Iil suo animo si plasmò secondo un ideale di libertà, in aperto contrasto con la schiavitù dei vassalli della sua terra
Sull’aspra rupe di Mussomeli sorge il castello di Manfredi III Chiaramonte, venuto in possesso della famiglia Lanza l’anno 1549. All’esterno la costruzione feudale si prospetta con i restauri dell’architetto Ernesto Armò. Sulle mura si aprono alcune bifore con elegante colonnina. All’interno, oltre alla “Sala dei baroni”, alla stanzetta triangolare delle “tre donne” e a quella “del canino”, i sotterranei attraggono in modo speciale la curiosità del visitatore. In poche parole, il castello offre le caratteristiche del mondo feudale, e richiama alla memoria il periodo più triste della storia siciliana, in cui il dispotico potere del barone carpiva al vassallo persino il segreto dell’intimità familiare.
Al castello rimane ancora legata la penosa odissea del poeta siciliano Francesco Frangiamore, il quale vi languì a lungo, finchè una fuga rocambolesca lo restituì alla libertà. Per circa tre secoli intorno al poeta si sono intrecciate le più strane leggende, spesso frutto della fantasia popolare. Ora, attraverso tali leggende e attraverso uno studio di V. A. Giacaloni, cerchiamo di ricostruire l’odissea del poeta che fa onore a Mussomeli e alla Sicilia.
Nato a Mussomeli verso l’anno 1607 da notaio Domenico Frangiamore, il piccolo Francesco compì i primi studi a Caltanissetta, circondato da quelle cure che solo l’agiatezza della famiglia gli poteva offrire. Lo Studio di Catania lo accolse studente appassionato delle “scienze legali” e cultore della poesia. Là il suo animo si plasmò secondo un ideale di libertà, in aperto contrasto con la schiavitù dei vassalli della sua terra, alla quale il principe Ottavio di Lanza faceva sentire il peso della sua potestà feudale; là provò il primo palpito d’amore per una fanciulla ricordata con dolcezza nei suoi canti.
Compiuti gli studi universitari, il neo-dottore in “scienze legali” ritornò a Mussomeli, ma vi si trovò a disagio. Notò l’abisso che divideva il principe dai vassalli: da un lato era il lusso, la vita sregolata e il dispostismo del signorotto, circondato dalla masnada dei bravi; dall’altro era l’abbrutimento e la miseria del vassallo. Convinto dei sacri diritti dell’uomo, il Frangiamore reagì al sispotismo del principe con le sue canzoni in dialetto, piene di pungente satira e di fine ironia.
I versi venivano letti con avidità, in segreto e in palese, poiché la fama del poeta era ormai nota nel paese e altrove. Anche il principe apprezzava il giovane poeta. Forse lo invitò nelle splendide sale del suo castello, perché cantasse le glorie del suo casato. Ma il Frangiamore rimasse saldo nelle sue idee, contrarie a qualsiasi forma di servilismo feudale: continuò imperterrito a flagellare il signorotto, con crescente mordacità.
Caduto in disgrazia presso il principe, il poeta vide il vuoto intorno a sé. I concittadini preseto a disertare il suo studio; persino i parenti lo rifuggivano per non incorrere nelle ire del principe. La vita agiata e comoda si mutò tosto in vita grama che sfiorava la miseria. Tuttavia altri versi caddero sotto gli occhi del principe: versi spinti e senza reticenza, lesivi del prestigio baronale. (Secondo altra versione, non del tutto inverosimile, il Frangiamore aveva osato appuntare gli occhi sulla figlia del signorotto).
Comunque sia, un triste giorno il poeta fu acciuffato come un comune delinquente dai bravi del principe e gettato nei misteriosi sotterranei del castello, dove l’aria e la luce arrivavano appena da una botola o da qualche feritoia. Grandi furono le pene del poeta. Per mesi, forse per anno, lo sventurato languì fra le umide pareti del castello vittima del suo ardire.
Più tardi per interessamento del padre o di qualche altro personaggio, gli fu concessa una stanzetta sul muraglione di cinta con un letto e delle lenzuola, di solito negate ai condannati. A tale concessione ne seguì un’altra, per cui un personaggio, chiamato Martelli, venne a visitarlo e a confortarlo nella sua stanza (erroneamente la tradizione confuse tale personaggio con il celebre poeta e medico bolognese Iacopo Martelli). Tali larghezze dimostrarono che le ire del principe erano sbolliti. Ma il poeta, sol di libertà bramoso, rivolse una canzone al Vicerè per ottenere la liberazione: “…Ti preiu liberarmi di sta fossa – pi qunt’amuri porti a la duchessa.”. Invano.
Allora il poeta tramò la fuga. Una notte nel segreto della sua prigione, trasforma le lenzuola in fune. Assicura uno dei capi alla colonnina ed un altro sostegno. Poi scavalca il davanzale della bifora. Ma fune non tocca la roccia sottostante, il poeta spiccò un salto. Un urlo represso. Il poeta giace sul rupe con la gamba spezzata. Ma la paura e più forte della morte del dolore.
Il poeta si trascina per un sentiero, trattenendosi ai tronchi dei fichi d’India e i ciuffi d’erba selvatica. Per i campi si trascina e raggiunge la propria casa. Rivede i propri cari dei quali è curato e guarito. Ma la fuga segue il tormento di essere riacciuffato del signorotto, umiliato da simile smacco. Le notti passano in sonni. Infine il Frangiamore si rifugia a Palermo, dove la vita gli sembrerà meno penosa. Non più la certezza della sua prima età, ma la miseria lo attende, confortata dalla libertà e da qualche benefattore, ammiratore del suo raro talento poetico.
Ora il suo animo si opponga nelle canzoni in vernacolo, dove tratteggia convivi colori le sue disavventure scagliandosi contro colui che gli avvelenato per sempre l’esistenza. E canta la sua miseria e lo spasimo per la lontananza dell’amata . La sua vena poetica vibra con armoniosa liricità, il verso scorre fluido e avvince l’animo. Ma altre disgrazie lo attendono a Palermo, che sarebbe lungo il narrare. Fra tutte ricordiamo quella capitata agli alla “bocceria”.
Trovandosi un giorno davanti alla bottega di un carnezziere, ecco un pezzo d’osso saltare dal bancone e andare a colpire la gamba ancor dolorante del nostro poeta. Molti curiosi fanno capannello attorno allo strano individuo, il quale improvvisa dei versi. Tutti applaudono. Poi la folla si dirada la conoscenza il poeta. Il Frangiamore continua la sua vita nella miseria nell’abbandono. Pochi amici lo confortano e lo aiutano: qualche concittadino, il Galeano, scrittore medico palermitano e il poeta Mossuto.
Poco prima del 1666 il poeta chiuse gli occhi alla vita, che gli era stata poco benigna. Dopo qualche anno il galeano pubblicava alcune canzoni del defunto poeta Francesco Frangiamore nelle “Muse Siciliane” più tardi il mossuto dava alle stampe altre 25 canzoni del grande poeta ma certamente molte canzoni dovettero andare distrutte dal poeta o smarrite dall’incuria dei contemporanei. Il Vigo e il Narbone gli attribuirono anche il poema in dialetto “L’antichissima Marsala fulminata”.
Passeggero, che ammiri il misterioso castello di Mussomeli, volge un pensiero al grande poeta siciliano, il quale nell’affermazione di alti ideali di libertà, sperimentò le ire di un principe e le amarezze di un crudele destino.
Mariano Di Giovanni