembrava di avere presenti le ombre snidate dai loro sepolcri: a vista di che Amilcare, che avea ripreso il comando dell’esercito, sospese la demolizione de’ medesimi. Diodoro somministra questa notizia con dire[13]: Annibal vero, diversis in locis oppugnationem intentare properans, sepulcra milites demoliri, & aggeres ad ipsos usque muros extollere jubet. Opus id subito a tanta hominum multitudine perfectum datur. Sed ingens tum religio exercitum invadit. Nam Theronis monumentum magnificae structurae, ac molis opus, fulminis ictu disjicitur. Quod repurgari coeptum nonnullorum, qui tunc praesto erant, vatum providentia inhibetur. Tunc illico pestis castra invadit, qua multi statim intereunt: non pauci atrocibus tormentis, & miseriis corripiuntur; inter quos Hannibal extinctus est. Quidam ad excubias praemissi simulacra defunctorum per noctem conspecta renuntiant. Hamilcar igitur Deum formidine vulgus perterritum videns, primum ab eruendis sepulcris abstinet.
La costruzione di questo edificio è di riquadrate pietre, e per esser perfettamente conservato in ogni lato, si conosce, che le adjacenti rovine non sono ad esso appartenenti. Egli forma uno Zoccolo quadrato, composto interamente di pietre ben lavorate con sua base, e cornice di ottimo lavoro. Si innalza sopra questo un second’ordine, adornato negli angoli di quattro colonne scannellate, attaccate al muro. In mezzo ad ogni facciata si osserva l’ornato di finta porta, e sopra queste gira il freggio ornato di Triglifi; mancando affatto il cornicione. Dentro questo secondo ordine si contiene una quadrata picciola stanza di palmi 10., entrandosi in essa per una rottura, non essendovi porta alcuna, che le dia ingresso, sebbene quattro se ne fingano nell’esteriore. Queste circostanze mi animano a far considerare al Viaggiatore, che questo edificio tutt’altro potè essere, che il sepolcro di Gerone; dovendosi questo considerare d’altra magnificenza, giacchè Diodoro lo chiama opera molto grande, e magnifica: Nam Hieronis monumentum magnificae structurae, ac molis opus. Nè questa mostra lesione alcuna del fulmine, che lo abbia con danno percosso; e la Cella quadrata male atta è certamente per sepoltura di un umano cadavere; e perciò entro nel dubbio, che questa fabbrica fosse stata eretta da alcuno splendido Agrigentino, per ivi chiudere il cadavere di alcun suo stimato generoso cavallo; assicurandomi Diodoro aver formato questo costume una parte del lusso de’ ricchi Agrigentini, i quali vollero, che la loro magnificenza risplendesse ancora ne’ sepolcri de’ loro cavalli vincitori negli spettacoli, e fino ancora degli uccelli allevati in casa dalle loro donzelle: Fastum, & delicias Civitatis (dice lo Storico) etiam sepulcrorum magnificentia declarat; quorum nonnulla equis in certamine quodam probatis extructa, quadam aviculis, quae domi a virgunculis, & pusionibus educantur, concinnata fuere[14]. Lo stesso conferma Plinio con dire: Agrigenti complurimum equorum tumuli pyramides habent[15]. La stessa considerazione fece l’Olandese dotto Viaggiatore Gio: Filippo d’Orville; il quale dopo descritta questa fabbrica, giudica essere stato un sepolcro non di un uomo, ma di un cavallo, appoggiato ancora alla volgare tradizione: Et vulgaris fama huic sententiae favet; volunt enim esse sepulcrum, sed non hominis, verum equi, quem Phalaris hoc honore adfecit[16].
Per la qual cosa resterà ben contento il Viaggiatore, per aver trovata un’antichità di tal sorte, che altrove non avrà forse incontrata, e potrà formare la giusta idea della magnificenza, e della ricchezza degli Agrigentini, che in questo genere superarono qualunque altra nazione.
Continui il suo cammino verso il mare, e tenendosi a man sinistra, scoprirà le rovine di un Tempio. Si è comunemente creduto, che fosse questo il Tempio di Esculapio: ma non si ha bastante argomento per assicurare, che sia così. È indubitato, che fu in Girgenti tale Tempio: il dimostra ben chiaro Polibio, il quale descrivendo l’assedio di questa città, secondochè riferisce il P. Pancrazio, dice: Vegendo i Consoli, che i Cartaginesi non uscivano più contro i Romani, combattendo solo con saette da lungi, diviso l’esercito in due parti, misero l’una al Tempio di Esculapio, e coll’altra alloggiarono dalla parte verso Eraclea. Ma essendo questa rovina appunto dalla parte occidentale della Città, che riguarda l’accennata Eraclea, non può essere ella appartenente al Tempio di Esculapio: se pure non si voglia credere un equivoco di Polibio, che lo situa alla parte opposta. Certo però è che fu in Girgenti il Tempio di Esculapio, celebre ancora per una famosa satua di Apolline; nel di cui fianco leggevasi scritto in picciole lettere di argento il nome di Mirone, come attesta Cicerone[17]: Agrigento nonne ejusdem P. Scipionis monumentum, Signum Apollinis pulcherrimum, cujus in femore litterulis minutis argenteis nomen Myronis erat inscriptum, ex Aesculapii religiosissimo fano sustulit? E da Cicerone stesso ricavasi, che questa Statua, trovata nella distruzione di Cartagine, fu da Scipione restituita agli Agrigentini.
Con pena il Viaggiatore ammirerà di questo monumento gli scontrafatti avanzi, non restando di esso, che una testata. Posa l’edificio sopra tre scalini, formando l’angolo un quadrato pilastro, ed un pezzo di muro consecutivo, ornato con due colonne; la metà delle quali si finge impegnata nella fabbrica tutta composta di riquadrati sassi. Una casa di campagna copre quello, che sopravvanza, ed in essa compariscono alcuni vestigj, ed una porzione di scala.
Seguitando il Viaggiatore il suo cammino verso Ponente, sulla sinistra della prossima valle, sopra la collina scoprirà le rovine del Tempio di Castore, e Polluce. Altro non troverà di questo edificio, che alcune porzioni di mura, qualche parte degli scalini, che lo cingevano, e due colonne scannellate, sebbene rotte, una sull’angolo degli medesimi, e l’altra su ’l lato meridionale. Le altre rovine più non esistono, e parte di esse sono state adoprate nelle fabbriche di novelle case, che vedrà costrutte nel medesimo sito.
Dopo avere osservato il Viaggiatore le rovine del Tempio di Castore, e Polluce, potrà indrizzarsi per la via, che conduce al Convento di S. Niccola. Camminando per quella scoscesa, avrà occasione di vedere diversi Acquedotti, alcuni incavati nel sasso, ed altri di fabbrica. Seguitando per la valle sulla sinistra, entrerà in un giardino de’ Signori Lo Jacono. Ivi troverà un gran pezzo di cornicione di marmo di bel lavoro, ed altri frammenti di ordine Corintio, forse appartenenti ad un Bagno, di cui si vedono a poca distanza non dispreggevoli rovine in un giardino, andando verso S. Niccola[18], ove nella casa del Custode si conservano alcune basi di colonne, ed altri frammenti.
Di là salendo verso il cennato Convento di S. Niccola, osserverà per istrada murati ne’ recinti delle clausure non pochi avanzi di antichità; cioè pezzi di colonne, ed altri ornamenti di Architettura. Arrivato finalmente al Convento, ed introdottosi il Viaggiatore nella selva di esso, vi troverà una picciola fabbrica quadrilunga, formata di grandi pietre riquadrate, e di perfetta manifattura. Dalla parte, che riguarda il Levante vedesi l’antica Porta di bella architettura, con sua cornice, situata tra due pilastri, che risaltano dal muro, con due basi, e capitelli; ma interamente manca a tutto l’Edificio il cornicione. Riconoscono questa picciola fabbrica sotto nome dell’Oratorio di Fallari; ma è ben da dubitare, che porzione ella sia di grande Edificio, così facendo comprendere la quantità delle pietre lavorate, e gli avanzi delle fondamenta, che vicine ad essa si osservano, e per tutta la estensione della selva, e del Convento; essendone stata gran parte impiegata nella fabbrica della Chiesa di S. Niccola.
Il Padre Pancrazi ragionando di questa fabbrica, crede, che sia stato un Tempietto particolare, e pertinenza di grande fabbrica[19]. Posteriormente fu questo Edificio impiegato in uso di Chiesa, nè saprei indovinare il motivo, per cui chiusero l’antica porta con una Tribuna, e ruppero il muro di Ponente per aprirne una nuova. Oggi questa fabbrica si troverà dal Viaggiatore abbandonata, ed esposta agl’insulti delle stagioni, e mezza ricoperta di vepri, e di spine.
Dopo osservato il descritto monumento, uscendo il Viaggiatore dal Convento soprannominato, ed esaminando la campagna dalla parte di Mezzogiorno, troverà due stanze a volta ricoperte di terra, fabbricate di pietre riquadrate di bella manifattura: e tutta questa contrada troverà sparsa d’incerte rovine di antiche fabbriche, forse per abitarvi.
Rimettendosi nella strada, che conduce a Girgenti, poco allontanatosi da S. Niccola, nel principio della salita troverà in certe stanze di antico Edificio alcuni Mosaici: e riguardando verso Ponente, osserverà diversi Acquedotti intagliati ancora nel vivo sasso. Arriverà per questa via alla porta detta del Ponte; tralasciando però di entrare in Città, si drizzi verso Mezzogiorno, e là troverà immensi campi ricoperti di Sepolture cavate nella viva rocca. A qualche distanza sotto il luogo chiamato della Meta, che scende dalla cima della Città di Agrigento, nella parte della Città detta Agrigentina in Camico, si crede essere stata una Porta. Di là tornando per la gran Valle, anderà osservando molte rimaste rovine: e restituendosi alla Città, entrerà per la parte della Chiesa di S. Stefano, e vedrà la celebre antica entrata di Camico.
Se Agrigento fu una delle più cospicue Città della Sicilia per le magnifiche sue fabbriche, oggi però appena potrà il Viaggiatore darle il luogo tra le mediocri. La sua Cattedrale però potrà ben meritare tutta l’attenzione di esso, non poche essendo le cose osservabili, che in essa contengonsi. Molti furono gli antichi materiali impiegati in questo Edificio, trasportati, e raccolti nelle rovine della Città, medesima; sì ancora per essere stata forse rifabbricata sopra gli avanzi dell’antico Tempio di Minerva, come giudiziosamente sospetta il dotto Signor d’Orville[20]: Magnificum ibi Templum in editissimo fere colle: unde merito suspicatur hoc aedis Minervae locum obtinere: nam Fanum isto in colle, qui inde λόφος Ἀθηναίος vocabatur, & Urbi imminebat, & ruderibus antiquis partim extructum est, quod Sancti Joannis, & Assumptionis hodie audit, non solum ex iis, quae ibi locorum forte olim fuerunt projecta, sed etiam reliquae Urbis saxis. Nam huc ex quodam Aedificio, quod longe a Colle hoc stetit, egregii artificii marmorea epistylia, & alia frusta translata olim fuerunt.
SARCOFAGI.
Troverà adunque in questo magnifico Tempio un marmoreo Sarcofago certamente il più bello, che abbiamo in Sicilia. Molti sono stati i disegni cavati su questo originale, su cui molti Autori hanno scritto, e ne hanno adornato le loro opere; ma non tutti si sono incontrati nella medesima opinione nell’assegnarne la spiegazione. Fu opinione popolare degli Agrigentini, che in questa Tomba fosse stato sepolto il cadavere di Fallari, non riflettendo, che questo Tiranno si era tirato tutto lo sdegno del Popolo, a segno di esser stato ucciso in una sollevazione: e fu tanto in odio la sua memoria, che dopo la di lui morte proibirono poter far uso nel vestire del colore azzurro, perchè solito usarsi da’ di lui famigliari: e perciò è totalmente inverisimile, che abbiano curato apprestargli una sì magnifica sepoltura.
Credettero altri, che rappresentasse la Caccia del Cinghiale Calidonio, eseguita da Meleagro; ma non si avviddero mancarvi la figura di Atalanta, soggetto principale di questo ideato fatto. Il P. D. Giuseppe Pancrazi, benemerito Scrittore delle antichità Agrigentine, fu di sentimento, che forse rappresentasse la Caccia, e la morte di Finzia Tiranno di Girgenti. Ma l’ultimo, che ha scritto su questo monumento, è l’Avvocato Signor Vincenzo Gaglio Girgentano, il quale in una Dissertazione, che va inserita nel Tom. XIV. di Opuscoli di Autori Siciliani a f. 227. colle sue savie riflessioni considerando le circostanze della scoltura, ravvisa in essa la tragica favola d’Ippolito, e di Fedra. Nella principale facciata si rappresenta Ippolito in punto di partire per la Caccia, con clamide sulle spalle, col parazonio sotto il sinistro braccio, e nella sinistra mano tiene un non so che, che il Signor Gaglio dice essere due tavolette con qualche vestigio di scrittura: e nella destra mano tiene una breve lancia. Sono attorno ad esso undeci altre figure, dieci delle quali rappresentano i Cacciatori, compagni d’Ippolito, ornati con clave, e scuri, e che tengono alcuni cavalli, e molti cani di caccia. Si presenta ad Ippolito la vecchia Enone, Balia di Fedra, che sembra presentargli una lettera, e che esso con i suoi compagni mostra di non curare. Nel capo, che guarda il Levante, viene espressa Fedra svenuta alla notizia della repulsa comunicatale da Enone, che la sostiene, e varie donzelle, che col suono delle loro lire proccurano rattemperarle il dolore. Nella terza facciata, che è quella di dietro, corrispondente alla prima, osservasi espressa, ma in più basso rilievo, la caccia del Cinghiale fatta da Ippolito, rappresentato a cavallo in atto di colpire con l’asta il Cinghiale suddetto, accompagnato da’ suoi seguaci pedoni, e con molti cani avventati alla bestia. Nella quarta facciata si vede espresso il tragico fine d’Ippolito precipitato dal carro per lo disordine degl’infuriati cavalli, spaventati dalla comparsa del mostro marino, mandato da Nettuno ad istigazione di Venere. Questo è uno de’ più belli pezzi di antichità, che potrà il Viaggiatore osservare in Sicilia; e che oggi serve ad uso di Battisterio in quella insigne Cattedrale.
Nell’entrare la porta maggiore di questo Tempio, sulla destra vedesi riposto un gran Sarcofago di marmo bianco col suo coperchio, lungo palmi 9. Egli è totalmente liscio, non avendo altro ornamento, che una bassissima cornice nell’orlo, e nel piede della cassa; e quattro orecchioni nobilitano i quattro angoli del coperchio.
Nella medesima Chiesa al lato dritto, nel capo della navata sta situato un altro antico Sarcofago di marmo. È scolpita in esso a basso rilievo una figura giovanile in un disco sostenuto da due Genj nudi, con picciola clamide sulle spalle, e che nell’opposta mano tengono due ceste; e sembra, che licenziassero altre due simili figure, che sono in atto di partire. Tra le gambe di queste due ultime figure sono scolpite due picciole figurine, affatto nude: e sotto il medaglione due donzelle in atto forse di lavorare, sedendo una ad un tavolino facendo qualche cosa, e l’altra ha in mano una rocca; e tra esse è una cesta con dentro de’ panni lini. Fa menzione di questo monumento il Signor d’Orville[21] dicendo: Est in eodem loco aliud bustum, sed quod deterioris longe Artificis manum, & inferiorem aetatem refert: nititur in duobus Elephantis marmoreis, si bene memini, operis antiqui; id quoque monumentum hic adjici curavimus. Ben si vede, che questo Autore nel dar notizia di questo monumento non n’ebbe presente il disegno, come mostra colle parole, si bene memini; giacchè questa Urna è posata sopra un solo Elefante, come il Viaggiatore potrà da se stesso vedere. Indi si proccuri chi lo introduca nell’Archivio Capitolare di questa Cattedrale, ove tra molti altri di minore stima ammirerà quel bel Vaso Grecosicolo di terra cotta, adorno di belle, e molte figure; del quale ne dimostra il disegno il P. D. Giuseppe Pancrazi in fine del primo Tomo delle Antichità di Girgenti, ove rapporta non solamente la figura, e la pittura del Vaso, ma altresì la dotta spiegazione fatta dal celebre Antiquario P. D. Paolo Pacciaudi; ravvisando nella principale figura la persona di Ulisse, e nella seconda quella dell’Indovino Tiresia, potendone leggere tutte le dotte riflessioni nella nota inferiore.
Dal considerare sì questo, che i moltissimi vasi di simil genere, i quali si trovano in Sicilia, contandone più di 200. nel mio solo Museo, resterà il Viaggiatore ben persuaso, che tali manifatture non sono opere solamente appartenenti agli antichi Toscani; anzi la perfezione del disegno ben dimostra l’antico Greco buon gusto; e la quantità, che in Sicilia se ne trova, fa vedere, che le sue fabbriche di simili arredi furono in somma riputazione, e che ne provvedeva ancora l’estere nazioni. Fece pure menzione di questa bella antichità il dotto Signor Barone Reitesel, allorchè nella sua gioventù girò la Sicilia; e pubblicando le notizie del suo viaggio[22], diede notizia di questo monumento.
Degna è della visita del nostro Viaggiatore la pubblica Biblioteca nel Palazzo Vescovile, che non solo merita di essere osservata per la quantità degli scelti libri, ma altresì per la numerosa raccolta di antiche Medaglie Greche, Romane, e Siciliane, in numero di circa 1600. Troverà quasi compita la serie degl’Imperatori con buona parte delle Imperatrici: moltissime Consolari con le più rare in bronzo: le Medaglie delle antiche Città Siciliane in argento, e buon numero di Puniche in oro. Ma ciò, che più adorna questo Gabinetto, sono due Patere di oro, le quali sono rimaste delle quattro, che erano prima. Sono esse della grandezza di un piattino di Caffè. In una di queste sono scolpiti in basso rilievo cinque Buoi, de’ quali se ne vede il cavo nella parte opposta: la seconda è liscia; ed in tutto simili erano le compagne sfortunatamente alienate. Esse furono acquistate da Mons. Lorenzo Gioeni zelante Vescovo di Girgenti, e donate alla sua Biblioteca. Furono esse trovate ne’ contorni di Girgenti in un sepolcro, forse appartenente ad alcun Sacerdote di Apis, o più tosto di Cerere.
A quattro miglia lontano da Girgenti è la Terra della Favara, ove, se vorrà condursi il Viaggiatore, troverà degno di osservazione un vecchio Castello molto considerabile a suoi tempi, fabbricato da Federico Chiaromonte circa l’anno 1270[23]: vedendosi ancora in esso lo stemma gentilizio di quell’illustre Casato. Se mal non mi ricordo, osservasi murato nella facciata esteriore di questa fortezza un antico Basso rilievo in marmo bianco, rappresentante una Biga, o quadriga, retta da un fanciullo.
Di là potrà portarsi a Naro Città distante 8. miglia dalla Favara, e 12. da Girgenti. Quivi gli spessi sparsi sepolcri, ed altri avanzi di rovinati Edifizj, mostrano, che alcuna antica abitazione qui fosse stata, della quale si è perduta la memoria, ed il nome. Ne’ tempi posteriori poi fu Feudo dominato dagli Chiaromontani, e da questi fortificata con un quadrato Castello, munito di quattro Torri negli angoli; in una delle quali sta oggi situato l’orologio, esistendo ancora in questo Edifizio lo stemma di questa chiara famiglia oggi estinta; della quale l’ultimo fu Andrea Chiaromonte, che perdette la vita, e gli Stati ne’ torbidi tempi del Re Martino: ed indi a poco fu dichiarato Naro dal Parlamento tenuto in Siracusa appartenente al Regio Demanio; lo che leggesi confermato ne’ Capitoli del Re Giovanni[24]. Niuna memoria trovasi nell’antica Storia di questa Città, nè monumento alcuno oggi resta, che possa testificarne l’antichità. Solo ne’ secoli a noi vicini Torquato Tasso fa dubitarci di qualche mutazione del di lei nome, giacchè in questo luogo situa la Città di Naja, nome poco differente da Naro, dicendo nella sua Gerusalemme conquistata[25]:
E con esse inalzar l’insegne al vento
Dalle ruine dell’antica Gela,
Dalle piagge di Naja, e di Agrigento
Grande schiera, e spiegar l’ardita vela.
Si dee di nuovo far ritorno a Girgenti, per seguitare regolatamente il cammino.
Nell’uscire da Girgenti bisognerà, che il Viaggiatore guardasse il Fiume Agragas, oggi chiamato fiume di Girgenti. Su questo gli antichi Agrigentini ebbero un Ponte, di cui seppe trovare le rovine il P. Pancrazi, delle quali ne dà notizia nella Descrizione delle Antichità di Girgenti[26]. Se il Viaggiatore vorrà anche in ciò soddisfare la sua virtuosa curiosità, potrà ricercarle sotto la Città Agrigentina in Camico, e riflettere, che questa dovette essere l’antica via, che da Agrigento portava ad Eraclea.
[1]Tom. 1. f. 67.
[2]Lib. 39. cap. 9.
[3]Pancr. tom. 2. f. 78.
[4]Lib. 35. cap. 9. f. 619.
[5]Dec. 1. lib. VI. f. 128.
[6]Cic. in Verr. lib. IV. f. 372. §. XLIII. Amstel. 1724.
[7]Lib. XXXV. Cap. 9. f. 619.
[8]Ibid.
[9]Bibl. Hist. lib. XIII. fol. 607. t.
[10]Loc. cit.
[11]Loc. cit.
[12]Dec. 1. lib. V. f. 127.
[13]Bibl. Hist. lib. 13. f. 610.
[14]Diod. Bib. Hist. lib. 13. f. 607.
[15]Pli. Hist. nat. lib. VIII. cap. LXV.
[16]Sicul. cap. V. f. 95.
[17]In Ver. lib. IV.
[18]Panc. T. 2. f. 95.
[19]Antich. di Girg. Cap. 11. f. 92.
[20]Sicul. Cap. V. f. 90.
[21]Sicul. Cap. V. f. 90.
[22]F. 55.
[23]Amic. lex. sic. val. Maz. f. 257.
[24]Amico lex. Sic. Val. di Maz. par. 1. f. 7.
[25]Cant. 1. St. 69.
[26]Tom. 2. f. 99.