Su una costa caratterizzata da una duna sabbiosa, oggi solo parzialmente conservata, alla foce del fiume Akragas, nacque l’antico emporion della polis, divenuto poi il porto della città romana e bizantina (figg.1-2). Ricordato da Diodoro da Polibio e da Livio, è segnalato da Strabone, come entità a parte accanto ad Akragas, tra le “sopravvivente” sulla costa occidentale della Sicilia nel I secolo a.C. L’Emporion è uno dei luoghi chiave della vita del Vescovo Gregorio, narrata da Leonzio in un testo agiografico, ricco di dettagli anche topografici, oggi illuminanti grazie alle recenti scoperte archeologiche, seppure episodiche e limitate alle esigenze di tutela.
Le testimonianze rinvenute nel corso degli scavi, condotti a partire dagli anni Venti, si concentrano sul lato sinistro della foce (fig.3), mentre l’ipotesi che, un tempo, la linea di costa piegasse verso l’interno, consentendo l’ingresso del mare in una sorta di insenatura o porto interno (SCHMIEDT, GRIFFO 1958, 291-292), sembrerebbe confermata da sondaggi di tipo geologico, eseguiti recentemente, che rivelano anche fenomeni di esondazione ed insabbiamento che copre gli strati archeologici (fig.4).
Fa eccezione la necropoli di età arcaica, individuata sulla sponda destra, coeva al primo stanziamento dei coloni, di cui, talvolta, complici le mareggiate che sferzano le dune, affiorano le tombe in anfora sepolte nella sabbia (fig.5) (CAmiNNEci 2012, 117-119).
I corredi delle tombe a fossa rivestita da lastre di pietra, indagate sulla collinetta di Montelusa, alle spalle della foce, comprendono ceramica di produzione rodia e corinzia, mentre, sempre da quest’area, proviene un sarcofago in marmo decorato da un fregio di metope e triglifi (fig.7). Ancora riferibili alla fase di vita del porto di età greca i frammenti dai saggi effettuati recentemente sulla sponda sinistra (fig.6).
Degli antichi apprestamenti portuali, nel XVI secolo, Fazello vide sulla costa i resti, saxa quadrata, oggi non più visibili e probabilmente distrutti da quella fitta urbanizzazione che ha profondamente alterato l’assetto originario dell’area della foce. La prima campagna di scavi nell’area si deve al Gabrici, che portò alla luce alcune strutture murarie, interpretate come magazzini, un pozzo, sarcofagi litici e cocciame genericamente definito tardo (figg.8-10) (GABRici 1925). Tra gli anni Quaranta e Cinquanta gli scavi vengono ripresi nella stessa area da Griffo, che mette in luce un edificio articolato in ambienti quadrangolari, con conci isodomi, su cui si impostano muri realizzati con ciottoli e blocchi di reimpiego (figg.11-12). Unico elemento datante ricordato nella relazione di scavo, insieme alla generica menzione della sigillata chiara, una moneta di Costanzo II. Sulla cresta di uno di questi muri è una sepoltura in anfora Keay LXI, con una pietra posta a chiudere l’imboccatura (fig.13).
Accanto a queste strutture, quattro tombe, di cui tre polisome ancora inviolate, a cassa di lastre litiche, con blocchi di copertura probabilmente di reimpiego (fig.14), e fornite di corredo costituito da brocchette acrome, attestate frequentemente nei contesti funerari siciliani di età tardo antica e bizantina, e da due fibule del tipo Siracusa e Balgota, databili alla metà del VII secolo d.C. (GRIFFO, DE MIRO 1955).
Nel 1974 fu rinvenuta su Viale Viareggio una struttura absidata, durante uno scavo di cui ho reperito in archivio solo le fotografie, attraverso le quali sono riuscita ad identificare il sito, ma nessuna relazione sull’intervento (fig.15).
Nel 1997 sono state messe in luce due sepolture a fossa rivestite da lastre: la tomba 1 conteneva almeno sedici individui, mentre la tomba 2 era monosoma. Accanto alle tombe due lembi di muri, costruiti a sacco con ciottoli fluviali e terra, di cui riesce difficile chiarire la relazione stratigrafica con le sepolture e la destinazione (fig.16). La ceramica rinvenuta sopra le tombe indica una cronologia compresa tra il IV ed il V secolo d.C.: di produzione africana, anfore, sigillata D, ceramica comune e da cucina a patina cinerognola, di produzione locale, anfore e ceramica comune, pantellerian ware, vetro, insieme a oggetti in terracotta simili a ciottoli lisciati, forse strumenti, un amo e un peso da rete (CAMINNECI c.d.s. a). Il range cronologico documentato dalle ceramiche conferma la frequentazione nel tempo della necropoli, dato deducibile anche dalle diverse deposizioni della tomba 1, certamente, sebbene manchino notizie precise del rinvenimento, non contemporanee.
Nel 2009 è stato portato alla luce un piccolo lembo di necropoli ad enchytrismos, con cinque sepolture in anfore di produzione africana, rinvenute sotto uno spesso strato di accumulo sabbioso di origine alluvionale (fig.17). Le tombe, che, seguono, grosso modo, un orientamento est-ovest, ad eccezione della tomba III, posta nel senso inverso, sulla base dei contenitori utilizzati- tra le forme riconoscibili, la Keay LXII R, la Keay LXII var. e la Keay LXI- possono essere datate tra la fine del V ed il VII secolo d.C. (CAmiNNEci 2012 a, b).
Un secondo settore di necropoli ad enchytrismos, rinvenuto lo scorso aprile è ancora, ovviamente, in corso di studio (fig.18)*. Si presenta, quindi, solo la descrizione del contesto, insieme alla documentazione fotografica delle sepolture, in giacitura primaria, orientate in senso nord-nordovest, relative a quattro individui adulti, due maschi e due femmine, e un infante. Le tombe poggiavano su un allettamento di argilla, con qualche ciottolo di fiume, rinzeppato per regolarizzare il piano di posa. La Tomba 1/2, che accoglieva lo scheletro di un adulto di sesso maschile, era composta da almeno due anfore, segate nella parte inferiore e prive del puntale, assemblate ed incastrate e disposte in senso opposto. All’altezza del bacino del defunto, cocci di anfora erano disposti di taglio e di piatto, come a dividere la parte superiore da quella inferiore del corpo (figg.19-20). La Tomba 3 riutilizzava parti e cocci di più contenitori disposti a ricoprire lo scheletro di un individuo femminile, deposto supino con le gambe flesse, mentre ad un’estremità, ma esterna alla deposizione, era infissa l’imboccatura di un’anfora, come segnacolo (fig.21). Diverse anfore, segate, assemblate ed incastrate una dentro l’altra, contenevano lo scheletro, in perfetto stato di conservazione, della Tomba 4/8 (figg.22-24). Due grossi frammenti di anfora erano adagiati sotto il mento e sul cuore, mentre un fondo con relativo puntale era posizionato tra i femori sotto il coccige, evidentemente a proteggere i genitali, con la stessa funzione, probabilmente, dei cocci posti di taglio all’altezza del bacino nella sepoltura 1/2. Un individuo di sesso femminile era sepolto nella Tomba 9, scavata solo in parte, con la testa adagiata dal lato del puntale di un’anfora, che conteneva la parte superiore del corpo fino alla vita (fig.25-26), mentre lo scheletro di un lattante era stato deposto di fianco e con gli arti ripiegati, in un’anfora; sopra l’imboccatura era stato posizionato il fondo di un’altra anfora, forse come segnacolo (fig.27-29).
Come dimostrano gli esempi di Agrigento, questi sepolcri di terracotta rivelano, in questa preoccupazione di proteggere il defunto anche con particolari accorgimenti, come nel caso della Tomba 4/8, un unicum a nostra conoscenza, riservati agli organi vitali più importanti, un’accuratezza che non può non essere rituale: le spoglie mortali vengono ricoperte da una “coltre” di frammenti adagiati anche su più strati, segando le parti in eccesso, rappezzando con schegge le falle, chiudendo le imboccature, quasi a creare un guscio.
La pratica della inumazione in anfora si trova spesso attestata in contesti tardoromani e, significativamente, in prossimità di strutture portuali, dove era facile reperire i contenitori per l’ultimo, pietoso, reimpiego. Necropoli ad enchytrimos sono ben note in Italia, a partire dal III fino al VI secolo d.C: si tratta di contesti funerari compositi dove le sepolture in anfora si affiancano alle tombe a cassa, in coppi o a cappuccina. Notevole la documentazione offerta dalla Calabria (PAPPARELLA 2009), dalla Sardegna, da Puteoli, Classe e Roma, mentre, in zona subcostiera, si segnalano le tombe liguri e pisane. Sono state censite anche le sepolture presenti in Gallia, in Africa, in Spagna ed in Gran Bretagna (CAmiNNEci 2012a, ivi bibliografia). Anche i pochi esempi siciliani noti di questa tipologia tombale si trovano in aree costiere o, comunque, poco lontane dal mare, il che conferma l’impressione di una scelta dettata principalmente dall’opportunità offerta dalla disponibilità dei contenitori da reimpiegare. Dai flussi commerciali dipende, dunque, la reperibilità in loco delle anfore, che nel contesto agrigentino in esame possono essere ricondotte alle fabbriche sul golfo di Hammamet, i cui prodotti, partendo dal porto-caricatore di Nabeul, raggiungevano i mercati mediterranei. Dall’osservazione macroscopica degli impasti, le anfore del primo settore di necropoli sembrano prodotte dall’atelier di Sidi Zahruni, mentre l’anfora tipo Keay LXII var. è riconducibile alla produzione di Henchir ek Chekaf. Dubbia è invece l’attribuzione dell’anfora della Tomba II, che, come abbiamo detto, è simile ad una Keay VIII b, contenitore oleario prodotto negli ateliers di Iunca e di Majoura, nel Sud della Byzacena (BomFAY 2004, 132).
La lunga storia dell’Emporion agrigentino, dall’età arcaica all’età bizantina, emerge dalla stratigrafia archeologica, rinvenuta nel 2011 in seguito ad uno sbancamento effettuato in un lotto sulla riva sinistra del fiume, (figg.30-31). L’area non sbancata è ancora in corso di studio e l’indagine è, speriamo solo temporaneamente, sospesa. Lo scavo ha messo in luce un acciottolato e dei tratti di muri di VI-VII secolo d.C. che coprono un crollo di tegole riferibile ad una fase precedente di pieno V secolo d.C. Se è ancora presto avanzare ipotesi per l’interpretazione di queste strutture, dall’esame preliminare della notevole quantità di materiale rinvenuto, emerge, anche in questo contesto, la prevalenza della ceramica africana, prodotta negli ateliers individuati nell’area del Golfo di Hammamet, fatto che conferma lo stretto collegamento tra la Sicilia occidentale e l’Africa settentrionale, distanti solo due giorni di navigazione, lungo una rotta nota ancora ai tempi di Edrisi (figg.32, 34-35).
Ben documentata anche la pantellerian ware, a differenza di quanto avviene in altre aree della Sicilia, dove il trend delle importazioni pantesche subisce un arresto nella seconda metà del V secolo (CACCIAGUERRA 2010). La continuità delle relazioni commerciali con Pantelleria fu probabilmente determinata dalla posizione dell’isola, antistante la costa centromeridionale siciliana, tappa intermedia ed equidistante, appena un giorno di navigazione, lungo la rotta da Nabeul alla Sicilia.
La ceramica di produzione locale è attestata in discreta percentuale: si tratta di catini, di forma troncoconica con orlo ingrossato o inclinato, a volte scanalato, presenti anche nella necropoli sub divo di Agrigento (CARRA 2013) e di un tipo di anfora vinaria, piccola, a fondo piano e con le anse a maniglia, attestata in altri contesti coevi del territorio agrigentino (fig.33) (Rizzo, infra, 205 ss., fig.4; RIZZO ET ALTI 2014).
Le anfore di produzione orientale, LR 1, LR 2, LR 3, sono ben documentate nell’ultima fase di frequentazione dell’area, forse, giunte attraverso la mediazione dei porti africani, come proverebbe il carico misto, di anfore africane ed orientali, de La Palud, di provenienza neapolitana (CAmiNNEci 2010, 7). L’incremento delle importazioni orientali in Occidente potrebbe essere messo in relazione con la politica filobizantina di Hilderico (523-530), mentre proprio l’inversione di tendenza imposta dal successore Gelimero, con le sue inevitabili ripercussioni sui rapporti economici tra l’Africa e l’Impero, provocherà lo scoppio del Bellum Vandalicum. Un altro oggetto sicuramente orientale, proveniente dall’Egitto o dalla regione siro-palestinese, è l’amuleto in bronzo bivalve, di forma ellittica, recante una complessa raffigurazione a sbalzo ottenuta con pressione su matrice, entro un medaglione granulato. Su una faccia, la figura di santo cavaliere nimbato, con veste militare e lancia con la croce, sul cavallo che galoppa verso destra e calpesta una donna supina. Sul campo una stella e una conchiglia e, in basso, leone corrente. Sull’altra faccia, l’occhio del male, trafitto da due spade e un tridente, contro cui si scagliano un leone rampante, un ibis, uno scorpione, due serpenti, un leopardo. In alto l’invocazione KYPIE BOHOI (fig.36). Il cavaliere rappresenta la vittoria sul male e viene identificato con il re Salomone o con San Sisinnio che trafigge il demone chiamato Abyzou, Alavasdria o Gylou, responsabile della morte dei neonati, rappresentato come una donna, a volte anche con il corpo anguiforme (CAMINNECI 2014). L’amuleto appartiene ad una tipologia di oggetti con indubbia funzione apotropaica, rinvenuti in ambiti vari, domestici, religiosi, come i battisteri, o funerari.
Il contesto di rinvenimento potrebbe essere un edificio religioso – da qui proviene anche il piatto in terra sigillata D con figura maschile con la croce in mano e le lucerne africane con simboli cristiani (figg.37-41), ma i dati in nostro possesso non ci consentono di dire di più.
Vari indizi recuperati nell’area segnalano la presenza di attività produttive, come la pesca e forse la concia delle pelli, se questo era l’impiego dei numerosi oggetti di terracotta, rinvenuti negli strati superficiali. Anche i gusci di murici, rinvenuti in discreta quantità, potrebbero essere resti dell’estrazione della porpora (fig.42).
Le ricerche archeologiche possono essere lette alla luce di un testo agiografico, la vita del Vescovo Gregorio, probabilmente, ambientata nello stesso momento storico. Sebbene alcune contraddizioni inficino la coerenza cronologica del bios, sembra verisimile, infatti, riferire il contesto narrato al VII secolo, quando il Mediterraneo è ancora luogo privilegiato di scambi e contatti di uomini e di merci. Il bios scritto dal monaco Leonzio, abate del monastero romano di S.Saba, sembra nelPVIII secolo, come tutti i testi agiografici, è un palinsesto di eventi e personaggi storici non sempre cronologicamente coerente (MoTTA 2004, 268-296; CARRA 2013). Più volte, durante la narrazione, la Vita nomina l’Emporion di Agrigento, utilizzando sempre la stessa perifrasi, quasi una definizione da tecnica formulare, fornendo una vivace descrizione del quartiere sorto attorno al porto, distinto, ma strettamente collegato alla città, alla quale fanno in qualche modo riferimento anche Ketiptoct, villaggi, siti nel territorio circostante, probabilmente esito della frammentazione dell’antico centro urbano.
Dal bios emerge, comunque, la vitalità della struttura cittadina agrigentina, socialmente articolata e animata dal dibattito religioso (CALTRI 2005, 944). Apprendiamo da Leonzio che presso l’Emporion sorgeva un monastero dedicato alla Theotokos, segno inequivocabile del dominio bizantino, che, attraverso gli edifici con dedica alla Madre di Dio, restaurava l’ortodossia, contro la religione ariana dei goti sconfitti. E’ un monastero maschile, guidato da un hegoumenos, quindi di rito greco, e, verosimilmente, considerata l’ubicazione presso il porto, svolgeva anche i compiti di accoglienza e di assistenza assicurati da una diaconia. Qui, infatti, trovano riparo Gregorio e i suoi compagni. E’ il popolo presente all’Emporion che accompagna il Vescovo in città con una solenne e festosa Litì, anche questa tipica della liturgia bizantina.
Il bios, che si presenta come un racconto odeporico, narra con grande precisione i viaggi compiuti dal Santo (CALIRI 2006, 1168), che attraversa in lungo e in largo il Mediterraneo. Il giovane Gregorio, recatosi alla foce dell’Akragas, avrebbe trovato una nave, diretta a Cartagine, in sosta nel porto agrigentino per rifornirsi di acqua potabile. La nave, su cui si imbarcherà Gregorio, giungerà a destinazione dopo tre giorni, seguendo quella rotta, attraverso cui giungevano le merci africane, documentate dai contesti testé esaminati.
I monaci compagni del santo, partiti da Gerusalemme, dopo una tappa a Tripoli, sbarcheranno a Passararias, presso Plinthias, probabilmente l’odierna Licata, per poi proseguire, dopo qualche giorno, verso Agrigento, dove approderanno all’Emporion, come all’Emporion giungerà il Vescovo su una nave partita da Palermo.
Il porto di Agrigento è, quindi, coinvolto certamente nelle rotte che partono da Roma o dall’Africa, ma è anche la tappa di un cabotaggio che tocca le coste della Sicilia e che assicura i collegamenti anche a breve distanza, forse in modo più agevole rispetto alla viabilità terrestre.
Partendo dall’osservazione del fenomeno insediativo sulla costa occidentale della Sicilia in età tardo romana, l’archeologia registra la presenza di numerosi insediamenti posti alla foce dei fiumi, con presumibile funzione emporica, terminale dei prodotti provenienti dall’interno e tramite della circolazione delle merci di importazione nei centri dell’entroterra. Questi scali minori erano, presumibilmente, collegati da una navigazione di cabotaggio e parte di un sistema di distribuzione delle merci che faceva capo ai caricatori più importanti, Agrigentum e Lilybaeum, che gestivano i traffici transmarini (CAMINNECI c.d.s. b).
Quanto alle considerazioni sulla topografia dell’Emporion, in particolare, relativamente al fenomeno comune nei contesti tardoantichi dell’occupazione dello spazio dei vivi da parte delle necropoli, si può, in modo generale, osservare la contiguità delle sepolture con i lacerti di vani messi i luce nel corso di saggi recenti, sebbene l’impossibilità di procedere con uno scavo in estensione e, quindi, la discontinuità dell’indagine rendano difficile appurare con certezza le relazioni stratigrafiche tra i diversi rinvenimenti. Nell’area scavata dal Griffo siamo, però, in grado di riconoscere l’ingresso delle tombe nelle aree destinate ad attività commerciali, in quanto l’anfora Keay LXI, databile nel VII secolo d.C., riutilizzata come sepoltura, viene deposta sulla cresta rasata di un muro costruito di ciottoli e terra, di un vano dell’edificio da stoccaggio, probabilmente risalente al IV secolo d.C., e, in seguito, evidentemente, distrutto. Ad Agrigento il fenomeno delle sepolture intramuranee si manifesta già alla fine del III secolo d.C., quando la necropoli sub divo si impianta nell’area urbana, mentre, tra IV e V secolo d.C., vasti e articolati ipogei occupano la collina dei Templi entro le mura greche, ormai defunzionalizzate e scavate da tombe ad arcosolio. I templi greci vengono circondati dalle sepolture, formae scavate nel banco di roccia e fosse antropomorfe ricoperte da spezzoni di arenaria legati da malta.
Il fenomeno testimonia, evidentemente, un restringimento della città, ma allo stato attuale, però, dal momento che non si conosce con precisione il limite meridionale dell’abitato antico, non siamo in grado di affermare con certezza se l’ampia fascia occupata dalla necropoli dall’età tardo antica fosse in qualche modo contigua alle aree abitate. Il caso di Agrigento, comunque, sembra avvalorare l’ipotesi, avanzata già per Roma e per Herdonia, che l’inurbamento delle
sepolture, altrove casuale e disordinato, possa essere stato talora regolamentato da “centri decisionali” di tipo politico o religioso, ai quali spettava la facoltà di assegnare aree, un tempo urbane, alle necropoli (VOLPE 2007, 93-94; BONACASA CARRA 2013, 230-235).
D’altro canto, il complesso episcopale con la basilica della città non doveva essere lontano dalle necropoli e, verosimilmente, anche dalla tomba venerata del Protovescovo, probabile centro di attrazione per le altre sepolture, che le fonti agiografiche dicono in foro agrigentinorum. Infine, stante al racconto del bios, anche la scelta del Vescovo Gregorio del luogo per la nuova cattedrale appare strettamente connessa alla costa.
La chiara ingerenza dell’autorità episcopale nella pianificazione urbana è rimarcata da gesti simbolici e magico-sacrali: il Vescovo volta le spalle e, distogliendo lo sguardo dalla vecchia basilica, indica nell’antico tempio pagano, -verosimilmente il tempio della Concordia- liberato dai demoni, la nuova Chiesa degli agrigentini. L’ekklesia di Gregorio, posta in un’area ormai probabilmente eccentrica rispetto alla città, testimonia la volontà di creare un punto di attrazione rispetto al circondario e rispetto all’Emporion e a quei contatti con il Mediterraneo da questo garantiti.
di Valentina Caminneci
Bibliografia
*E’ in corso lo studio antropologico dei resti scheletrici delle necropoli a cura di Valentina Giuliana. Il progetto Skeletoi prevede l’analisi comparativa tra i contesti funerari dell’Emporion e quelli coevi del territorio di Menfi al fine di indagare le caratteristiche fisiche ed etniche degli individui.
Le fotografie del secondo settore di enchytrismoi sono di Vincenzo Cucchiara, Fabio Santamaria, Manlio Nocito, Angelo Pitrone.
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