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Il Castello di Zabut

1 Marzo 2016 //  by Elio Di Bella

castello zabut

Cosa dicono gli storici

Giuseppe Giacone, nel suo libro “Zabut – notizie storiche del Castello di Za­but e suo contiguo casale, oggi Comune di Sambuca di Sicilia”, inizia a parlare in questi termini: “Il Castello di Zabut, edificato di mano saracena nell’anno di nostra salute 827. Surse nel Val di Mazara della florida e ri­dente isola di Sicilia, la quale, per il suo clima e per l’ubertoso suo territorio fu agognata, posseduta e sotto­messa a popoli stranieri che la mantennero in continue guerre e scissa sotto governi barbari e tiranni.”

Lamenta il Giacone che nessuno degli antichi croni­sti o storiografi s’occupò a descrivere il nostro vetuso Castello Zabut: neppure Tommaso Fazello, che ebbe i natali a Sciacca e visse colà dal 1498 al 1570, che nella Storia di Sicilia scrive tuttavia:

“A Chiusa verso ponente nell’altura di una rupe re­cita: “All’intorno sovrasta il Castello di Giuliana ornato di mura e di fortezza da Fe­derico II Re di Sicilia e ri­pieno di abitanti. Questo ca­stello era già casale di saraceni, insieme con Zabut, Comicchio. Adrano e Sen rio, come si può ritrarre da un privilegio di Guglielmo II, Re di Sicilia, dato in Pa­lermo. nel mese di giugno di nostra salute 1185; il quale chiama questi luoghi “ca­sali”.

E prosegue il Fazello: “Da Giuliana, sotto tre mi­glia verso mezzogiorno si vede Comicchio rovinato, a cui sovrasta la Chiesa di San Giacomo.”

L’Abate Vito D’Amico ne parla più estesamente: “Il Castello di araba struttura sulla sommità orientale del Comune ed appellavasi dal nome dell’Emiro saraceno; fu ridotto nel 1819 a carcere comunale; nel 1837 l’im­menso numero dei mietuti dal colera fu messo nei suoi sotterranei, e d’allora son venuti diroccandosi le sue magnifiche ruine”.

Ed infine, sempre il Gia­cone, cita il Dott. Vincenzo Navarro, medico, precettore di Francesco Crispi. patriota liberale, padre di Emma­nuele Navarro della Mira- glia. precursore del verismo, trapiantatosi a Sambuca, proveniente da Ribera.

“Sambuca, ricca ed indu­striosa Comune di Sicilia, nella provincia di Girgenti. vuoisi deriva da “Zabut”. nome di Emiro saraceno, dato ad un castello che tor­reggia la sommità orientale di detto Comune, il quale or non più; esistette, il detto castello, l’ino al 1818 ridotto a carcere comunale.”

Giacone aggiunge qual­cosa del suo sacco: “E’ ve­ramente la costante tradi­zione, generalmente conosciuta sin dall’infimo idiota, constatata dalle non dubbie osservazioni archeo­logiche sugli umili fabbri­cati che costituivano la parte dell’antichissimo casale, composto di sette vanelle, che  come a contrade o quartieri ritennero quel nome sino al censimento della popolazione di quel­l’anno 1882, in cui fu sosti­tuito il nome di “Vicoli Sa­raceni” dal numero uno sino al settimo, e questo ci dà l’i­dea di questo umile casale fondato dall’Emiro Zabut”.

Prosegue più avanti il Giacone: “…Sino all’anno 1830 circa il Castello di Za­but era in buono stato e tut­tavia esistente e se non fosse stata la mano demolitrice dell’uomo che per profittare della pietra, ne volle la di­struzione, avrebbe potuto sfidare i secoli avvenire”.

Il Giacone. a questo punto si rammarica e depreca: “E’ biasimevole l’opera contemporanea devastatrice del Castello di Zabut, poi­ché esso è l’emblema, la vera figura simbolica della storia di Sambuca ed anche perché, a dire dello Scaturro. il Castello di Zabut ebbe l’onore di essere asse­diato da Re Martino I, in sul finire del 1403.”

Ma poco appresso il Gia­cone dimentico del suo or­goglio. dimentica di essere entusiasta degli ultimi colpi di piccone dati a quel che restava del Castello.

“Nell’anno 1854, in oc­casione della venuta in Sambuca dei PP. Gesuiti, per la missione, al minimo cenno dei Missionari, la folla del popolo entusiasta, corse con zappe e vangh rase del tutto le rovine del Castello, vi eresse il “Calva­rio” con una spaziosa gradi­nata in quell’ampio ed ameno poggio, nel cui cen­tro furono erette tre cosi, vessillo della nostra reden­zione e simbolo del monte Calvario, siccome fu gene­ralmente appellato”.

Ancora più spregiudicato l’entusiasmo del Navarro che compose una lirica che termina così:

‘‘Abbiatevi spontanea/di un popolo la lode7che gene­roso e docile/or salutar qui gode/il sacrosanto legno/che ne promette il regno/di glo­ria e pace e amor”.

Le vicende del Castello e del Casale – come abbiamo visto- si intrecciano in ma­niera strana, nel corso della sua secolare vita, con storie e leggende socio-politico- religiose. che hanno influito non poco nell’alterazione del tessuto urbano e geogra­fico del “Quartiere”.

L’iniziativa, per esempio, di abbattere una parte del Castello, dovuta ad un for­sennato fervore religioso che i gesuiti inculcavano al comando di certo Padre La Nuza di Licata, specie in Si­cilia. o solamente in Sicilia per la costruzione di un “Calvario”, in ogni città pic­cola o grande che fosse, è un episodio emblematico.

Lo scempio dei “luoghi alti”, dove in genere sorge­vano torrioni e castelli a di­fesa delle comunità può immaginarsi.

L’episodio del Calvario, sorto sulle macerie del Ca­stello di Zabut, va collegato ad un’altra vicenda altret­tanto emblematica, accaduta 343 anni prima.

Nel 1597, ebbe luogo un “Corso di esercizi spiri­tuali”, sempre ad opera dei PP. Gesuiti che aveva an­cora, fresco d’inchiostro, il volume degli “esercizi spiri­tuali” del loro fondatore, Ignazio di Lojola, dov’è la famosa frase “todo modo”, da cui Leonardo Sciascia trasse l’ispirazione di uno dei suoi più belli romanzi.

Secondo Rocco Pirri, il predicatore-guida degli esercizi spirituali fu un certo Padre Paraninfo da Naro (1554-1624). Il Gesuita trovò lo stato d’animo dei cristiani di Zabut in grave esagitazione.

Era ancora vivo nella memoria, tramandatosi da padre in figlio, il massacro dei Saraceni di questo lato occidentale della Sicilia. Quel massacro avvenuto sul finire del 1243. quando il Conte di Caserta, genero di Federico II, diede il via alla “soluzione della questione saracena” nel Vallo di Ma- zara, lasciò un segno profondo.

La strage a Zabut fu dura. Molti musulmani, o saraceni, furono murati vivi negli intricati cammina­menti del Casale e del Ca­stello di Zabut; i pochi su­perstiti a Nuceria Saracinorum, in Campania.

La cattiva coscienza crea i fantasmi.

Gli abitanti del Quartiere ereditarono quella coscienza che li rendeva impotenti, terrorizzati di sentire le grida dei trucidati o di ve­derne qualcuno, nella fanta­sia alterata dal rimorso, di sembianze erculee e dal ci­piglio minaccioso, terroriz­zare i poveri cristiani.

Tali visioni, in concreto, si rivelavano nella scala esterna che, dalla parte alta­ del Quartiere, conduceva alla base del contrafforte dove, poi, i contadini trova­vano la trazzera per andare nei campi. Era una scaletta dannata. Perché non pochi vi perdevano la vita atterriti di sentire lamenti e grida forsennate; bastava mettere il piede fuori posto in quella ripida “scalidda” per finire nel burrone a strapiombo sotto i bastioni della for­tezza.

Lungo la parete di quella scala i cristiani avevano col­locato, in una nicchia, un’immagine della Ma­donna. chiamata “la Ma­donna della scalidda” per essere protetti contro i dan­nati Saraceni.

Padre Gaspare Paraninfo trovò una soluzione. Va bene l’immagine della Ma­donna; ma non basta. Oc­corre, invece, costruire una chiesa. Ma leggiamo la cro­naca nel latino storiografico del Pirri: “Divae Mariae de Scala, sive de Scalila imago dipincta in loco ob­scuro eiusdam agri, ubi saepe viatores daemonibus, vexabantur et periculis: divinitas inventa, multis praeforget ntiraculis quibus permotus Paranynphus Societatis Jesu nobile extuendum templum cum Societate eu Confratrem quae hodie unc: 46 abet, curavit”.

La traduzione in italiano suona così: “Un’immagine della Vergine Santa, detta della Scala o della Scalilla, fu dipinta sul muro in un posto appartato, dello stesso sito, dove spesso i passanti venivano tormentati dai de­moni o incorrevano in peri­coli; questa immagine rin­venuta in quel posto rifulge per innumerevoli miracoli; sollecitato dai quali. Padre Paraninfo della Compagnia di Gesù, si adoperò di fon­dare un degno tempio con una Società o Confraternita, che oggi è dotata di once 46”.

Durante il corso della predicazione fu raccolto un grosso gruzzolo di denaro. Nel giro di pochi anni sorse la Chiesa del Rosario che si può ammirare a tutt’oggi. eretta sul lato Nord/Ovest del Quartiere.

I bastioni sui quali fu costruita la chiesa non esistono più o se esistono ancora costituiscono le basamenta della chiesa: ma non si vedono.

 Il quartiere dei Vicoli Arabi ormai, in parte, risulta recuperato.  

 Alfonso Di Giovanna

 

Categoria: Storia ComuniTag: sambuca di sicilia, storia comuni

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