Giandomenico vivacqua
Purtroppo non è un “ignobile falso” la fotografia che rivela al mondo la città di Agrigento contornata e presidiata da tristi, decrepiti, smisurati falli, polluta di prodigi escrementizi, gravata di guallare madornali. A partire dalla metà degli anni cinquanta del secolo scorso, infatti, col plauso osceno della folla pronuba, il priapismo cementizio dei palazzinari agrigentini si accanisce sui fianchi illibati della collina, senza disdegnare le vereconde matrici dell’acropoli, i ricetti uterini, i tepidi marsupi della vecchia città.
Otto, dieci, quindi piani, i tolli stuprano arene, giardini, ville, belvedere, quanto di più ameno e civile ha luogo ad Agrigento. Si dice allora, e purtroppo ancora: dopo la guerra c’era fame di case, di alloggi salubri. E a Cortona, a Todi, a Ibla? E comunque, era proprio necessario sfregiare il colle, increspare il clivio di mostruosi gibbi? Quale odio alimenta questo brutale oltraggio alla dignità rupestre della città medievale? Il mare africano, la valle sacra, il barocco addensarsi delle nuvole sull’orizzonte sono cancellati dalla vita di migliaia di famiglie, espropriati ai poveri, rappresentano il plusvalore dei moderni appartamenti.
I tolli offrono alle dilagante ceto medio la possibilità dell’abitazione condecente, appagando la smania perbenista, il sogno piccolo-borghese dell’appartamento con il tinello, la cucina all’americana, il doppio servizio, la camera dei ragazzi, la foresteria, il salone; il prestigio sociale ormai è solo un fatto di metri quadri, ingressi signorili, ossequienti portieri. La febbre del mattone si endemizza, il modello cubiforme delle nuove costruzioni viene riprodotto in tutte le sue varianti, dalle pretenziose alle infime, concedendo all’Orrido di manifestarsi, proprio ad Agrigento, in alcune delle sue più alte, è il caso di dire, espressioni universali.
Verticalizzandosi, la città (cioè, quasi tutto quello che la parola addensa di significati politici) scompare; lo spirito comunitario progredisce a mera giustapposizione demografica, una pura e semplice addizione abitatoria, che si ribella selvaggiamente al senso comune urbanistico della civiltà mediterranea. La di novità storico-antropologica, palesata dalla permanenza plurisecolare delle famiglie nei quartieri la cui toponomastica ripete la cognominazione degli abitanti, viene interrotta bruscamente da questi megalitici ricoveri, ipostasi della nuova identità psicologica degli agrigentini, che finalmente concentra il peggio di una malintesa modernità.
Negli anni tra i Sessanta e i Settanta, chi come me è cresciuto in uno di questi smodati condomini, ignorava quasi tutto quello che è fondamentale per la costruzione del senso di appartenenza ad una comunità, identificabile i riti quotidiani, nelle sue memorie tramandate. Chi erano i nostri maggiori, dove avevano abitato in che rapporto stavano con le famiglie vicine, quali i loro casi, le loro vicissitudini:tutto questo era per noi sconosciuto; né valeva a colmare la lacuna il frammentario canzoniere delle gesta di questo o quell’altro antenato, stancamente ripassato negli languidi dopopranzo delle feste comandate, ultimo baluardo della socialità familiare al tempo dei grattacieli.
A noi piccole cavie condominiali, è stata riservata solo l’arroganza del nuovo benessere e un vago disagio per gli infelici che la povertà rintuzzava nei penetrali di una città cadente e vergognosa. I miei parenti avevano abitato la via Saponara, Piazza Lena, la Bibbirria, l’Addolorata: era accaduto in un passato che a me appariva remotissimo, oscuro. Io, che uscendo da casa non dovevo scordare le dieci lire necessarie per risalire con l’ascensore al tredicesimo piano, in classe potevo vantare il primato della più alta collocazione abitativa (in metri sul lastrico stradale), e non mi pareva poco. Solo gli scaracchi tenaci delle lunghe convalescenze bronchitiche arrivavano al suolo, cioè alla sottostante timpa ferroviaria, collaudato ricettacolo anche di suppellettili domestiche distrutte negli accessi ipercinetici della mia cattività condominiale, la cui defenestrazione ritardava di qualche giorno scoperta del misfatto e conseguente requisitoria pedagogica.
Ignoro se esistano studi sull’etologia e psicologia degli abitanti dei tolli: sarebbe interessante. I vicini, gli abitanti degli appartamenti contigui, avanguardia dell’umanità sulla soglia di casa, vengono tenuti in grande considerazione dalla nuova etica condominiale, non come persone della cui vicenda umana appassionarsi, ma come censori spietati delle intemperanze vocali sprigionate durante i tafferugli domestici.
Il vicino è una potenziale spia verso il mondo di tutto quello che in casa tua non si riduce al modello corrente, levigato e finto, di buona famiglia. L’ipocrisia condominiale, quel sentimento che ti induce ad abbassare la voce, non per educazione, ma per evitare di procurare al fariseo in agguato dietro un esile tramezzo il sazio di sapere i fatti tuoi, ha funestato l’adolescenza di molti della mia generazione e ha pervertito i più deboli, riducendone lo spessore umano al sottile, inconsistente velo di un falso decoro borghese. Il controllo sociale al tempo dei tolli si esercita attraverso rimostranze affidate al portiere o al caposala: il buon condomino non stende i panni, rinuncia alle fritture fumogene, la notte gode discretamente, reprime i figli sussurrando, si rammenta di chiudere il portone, non apre ai questuanti, non fa istanza all’assemblea di una nuova spesa, foss’anche nell’interesse comune. Le virtù civiche dei nuovi agrigentini finiscono qui: il cittadino ridotto a condomino, alla malora il resto.
La memoria e la solidarietà, come elementi essenziali di un’ipotesi di convivenza civile, sono scomparsi dall’orizzonte etico-politico della città: la prima perché troppo netto e radicale è lo scarto tra i tradizionali insediamenti e i nuovi alveari, affinché l’antico possa trascorrere nel moderno; la seconda perché la convivenza verticale di famiglie prive di una storia comune, induce una reciproca vigilanza livorosa, sotto la patina di una cortesia da pianerottolo limitata al buongiorno e buonasera.
Oggi che cerco una casa per la mia recente famiglia, la nostalgia di una città che non ho conosciuto, una città di uomini e donne le cui tracce compulsivamente ricerco nei resoconti dei miei parenti ottuagenari, mi spinge verso la Medina, verso il Gabbato, verso quell’ordito di camminamenti ardui dove il senso della vita è ancora magicamente custodito dalle rovine di tufo. Nuovi e vecchi proprietari intuiscono questo sentimento, ormai nutrito da molti come l’estrema possibilità di essere agrigentini, e cercano di monetizzarlo: vecchi ruderi mi sono stati offerti a prezzi esorbitanti. Prezzi che pagherei volentieri, se solo potessi. Comunque, io e mia moglie, che più di me è dotata di “tenace concetto”, abbiamo giurato: in un tollo mai.
Continueremo a cercare, senza farci allettare dai cantori della nuova edilizia residenziale extra moenia, antropologicamente i diretti discendenti degli entusiasti agrigentini che plaudirono i palazzoni e corsero ad occuparne i loculi panoramici, i quali mi ripetono che il posto macchina è fondamentale e i ragazzini possono giocare tranquilli sotto casa perché la palazzina è recintata e protetta da un cancello automatico e poi è importante avere dei vicini di casa dello stesso livello sociale perché ormai il centro storico è pieno di neri e marocchini e uno la sera ha paura a rincasare ma principalmente il posto macchina che non è un posto che ci va solo la macchina ma un grande garage che è una vera cantina che ci si tiene anche il vino e le bici dei ragazzi anche se i ragazzi dal recinto non possono uscire ma dentro hanno tutto lo spazio e giocano tra di loro e poi nel quartiere ormai c’è tutto il supermercato un bar la farmacia no guarda io non lo cambierei affatto col tuo centro storico che cade a pezzi, ma vuoi mettere il posto macchina il posto macchina!
Fonte Fuorivista http://web.tiscali.it/fuorivista-wolit/A3n2_6.htm