
Prima parte della ricostruzione storica dei moti rivoluzionari del 1848 ad Agrigento e in alcuni dei paesi della provincia agrigentina.
di Gaetano D’Alessandro
Si era nell’inizio dell’anno 1848 e la rivoluzione, scoppiata in Palermo e dilagata in tutta l’isola, aveva aperto le porte per spezzare le catene a carcerati e galeotti, moltissimi dei quali furono la vera causa delle turbolenze e dei tristissimi fatti che si ebbero a deplorare in Sicilia e specialmente in non pochi comuni della provincia di Girgenti.
Aragona
Aragona, per lo spazio di un anno, fu in potere di una vera e propria masnada di briganti; e i molti delinquenti, fuggiti dalle carceri e dagli ergastoli, formarono una combriccola numerosa e formidabile che s’impose su tutti e rimase padrona assoluta di quella misera città. Questa triste genìa, con modi violenti e brutali, chiese, anzi impose alle autorità locali che la guardia municipale, allora comunemente detta dei giannizzeri, fosse composta da uomini da scegliersi dal loro numero.
Così fu fatto; e ventiquattro di quei facinorosi furono scelti a guardie con lo stipendio giornaliero di quattro tari (L. 1,70) per ciascuno.
Fattisi arbitri del comune, si diedero sulle prime ad offendere, con minacce ed insulti, le famiglie dei signori Rotolo e Morreale, che furono costrette a starsene guardinghe nelle proprie abitazioni, giovandosi di persone amiche armate, aprendo varchi nei muri delle case contigue, allo scopo di aiutarsi a vicenda e difendersi da quei ribaldi, capaci di ogni delitto, di ogni nefandezza.
Poi fu data la caccia al signor Antonino Chiarelli Andriella, perchè costui, stanco dei furti, delle uccisioni, degli incendi e di tutte le violenze che si commettevano ad Aragona, senza che se ne potesse addurre alcuna prova ed ottenerne quindi punizione; stanco perciò della impunità dei rei, che rendeva mal sicura la proprietà privata, era deciso a smuovere la timidezza della gente, incapace di dare indicazioni alla giustizia, e del popolo tulio che a poco a poco veniva assuefacendosi al furto, allo spergiuro, alla complicità nel delitto, a tal segno che Aragona era divenuta la comune più depravata della provincia. Antonino Chiarelli, rivestiva la carica di sottocapo urbano e con la cooperazione del signor Calfato e di altri buoni, aveva sorpreso quasi in flagranza parecchi delinquenti e ne aveva agevolato lo scoprimento, le prove e i giudizi davanti alla legge.
Questi servizi, resi dal Chiarelli all’ordine pubblico, senza speranza nè altro desiderio di premio, salvo quello di godersi la sicurezza nelle sue proprietà urbane e rurali, rappresentarono un grave delitto agli occhi di quella masnada, la quale, ingiuriandolo col nome di birro e di sorcio, ne chiedeva impunemente il sangue. Fortunatamente, ebbe agio di fuggire a Raf- fadali e poco dopo ad Alessandria della Rocca, salvandosi da certo e imminente pericolo. Nei primi trasporti di contentezza per le cariche ottenute, nulla fecero contro il signor Di Benedetto, cancelliere comunale, oriundo di Raffadali; ma quella canaglia, di nascosto c con pessimi modi, lo cacciava da Aragona e costringeva il genero ed il figliuolo farmacista a fuga precipitosa. Così l’anarchia disponeva di tutto e il Comitato non era che una vana ombra autorevole.
Intanto le somme comunali erano venute a mancare e le altre fonti erano esauste, e per pagare questi « eroi » della delinquenza, si dovette ricorrere a prestazioni forzose. Fra gli altri contribuì con onze quattro (L. 51) il signor Mariano Papìa, possidente agiato e cittadino innocuo.
Ma quando la seconda volta lo stesso signore, invitato a voce da alcuni di quei giannizzeri a pagare altre quattro onze non volle consentire, si venne agli alterchi ed alle ingiurie. Il figliuolo di Papìa, adirato per certe contumelie proferite contro sua madre, colpì gravemente una di quelle guardie di una palla di fucile.
Si scrisse subito a Girgenti al colonnello Bianchini, informandolo dei fatti avvenuti, sebbene alquanto svisati, con l’aggiunta che dalla casa Papìa s’impediva con armi, che fossero prestati i conforti religiosi alla guardia moribonda.
Si chiedeva quindi ì’ordine dell’arresto e ciò che sarebbe da fare se il Papìa ricusasse di cedere agli agenti della forza pubblica. Il Bianchini rispondeva doversi subito venire all’arresto del Papìa, e qualora questi rifiutasse di aprire le porte, si appiccasse il fuoco alla casa; ma riconosciutasi poi meglio la verità dei fatti, il Bianchini veniva a più mite consiglio. Ma prima che fosse giunto alcun ordine, quei furibondi avevano già atterrato le porte, svaligiata la casa, ucciso il povero vecchio Papìa e ferita la moglie e la serva.
Nella confusione di quella furia irrompente, veniva uccisa un’altra guardia, ma questa volta dagli stessi suoi compagni. Il Papìa feritore si era ritirato nell’alto della casa, minacciando di difendersi disperatamente, ma poi fu costretto a cedere alle persone più autorevoli, che, calmato l’impeto brutale della turba, lo ricevettero incolume e lo mandarono nelle carceri di Girgenti. Intanto le guardie sceglievano per loro ricovero il sontuoso palazzo principesco! Veniva da Girgenti il giudice Bartoli per compilare il processo ed il sig. Caratozzolo per frenare l’audacia di quei pravi e far restituire quanto erasi saccheggialo ai Papiri: ma la restituzione avveniva solo in parie. Vi fu per poco una larva di pace, ma poi tutto ritornò come prima; anzi quei ribaldi non solo disponevano della casa principesca, ma infestavano le vicine campagne, uccidevano qualche loro nemico, adulteravano, stupravano, violentavano le famiglie più oneste; nè era lecito alcun risentimento, nè alcuna doglianza.
E a cagione di tali risentimenti, il signor Michelangelo Ciacco fu vittima di sevizie immense. Molte donne, con forza, con paure, con violenza, furono costrette a vivere l’obbrobrio del palazzo baronale. E molti fatti turpi e vergognosi si potrebbero narrare, ma si tralasciano per quel riguardo che si deve a chi legge. Cosi la vivace cittadina di Aragona veniva, in quell’anno fatale oppressa dall’anarchia e turbata da fattacci orrendi e sanguinosi. Solo l’anno seguente (gennaio 1849), una compagnia della guardia nazionale di Girgenti, comandata dal cavalier Sala, riusciva finalmente a rimettervi l’ordine, con l’arresto di alcuni di essi e con la fucilazione di un tal Cannistraro, capo di quell’associazione di malfattori!
Canicattì
E fatti raccapriccianti di sangue succedevano anche nei pressi di Canicattì. Alquante persone di quella città, che il tre marzo erano andate a caccia a Trebastoni (fra Canicattì e Naro), furono assalite e miseramente uccise da una squadra armata di naresi. Questo fatto sanguinoso accese l’ira e l’indignazione di tutti i cittadini di Canicattì; i quali corsero in folla sul luogo del delitto, richiedendo i cadaveri che i naresi volevano trasportare con loro. Ne nacque un assalto violentissimo, nel quale non pochi dei naresi caddero morti, sul luogo stesso dove erano caduti i canicattesi.
Gravissime sarebbero state ’e conseguenze senza l’intervento di una compagnia della guardia civica di Girgenti, con a capo l’ottimo cavalier Calogero Caratozzolo, il quale con i buoni modi, che gli erano propri, e con la ragionevolezza dei suoi discorsi, riuscì a mettere l’ordine. Nello stesso tempo, una lettera nobilissima e piena di sentimenti di amor di patria del dottor Francesco De Luca, vicepresidente del Comitato agrigentino, diretta al Comitato di Canicattì, riconduceva del tutto la calma e la pace fra le due città.
Ma non tutte le città della provincia furono travolte dal turbine della delinquenza o dall’anarchia; non poche ve ne furono, in cui l’ordine regnò come nei tempi ordinari. E bello esempio di tranquillità e d’ordine diedero Girgenti, Palma, Licata, Cattolica, Casteltermini, Siculiana ed altre; e fra tutte è da segnalare l’alpestre e ridente Cammarata, la quale per l’animo buono e mite dei suoi abitanti, rimase, come sempre, tranquillissima, proclamando pacatamente la Costituzione ed eleggendo i suoi comitati. Anzi essendo scoppiato un tumulto nella vicina S. Giovanni Gemini, il dottor Vincenzo Coffari, a capo della milizia urbana, vi accorse prontamente e riuscì a sedarlo, evitando maggiori, possibili guai, fra le benedizioni dei buoni abitanti di San Giovanni.