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Agrigento in versi: La Valle dei Tempii, di Cesareo – Agrigento Ieri e Oggi

13 Settembre 2016 //  by Elio Di Bella

LA VALLE DEI TEMPLI

Esita oscura l’alba su la cresta

della rupe Atenea : giunge nel piano

vedovo, a tratti, la gran voce mesta

del mar lontano.

Nell’ombra una lanterna semispenta

dondola, e tra un tinnio di sonagliere,

 la nota ondeggia lenta e sonnolenta

del carrettiere.

In fra i pilastri mozzi di porta Aurea,

ove un sorriso di chiaria si spande

e a cui s’abbraccia azzurra la centàurea

 con sue ghirlande,

E’ un fitto balenio di voli, un fresco

pispissare di rondini veloci,

 quale in chiuso di rupi un fanciullesco

 chiamar di voci.

Ma, nella solitudine fatale,

i tempii austeri, grandi, eretti stanno

e di sé ancora il triste litorale

insigne fanno.

Sublimi incontro al golfo che si spazia

di là da’ rossi intercolonnii vasto,

empiono il cielo d’orgogliosa grazia

e d’orror casto.

Fu dunque un tempo la dovizia, il grido

delle fervide vie dense di cocchi,

le cortigiane d’Erice e di Cnido

da’ bistrati occhi?

Il molo allucinante di triremi

purpureo, dove su l’incurve prue

aprivan l’ali i tutelari emblemi,

Chimera o grue?

Su marmorei scalei gli alti giardini

lunari, e a notte se n’udia fluire

murmuri, baci e i trilli cristallini

d’eolie lire?

La liberalità dell’opulento

Gellia dall’alte mense e dalle stalle

sonore, ove zampavano trecento

 bianche cavalle,

E il ricordo di Mida e di Terone,

e l’eroica quadriga in cui depose

 Pindaro gl’inni suoi, quali corone

 armoniose?

Tutto rapì l’oblio nel flutto ingordo :

tace la valle. Ed, ecco, i grandi tempii,

questi Veggenti assorti nel ricordo

d’oscuri scempii,

Difilando nel sole, entro un vibrante

sogno di gloria, belle antiche larve,

attestano il prodigio d’Acragante

aurea, che sparve,

Ognora fissi in chi varca l’adusta

sabbia, a mostrargli, con loro sacre mura,

che la gloria caduta è fatta augusta

dalla sventura.

GIOVANNI ALFREDO CESAREO

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Anche il poeta e critico Giovanni Alfredo Cesareo (Messina 1860″Palermo 1937) dedicò alla nostra città una poesia che si trova nella sezione « Le parole dell’ombra » (1918-19) del volume zanichelliano I canti di Pan del 1920.

Nelle prime sei strofe saffiche prevale l’elemento descrittivo : la rupe Atenea ancora avvolta nell’incerto colore dell’alba; la vasta pianura con gli echi del mare; il carrettiere che sale col lento carro, sotto cui pende la lanterna semispenta; i pilastri di Porta Aurea che si distinguono nel chiarore che avanza; il volo balenante delle rondini; i templi austeri che si stagliano « incontro al golfo ».

Dalla prima alla sesta strofa seguiamo come un arco concavo : ai due capi la cresta della rupe e i templi austeri incontro al golfo, al centro l’immagine del carrettiere e Porta Aurea che attraversano quel filo sottile che lega i due capi.

Il tutto suggerisce l’idea di un ampio spazio scandito da elementi statici (i pilastri mozzi, i templi) e mobili (la lanterna che dondola e le rondini veloci), da elementi chiaroscurali (l’alba oscura, la lanterna semispenta nell’ombra) che tendono a farsi luminosi (un sorriso di chiaria), misti ad effetti sonori (la nota sonnolenta del carrettiere, il fresco pispissare delle rondini), e visivi (la centaurea azzurra, i rossi intercolonnii). Su tutto però domina il silenzio della valle e l’austerità degli antichi monumenti, slanciati nello spazio fino al mare :

Ma, nella solitudine fatale, i tempii austeri,

grandi, eretti, stanno…

Da qui quasi da questa contemplazione estatica ed assorta, prende l’avvio la seconda parte (strofe 7-11). L’interrogativo accompagna fantasia e pensiero, che rievocano un passato quasi favoloso di ricchezze, di belle donne dagli occhi truccati, il porto gremito di triremi, e musiche e divertimenti notturni; e come se questi non bastassero, altri segni di ricchezza e generosità attestate dalla presenza di Gellia, o prove di potenza e di eroiche vittorie testimoniate da Mida, Terone e Pindaro.

L’Acragas greca sembra qui, pur nella foga oratoria e magniloquente, riaffiorare e poi riempire di stupore la rievocazione del poeta. Forse possono sembrare arbitrarie « le cortigiane d’Erice e di Cnido » qui inserite, o troppo sognanti e fantasiosi « gli alti giardini lunari ». Ma storiche sono le presenze di Gellia opulento e liberale, e di Mida e di Terone e le odi esaltanti di Pindaro. Anzi è senz’altro quest’ultimo che gli fa ricordare gli altri due.

Quanto a Gellia, potrebbe essere il Picone la fonte autorevole (o Diodoro Siculo o la Suda, cui lo stesso storico si riferisce) che dice così alle pagg. 101-102 delle sue Memorie : « … Gellia… era ricchissimo ed avendo molti alberghi, teneva agl’ingressi portinai, cui era dato ordine, che quanti forestieri vedessero, gl’invitassero ad alloggiar presso lui. Teneva egli trecento botti incavate in una medesima pietra, ciascuna capace di cento anfore, e mille di esse contenevansi in un tino che egli aveva fatto costruire colle pareti intonacate. Egli accolse, trattò, e donò di una clamide e di una tunica ciascuno dei cinquecento cavalieri geloi, sbattuti, per fortuna di mare, sui lidi delle sue possessioni in Acragante. Egli (scrive Valerio Massimo) era ricchissimo, men di fortuna, che di generosità, occupato più nello spendere, che nello ammassare denaro, per lo che la sua casa poteva ritenersi officina di munificenza. In essa costruivansi monumenti per pubblico uso, ivi si apparecchiavano spettacoli, belli a vedersi dal popolo, ivi imbandi- vansi mense magnifiche, e distribuivansi volentieri sussidi di annona. Egli non solo prestavasi a favore del pubblico, ma in privato, largiva alimenti ai bisognosi, e doti a povere verginelle; egli non sembrava un uomo, ma il porto della benigna fortuna. Il patrimonio di Gellia era quasi comune a tutti, e non solo Acragante, ma i paesi vicini facean voti a Dio, perché gli custodisse i giorni e gli aumentasse le ricchezze ».

E in nota nella stessa pagina 102 aggiunge un gustoso aneddoto, tratto sempre da Diodoro : « Gellia era di umile statura, di forme non belle ed arguto nel dire, e mandato una volta da Acragante ambasciatore a Centuripe, apparso in parlamento, la moltitudine proruppe in risa inopportune, alla quale egli si volse e disse, essere costume degli Acragan- tini, alle città famose mandare uomini di forme bellissime, alle umili e molto brutte, uomini pari ad esse».

Infine a pag. 114 aggiunge l’ultimo cenno alla sua morte, dopo aver parlato dell’assedio dei Cartaginesi alla città : « Nella ebbrezza della vittoria, furono profanati i templi, da’ di cui altari vernano empiamente strappati, e crudelmente uccisi que- glino che vi aveano cercato un asilo. Gellia, sperando, che gli aggressori si sarebbero astenuti dal violare i luoghi sacri agli dei, fuggì co’ suoi, e cogli amici nel tempio di Minerva, ma, veduto l’empietà dei barbari, diè fuoco al tempio, ed egli, i suoi, gli amici, i tesori del Nume ebbero tomba in quell’incendio ». Era l’anno 407 a.C.

Noi non vogliamo appurare le fonti storiche ma solo constatare come il testo poetico del Cesareo può avere riscontri storici e riferimenti letterari inoppugnabili. Della munificenza e delle « alte mense » di Gellia ne è prova il Picone con l’aiuto di Diodoro, e la presenza dei cavalli era un luogo comune nell’antichità, come Virgilio stesso attesta. E tutto ciò non doveva essere affatto ignoto al dotto umanista professore Cesareo.

* * *

La terza parte, costituita dalle ultime tre strofe (12-14), fornisce una sorta di epilogo col brusco passaggio dei versi :

Tutto rapì l’oblio nel flutto ingordo :

 tace la valle…

Dal passato il poeta ritorna al presente, dalla grandezza agli « oscuri scempii », dalla gloria lontana alle « belle antiche larve » : il mutare degli eventi, l’inesorabilità del tempo, l’antico fasto spa rito, non riprodotto dalle generazioni presenti.

Il poeta però qui si contiene, non scivola nella satira, tutto preso com’è dall’ammirazione dei segni della gloria passata, di fronte ai templi e alle colonne che si stagliano come « Veggenti » nel silenzio del tempo e del luogo, e inducono il visitatore allo stupore e alla meditazione più che al biasimo e ad inutili considerazioni.

Un oscuro senso del mistero invade il poeta e lo rende sinceramente pensoso di fronte ai grandi segni della storia. Qui infatti — disse bene il critico Giuseppe Angelo Peritore — «… le età tramontate e gli oscuri Veggenti vengono rievocati con parole a fior di silenzio, che sembra vaporino dai ruderi dispersi e diano al componimento come un senso di sospensione ch’è appunto l’ala dell’ignoto che sfiora il cuore del poeta assorto ». (Cfr. G.A. Peritore, Cesareo e i Canti di Pan, in « Il poeta dell’umana tragedia », L’« Ansia » editrice, Girgenti 1922, pag. 187).

Dalla rupe ai templi è l’ampia valle la vera protagonista del componimento, ma è sempre l’Acragas-Agrigento che tiene il filo della storia e riannoda i tempi.

Il testo non è certo un bel componimento, ma pure, osservandolo bene, ha una sapiente struttura secondo un modello classico-carducciano — nel linguaggio, nella versificazione, nella distribuzione delle parti —; ed ha un suo particolare sapore acragantino per i connotati descrittivi e i tanti riferimenti storico-letterari, che ci fa perdonare qualche impennata retorica e qualche aulicismo. E’ un omaggio serio e commosso ad Agrigento da parte di un poeta di alta cultura e di forti sentimenti

di Nino Agnello 

Categoria: Agrigento RaccontaTag: agrigento, giovanni alfredo cesareo, valle dei templi

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