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via atenea

Agrigento:Dopo il cinema sciamavamo per via Atenea

25 Novembre 2014 //  by Elio Di Bella

via atenea4

di Nonio Baeri

Negli anni dell’adolescenza, in un paese povero uscito con vistose ferite dalla guerra, pochi svaghi potevano assumere l’importanza del cinema. Soprattutto di quello holliwoodiano, con paesaggi sconfinati e cavalcate di indiani, la Monument Valley non ancora tanto inflazionata e tanta musica nuova da cui lasciarsi plagiare fin nei movimenti più usuali, anche se spesso trovavamo cretine le trame delle commedie musicali in cui era contenuta.

“Serenata a valle chiara” fu per noi, alunni riottosi della I^ ginnasiale, ben più formativa delle morbide trecce di Ermengarda. In particolare nella buona stagione, tutto ciò significava introdursi nell’affascinante scenario del “Cinema Estivo” che già, indipendemente dalla pellicola che si sarebbe proiettata, rappresentava per noi una spettacolare palestra di vita, affacciata com’era su un mare incomparabile, e commovente al crepuscolo, e sulla valle dei templi ancora immune da viadotti ed incongrue elitre di plastica.

 

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Era, il cinema, occasione di incontro tra quanti sognavano incredibili avventure da vivere in una dimensione onirica che ci accomunava agli eroi dello schermo (anticipando con quelli colloqui da Rosa purpurea del Cairo), portando anzi loro con noi in un gioco che ad essi poteva offire di continuare l’avventura in uno scenario che offrisse un prestigio di indiscussa classicità e che per noi era, nel gioco, inevitabile fondale (d’a’ Bibbirria fin’o’ Rabateddu) di trame western, spionistiche, guerresche, ma sempre inguaribilmente romantiche.

 

 

 

E tali eravamo anche noi, che sciamavamo avanti e indietro per via Atenea dopo la proiezione (se non si era deciso prima, tutti insieme che era il caso di rivedere il film un’altra volta) e, prima di tornare a casa, commentavamo la storia, gli strazianti addii, le scene d’amore e svelavamo a confidenti fidati quale sarebbe stata la nostra immedesimata partecipazione alle prese con Jennifer Johnes o Vivien Leagh. Era importante conservarsi l’amicizia di Domenico, detto Mimì, mio compagno di banco, che disponeva addirittura di una seconda casa, nell’epoca in cui molti vivevano in tanti in un umido pianterreno senza finestre, dentro stabili che ci presentavano le vistose offese della guerra come pericolanti – e pericolosi – nascondigli ricchi di mistero in cui riunirsi a meditare piani di battaglia; Mimì aveva questa casa in via Neve, dove talvolta ci riunivamo per studiare o per scambiarci le figurine, se qualcuno non portava un mazzo di carte, o se invece, stanchi, non preferivamo ascoltare l’inesauribile facondia di Franco che era capace di raccontare a memoria tutto il Corsaro nero, e che non avrebbe certo inquinato le sue apprezzatissime “ricordanze” mescolandole al tormento pedagogico delle pioggerelline di marzo.

 

 

 

Ognuno di noi aveva infatti la sua specializzazione, chi nel gioco della dama, chi nelle finte fulminee al gioco del pallone, e Mimì era uno di questi, che sapeva tutto sugli scambi della stazione ferroviaria (proprio di quella tanto in voga in questi giorni per merito della pubblicità televisiva di un’auto che l’ha riscoperta) e che, figlio del Capostazione, faceva pensare la sua ereditaria competenza per vincere le scommesse sulla ubicazione dei passaggi a livello, o sulla lunghezza delle gallerie o delle rotaie; oggi ha tralignato, il caro amico Eugenio, e preferisce insegnare all’università di Pisa, ed in tutt’altra disciplina! C’era chi era bravo al biliardo e chi sapeva tutto delle donne (in realtà, mocciosette nostre coetanee ancora tutt’altro che dotate) con le quali “ci sapeva fare” cioè ci parlava con disinvoltura, e soprattutto senza arrossire, suscitando talora risate argentine o complici strizzatine d’occhio che mi convinsero subito della mia naturale inferiorità.

Io sapevo fare le versioni di latino ed ero corteggiato solo nell’occasione dei compiti in classe. Magra soddisfazione.

Più piccolo di tutti, per statura, se non per età, non crebbi decentemente fino all’età del secondo liceo classico, come è testimoniato dalle foto di gruppo di allora in cui Gigi Gueli, altro compagno inseparabile, ma alto un metro e ottanta, mi piazzava al centro e, con decisione strategica, sul gradino superiore, in modo che, grazie alla parziale copertura offerta dai più grandi non si vedessero nè la differenza di statura nè i miei pantaloni, ancora vergognosamente corti.

Eppure, non mi si disconosceva, e fin dalla prima adolescenza, la prerogativa tutta maschile – che era quasi un dovere – della seduzione irresistibile.

Così, nel caso della signora Greer Garson, come ricorderete la rossa signora Miniver, tanto dolce e sorridente e poco inglese e romantica signora dei miei sogni infantili si fosse trovata a passare per Porta di Ponte e mi avesse fatto un esplicito invito, era convenuto che gli altri avrebbero fatto il possibile per facilitarne il disegno, e Mimì certamente mi avrebbe prestato la sua seconda casa, unica possibile sede per un convegno d’amore. A condizione, ovviamente, che poi raccontassi i particolari, tutto sommato innocenti, di una avventura indimenticabile.

 

Così crescevamo. Le fila dell’immaginario amoroso attorno a qualcuno che apparisse solo di poco meno velleitario del sottoscritto costruivano leggende metropolitane di…. sciupa-femmene corredate di nome e cognome delle involontarie partners. La predisposizione a prede esotiche si esaltava a mano che le migrazioni turistiche riprendevano, dopo l’interruzione dovuta alla guerra. Purtroppo, le lingue si studiavano poco e male. Il fascino delle dolci fanciulle locali che mandavano a memoria versi di Paule Verlaine non aveva alcuna possibilità di affermazione se l’accento rimaneva…….giancascese. Del resto, provatevi voi a spiegare a un bambino di anni 11 nato nella Valle dei templi e nell’epoca in cui le difficoltà di comunicazione lasciavano prevedere, al massimo, itinerari di vacanze a Bisacquino, provatevi voi a spiegargli l’esatta pronunzia della “u” lombarda.

Non a caso, la mia attendibilità in occasione delle versioni di latino scompariva quasi del tutto se la versione era in francese.

….Dans ce cas…. “professù stu cas è maschili o fimminili?”

“Ricordati, bestia, stu ca è sempri maschili”

 

 

 

Nessuno di noi, conscio di tanta naturale inferiorità semantica, avrebbe potuto ragionevolmente accampare chances di avventure con consanguinee d’oltralpe. Ma studiavamo pervicacemente Corneille, ed il suo maledetto Cid Campeador, sul quale il nostro dottissimo docente scriveva documentate dispense, con il risultato di farcelo odiare per sempre.

Giovanni non perdeva tempo con le tragedie del teatro francesce. Studiava tedesco per comprendere Wagner ed entrare, da solo tra tanti, nei meandri della mitologia nordica e poi della filosofia germanica. Ma lui era un genio: studiò scacchi archeologia e chimica. Ero certo che sarebbe arrivato lontano.

Ma la scienza per lui era un giocattolo: gli bastava, come con la musica, di conoscerne tanto da smontarlo poi in minutissimi pezzi per giudicarne la struttura.

Non avrebbe mai insidiato i miei amori per Greer Garson.

 

 

Ma se ne ricordava, uscendo dalla proverbiale distrazione al momento opportuno. Quando conseguimmo la maturità (io ero già emigrato al Liceo Garibaldi di Palermo) qualcuno mi fece pervenire un telegramma che lasciò perplessa mia madre e che, più o meno, aveva il seguente tenore:

maturo, ti vidi sparire, è così

mi lasciasti nella pena

di accettare che finì.

Per sempre tua Greer Garson.

 

 

Individuare il maligno autore non fu difficile, una volta scoperto che si trattava dei versi tradotti liberamente di un tango del 1940 di Julian Centeya. E sapevo che ormai Giovanni era passato allo studio dello spagnolo.

Peraltro, non l’ho più incontrato. Un mondo tramontava, definitivamente. Le nostre fiamme locali partivano, andavano su lontani campi da sci, mandavano cartoline da Chamonix, se i risvolti delle cucine mediterranee materne cominciavano a disegnare qualche rotondità in eccesso, facevano stretching sui Pirenei.

C’era stata una storia intorno alla “rossa” del gruppo, una sorta di Greer Garson nostrana più giovane ed appena più lentigginosa dell’altra, ed era finita sui giornali, non senza il meschino compiacimento dei maligni rimasti a casa. “Cu nesci arrinesci”? Mah, i miei dubbi avevano raggiunto gli stessi elevati livelli della nostalgia, e immaginavo il mare, di sera, contando gli scarsi lumi delle chiatte sul Danubio, ripetendo i versi di Grignon: “Kennst Du das Land, wo die Zitronen bluhen?”.

Ma i limoni non fiorivano nella valle, come invece pare facciano ancora, se pur stentatamente, i mandorli.

Categoria: Agrigento RaccontaTag: via atenea

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