Di Giuseppe Quatriglio
I templi di Agrigento si trovano sull’orlo di un dirupo la cui sommità è costituita da tufi e il cui pendio è rappresentato dalle argille sottostanti. Proprio queste argille sono sottoposte a fatti erosivi che provocano un lento, graduale arretramento del pendio; l’arretramento, con l’andare del tempo, finirà con l’investire gli antichi monumenti».
Chi parla così della delicata e com-plessa questione relativa alla stabilità delle millenarie colonne della valle, agrigentina è il professore Giuliano Ruggeri, direttore dell’istituto di Geologia dell’università di Palermo e paleontologo di fama internazionale. L’argomento lo aveva affrontato nel corso di una conferenza organizzata ad Agrigento dalla locale sezione del Rotaract, ma adesso il professore Ruggeri me ne parla più ampiamente nella sua casa di Palermo riferendomi in dettaglio i risultati delle sue indagini.
Almeno da un decennio il professore Ruggeri indaga sulla struttura del sottosuolo della Sicilia; portando con sè solo strumenti tradizionali, quali la bussola e la piccozza, ha macinato chilometri a non finire nell’interno della Isola. Ed è stata sempre la sua lunga esperienza acquistata sul terreno a convincerlo della bontà di una teoria oppure persuaderlo della necessità di nuove ricerche. Il sottosuolo di Agrigento lo aveva studiato da molti anni, ma in occasione della frana del 1966 ha avuto modo di soffermarsi sui fenomeni che la provocarono e di estendere l’esame al complesso archeologico della valle. Ora egli ha idee ben precise sia per quanto riguarda il sottosuolo della collina su cui sorge l’abitato, sia per quanto riguarda la zona monumentale.
Riferendosi appunto a quest’ultima, dice : “Il problema della stabilità dei templi non è immediato in quanto l’osservazione del pendio argilloso lascia presumere che passerà sicuramente un certe tempo prima che la erosione in atto possa seriamente compromettere la stabilità del banco di tufo su cui poggiano le antiche costruzioni.
« Tuttavia, in questa materia è assolutamente necessario intervenire tem-pestivamente piuttosto che riparare danni già avvenuti. Ripeto, in questo momento il basamento di tufo su cui si trovano i templi di Agrigento è intatto, però verrà il momento in cui questo basamento sarà coinvolto nel lento degradare verso valle delle argille sottostanti. Bisogna quindi porsi il problema fin da ora ».
Che cosa si può fare per bloccare fin da ora il fenomeno dello «slittamento » delle superbe testimonianze della civiltà classica?
Il professore Ruggeri afferma che si può intervenire sul pendio argilloso in modo da arrestare i processi di erosione «rivestendolo di un adatto mantello vegetale che costituisca un freno alla erosione stessa ». E’ questo un metodo semplice soltanto in teoria; in pratica un rivestimento vegetale del pendio sottostante ai templi modificherebbe il paesaggio che abbiamo fissato nella memoria e che amiamo cosi com’è, con le suggestioni che può dare la sua nudità; un paesaggio che costituisce un patrimonio intangibile.
« Non sappiamo», osserva il professore Ruggeri, « se la magia del tempio di Giunone Lacinia, data dalle colonne che sorgono sopra un deserto di argilla, rimarrebbe intatta una volta che il pendio venisse rivestito di vegetazione: appunto per questo bisogna riflettere accuratamente».

Provvedimento
C’è comunque qualche cosa che il geo-logo suggerisce di fare subito: realizzare le opere necessarie (spie sul terreno) in modo da tenere sotto controllo il fenomeno di regresso del pendio argilloso e accertare la « velocità » con cui procede l’erosione. E’ questo un provvedimento di carattere preliminare, ma va fatto, anche se in Italia siamo abituati ad intervenire soltanto quando i danni si sono verificati.
Altri studi dedicati dal professore Ruggeri alla frana di Agrigento del luglio 1966 hanno portato lo studioso emiliano a conclusioni diverse da quelle raggiunte dalla commissione Grappelli.
Come prima cosa egli ha rilevato che la frana di Agrigento si è presentata con caratteristiche curiose e anormali rispetto alle frane conosciute: si è verificata in estate, in piena stagione secca. Un fatto questo, ha osservato Ruggeri, su cui non si è soffermata abbastanza la commissione Grappelli.
« La frana », è questo il ragionamento del geologo, « ha coinvolto una serie di terreni costituiti in alto da banchi di tufo, banchi molto fratturati e tormentati che poggiano a loro volta su una potente serie di argille. Gli esperti della commissione Grappelli ritennero che la frana fu dovuta all’afflosciarsi del basamento argilloso per effetto del suo peso stesso. L’ipotesi avrebbe un senso se il fenomeno si fosse verificato in un’altra stagione, non ha senso essendosi verificato in estate. Infatti, se la frana fosse stata causata dal rammollimento delle argille per effetto di penerazione di acque superficiali avrebbe dovuto di preferenza verificarsi ai temine della stagione piovosa, quando le argille raggiungono la massima saturazione di acqua, vale a dire grosso modo nei mesi di febbraio e marzo ».
Il professore Ruggeri non approva la irregolare immissione nel terreno delle acque superficiali, fatto questo che venne ritenuto la causa dell’afflosciarsi del terreno, ma afferma che anche se l’eduzione delle acque fosse stata regolare, la frana si sarebbe verificata lo stesso. Perchè? Si sarebbe verificata lo stesso («si tratta di una ipotesi », avverte, « e non di un fatto dimostrato perché per dimostrarlo occorrerebbero indagini al di là delle mie possibilità ») perchè il fenomeno è avvenuto non nello strato argilloso ma nel sottostante banco di gesso.
« Per comprendere bene quanto é av-venuto bisogna considerare la situazione geologica di Agrigento. La città è costruita sopra . un banco di tufo permeabile inclinato mediamente verso sud. Si tratta della cosiddetta calcare- nite (o tufo) della rupe Atenea. Sotto, c’è un potente banco di argilla. Al di sotto di questa argilla si trova una e- stesa serie di gessi. I gessi sono rocce carsiche che quando si fessurano possono essere permeate dalle acque: le acque scavano i gessi creando grotte. Sono appunto questi banchi di gesso che da nord scendono nel sottosuolo di Agrigento ad essere scavati da una quantità di gallerie e di cavità che al di sotto di Agrigento debbono spingersi a quota molto bassa, probabilmente al di sotto del livello del mare, minando la stabilità dell’abitato.
« Durante la stagione piovosa il sistema carsico è pieno d’acqua. L’acqua entra a quota elevata, a circa duecento metri sul livello del mare, scende in profondità ed esercita una pressione idrostatica che si riflette in una contro- pressione dal basso verso l’alto. Durante l’estate la pressione diminuisce man mano che la falda d’acqua contenuta nei gessi va scaricandosi; a un certo punto, quando la pressione è minima (e ciò si verifica nel centro della stagione secca), può avvenire il crollo del tetto di cavità carsiche. E’ questo il fenomeno che coinvolge tutta la pila dei terreni sovrastanti, vale a dire, nel caso di Agrigento, le argille ed i tufi su cui poggia la città».
« La frana di Agrigento », continua il professore Ruggeri, « non è nata il 19 luglio 1966; la regione era franosa in precedenza e già alla periferia della città vi erano case che presentavano lesioni. Appunto per questo, per quanto riguarda la responsabilità della frana, si può parlare di imprudenza nell’ubìcare le nuove costruzioni in zona franosa piuttosto che considerare le costruzioni stesse causa della frana. E’ come se noi volessimo attribuire il crollo di un pagliaio al fatto di aver messo sul pagliato un filo di paglia in più.
« C’è da considerare anche che alcune fratture partendo dalla zona franosa si dirigono da Ovest verso Est e in particolare coinvolgono il duomo di Agrigento la cui situazione appare ancora piuttosto critica. E’ difficile suggerire il tipo di interventi. Forse si potrà pensare a una palificazione, ma anche questo rimedio non sembra molto efficace perchè lì c’è una intera fetta di terreno che sta scendendo verso il basso. Oltre tutto in questo particolare caso, le argille sono state indebolite da una quantità eccessiva di costruzioni fatte sulla strada sottostante al duomo. Purtroppo, i fatti hanno messo in evidenza alcune piaghe che bisognerà sanare prima o poi tanto più che il fenomeno franoso è destinato ad estendersi ».

Previsioni
Cosa si può fare intanto?
« E’ impossibile fare previsioni », risponde il professore Ruggeri, « sulla data in cui si verificherà una nuova crisi. E’ presumibile che le crisi siano piuttosto distanziate tra di loro nel tempo. Sembra infatti improbabile che dopo un abbassamento così importante come quello che c’è stato se ne verifichi presto un altro delle stesse proporzioni. E’ chiaro che il volume delle cavità che si è riempito per effetto del cedimento è notevole; pertanto prima che il lavorìo carsico riesca a ricostruire cavità di grandi proporzioni debbono passare senz’altro decine di anni.
« Comunque, se si volesse bonificare questa zona, penso che l’unico sistema sia quello di verificare l’ipotesi ora emersa della esistenza di cavità carsiche mediante perforazioni sufficiente-mente profonde che raggiungano i gessi sottostanti alle argille. Una volta accertata in via definitiva la presenza di cavità carsiche, si potrebbe iniettare del cemento in modo da chiudere per quanto possibile le cavità stesse e ridurre conseguentemente la circolazione delle acque sotterranee. Ma si tratterebbe sempre di un palliativo perchè le acque non scioglierebbero il cemento però finirebbero con lo sciogliere i gessi in qualche altro punto. Quindi, in definitiva, un provvedimento molto costoso finirebbe con allungare i tempi ma non potrebbe scongiurare definitivamente il pericolo di future frane.
«L’unica cosa che resta da fare è tenere sotto controllo l’intero arco franoso, tanto più che fenomeni di questo genere si manifestano con una certa lentezza e danno quindi la possibilità di sgombero agli abitanti».
Giornale di Sicilia 4 giugno 1970