– Guardi, guardi Eccellenza, la luna pettina la sua chioma tra le colonne. Guardi, guardi Eccellenza, sette templi, rovine di sette templi…: il tempio della Concordia…
Me li nomina quasi tutti, un po’ confusamente, agitata da invisibili ali:
le cento finestre di Girgenti luccicano come zaffiri sulla collina, le colonne dei templi si staccano contro lo sfondo di una lastra risplendente: il mare: altre luci, per altri riflessi per la deserta campagna, e le schegge diamantine delle stelle, al di là del polverìo brillante tracciato dalla via lattea sulla curva del cielo.
Ma tutto è soave e profumato in un dissolvimento di colori e delle ombre , delle pietre e degli alberi dalle foglie rade, fra le collina e il mare: anche i ricordi tragici delle conquiste e delle riconquiste cartaginesi, gli spettri delle rovine, la vastità dell’orizzonte non riescono a far spaventosa la notte: la notte non è terribile, è incantata. L’uomo che mi accompagna fino al limitare della città antica, alla soglia della Porta Aurea, non sa trovare paragoni misteriosi e oscure frasi. Le figure che si immaginano prendono vita e colore dalla notte.
– Guardi, guardi la luna : si pettina tra le colonne. E non sa dirmi altro e mi chiama ancora: “Eccellenza” mentre si toglie il cappello e si avvia, con la carabina a tracolla, verso Porto Empedocle. Il tempio della Concordia è a pochi passi: sopra i cespugli di lentischio, si rizza colossale e tozzo, in un argento brunito incrostato di ossidazioni e di madreperla come se fosse appena ripescato dal mare e l’acqua ne grondasse.
Non è acqua, è luce quella che cola dal frontone sull’echino e, giù per le scanalature, fino alla base delle colonne. Immobile: ma così vivo, così organico e compatto, così creato per sfidare tutte le forze che sembra pronto per muoversi per staccarsi con tutto lo stilobate dalle radici e avanzare fendendo la notte. Architettura e macchina, pietra e vita, tempio e nave.
Non solca la notte; ma il tempo; è arrivato fino a me, fin davanti a’ miei occhi con la sua tozza forma di gigantesco toro puntato sulle zampe, partendosi dal giorno in cui gli Agrigentini elevarono i tamburi delle trentaquattro colonne l’uno su l’altro v’imposero i massi squadrati della trabeazione, e il tetto dove ora si appoggiano le volte del cielo.
I secoli l’hanno schiaffeggiato con le ondate degli anni, i cicloni delle rivoluzioni; l’hanno fulminato e scrollato senza inabissarlo, senza sommergerlo. Vittorioso alza la sua fronte dalla profondata ruga triangolare: la composizione delle sue forze contrastanti non è meno viva e agitata di un motore: si direbbe capace di nitrire o di ruggire o di salutare il tramonto con uno spaventoso clamore come quello del colosso di Memmone. L’ombra e la luce si perdono nel mistero fitto delle colonne in cui forse qualche divinità abita ancora, ritornata dall’esilio; nell’intercolumnio si diffonde una melodia più sottile e più aerea del chiaro di luna, una voce che sta tra l’usignolo e il grillo: su quattro gradinate e, davanti, sulla spianata si rovescia una morbida onda di tappeto lanoso che si espande sino al prato degli asfodeli.
Un brulichio sommesso, un brusio interrotto dai belati e dal ciondolìo dei campani, accompagnano il sonno del gregge; le capre bianchissime scuotono appena le lunghe corna ritorte verso il cane che abbaia, o le affilano pazientemente su gli spigoli delle colonne.
Il pastore giace supino, col capo appoggiato alla giacca ripiegata, tutto avvolto nel mantello da le cui falde emergono le braccia, il flauto e la melodia. Seguo quel suono che s’appoggia su quattro note, nitide, vere come le parole eterne.
E’ una voce che ha l’antichità di questo tempio, sgorgata dalla terra che offerse il calcare per le colonne, le travi di cipresso per la copertura del tetto, i rami dell’ulivo e dell’alloro per le ghirlande.
Egli non è padrone della sua voce, né dell’armonia che si consuma pian piano vaporando verso la luna; egli ubbidisce alla suggestione dell’ora, ai comandi di tutto il passato che imputridisce sulle colline fino al mare.
Mi distendo presso di lui, quasi sulle stesse pietre, per avere una visione uguale; vedo il blocco nitidamente segnato dalla trabeazione che allontanandosi s’allarga simile ad una strada lastricata di basalto: la Grande Orsa è tagliata per metà da quel blocco e quasi dallo scalpello, la fuga delle colonne anche più enormi sembra astratta verso il solo vertice della stella polare.
I moribondi degli assalti cartaginesi e degli assalti romani dovevano chiudere gli occhi protetti da quella ascensione che scala il cielo: il blocco di pietra stava sul loro sguardo estremo, duro emblema della volontà vittoriosa. Mentre la mano si allentava presso l’impugnatura di un’arma o sulle labbra della ferita, mentre la rugiada placava la febbre e gli incendi, in una casa di Cartagine o di Roma, scrosciava l’acqua di un pozzo o cantava una donna al telaio.
Il pastore che questa sera intona un motivo patetico è l’erede della stessa malinconia, dello stesso sentimento; ricerca l’espressione di una dolcezza non imprigionata tra pietra e pietra. Il mistero della vita e della morte, dell’armonia che lega i colonnati e le stelle ha questa parola, s’indugia in questa espressione.
Supini sulle scalinate i moribondi degli assalti cartaginesi e romani aspiravano il profumo delle campagne e del mare tra il bruciaticcio delle travi arse e il polverone dei massi crollati; man mano che una stella dell’Orsa si nascondeva dietro il blocco della trabeazione, per discendere lungo un capitello, misuravano il progredire interminabile della notte.
Un flauto come questo evocava al loro delirio le alte mura di Cartagine, le povere mura di Roma tra le selve e le paludi dei sette colli. Il tempio nitido, preciso, sbloccava nell’azzurro la sua formula di perfezione e di forza, festoso di colori, scintillante di dorature, adorno di ghirlande. Ai fuochi delle navi tirate in secco sulla riva rispondevano gli improvvisi fiammeggianti della città incendiata. Il flauto evocava ora altre immagini della vita fuggente: immagini fanciullesche e giovanili, delusioni e rimpianti fino ai brividi dell’alba.
Ma il tempio così detto della Concordia, è il solo superstite; gli altri, diroccati e taciturni, con le colonne rovesciate e le celle deserte sembrano esseri spaventosi, scheletri saccheggiati: se ne ricerca invano la fisionomia. Intorno al tempio di Giunone Lacinia alcuni vecchi e portentosi ulivi creano un tumulto di forme violente e disperate di assalitori scagliati verso la cima.
Il tempio di Ercole non è che un ammasso di rovine dal quale si sono alzate otto colonne schierandole una presso l’altra, manipolo di suprema difesa che guarda il mare.
Il tempio di Giove Olimpio è ridotto a frammenti di spaventosa grandezza; le dimensioni della sua pianta erano appena superate da quelle del tempio di Diana in Efeso; un uomo può stare nella scanalatura di una colonna, le colonne son più grandi di quelle di San Pietro in Roma.
La notte ha cancellato la loro sagoma: i frammenti accatastati al suolo sono un caos di pietrame informe: non si capisce dove la roccia affiorante assuma una linea architettonica e dove sia intatta; l’estensione delle rovine è immensa, l’ombra le fa apparire senza confine.
Penso ad una gigantomachia; a una terribile lotta di centauri e di giganti; immagino un’agitazione di groppe enormi, i massi scagliati come bolidi contro gli assalitori, i tronchi impugnati come giavellotti, puntati come leve, cataste colossali di travi erette per dar la scalata, catapulte inverosimili per sfondare muraglie.
Una delle cariatidi del tempio, l’unica superstite accresce la verosimiglianza della mia evocazione; è una bestiale statua di Atlante, lunga otto metri abbattuta al suolo proprio nell’atteggiamento di un assaltatore ferito e stramazzato. Gli hanno costruito intorno un cancelletto imprigionandolo come una belva, terribile anche ferita; l’erba cresce intorno alla statua giacente e bruciacchiata dal vento sembra macchiata da un getto di sangue ferino. Par di vedere l’incatenato Prometeo.
Anche supino, anche morto, questo gigante di pietra bigia è pauroso.
Con altri rozzi fratelli sorreggeva l’architrave del tempio: gli ultimi tre rovinarono all’inizio del 1400: erano già antichi di venti secoli.
Questo è l’ultimo superstite; abituato a reggere il peso della grande pietra, a vedere sfilare dall’alto cortei ed eserciti, mandre e greggi, ora contempla i voli degli uccelli e delle nuvole, il lento spostarsi delle costellazioni. I gomiti poderosi alzati al livello della fronte incisa da una ruga profondissima sembrano puntarsi contro il suolo. S’egli si levasse, s’egli s’incamminasse barcollante come Vulcano, giù per le balze, armato di una clava e di un tronco sdradicato e giunto alla riva del mare chiamasse alla riscossa i fratelli, giganti incatenati di tutto il mondo?
Raffaele Calzini, I templi di Girgenti sotto la luna, in “Il Secolo” (quotidiano), Milano, 23 giugno 1925.