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Agrigento. Tempio della Concordia. Le emozioni di alcuni visitatori

8 Novembre 2015 //  by Elio Di Bella

DI ELIO DI BELLA
“Eccolo il tempio miracoloso, detto della Concordia, quasi ancora intatto con tutte le sue colonne, i suoi frontoni, le sue scalinate, solenne, pieno di grazia e di forza e di bellezza, nella sua magnifica ossatura e nel suo stile dorico.
Si va verso di esso in un bisogno prepotente di silenzio, come in un raccoglimento religioso, perché, come dal sogno dei tempi, la vita antica emerge e noi vediamo le folle supplici in festa, vestite di candide stole, coronate di fiori: i sacerdoti che cantano ed immolano le vittime; i cori di giovanetti e di giovanette che accolgono con l’inno di Pindaro il vincitore nei giuochi nazionali; il vincitore che entra in città tra la calca festosa de’ concittadini sul cocchio tirato dagli ardenti destrieri; le statue raggianti dei Numi e sentiamo per l’aria, misto agli odori dei fiori di campo, il profumo degli incensi”.

Tali emozioni diceva di provare il poeta siciliano Giuseppe Longo dinanzi al magnifico tempio della Concordia poco più di mezzo secolo fa ed esse sono certamente pari a quelle impressioni spettacolari che ancora oggi avvertono anche i tantissimi turisti che da tutto il mondo ogni anno compiono il loro pellegrinaggio nella Valle dei Templi.
Lo spettatore che si pone dinanzi a questo maestoso tempio o che ne compia lentamente il giro scopre effetti di potenza e di equilibrio che nessun altro monumento antico in Sicilia riesce a suscitare.
Le sue proporzioni sottendono una segreta musicalità spaziale, un equilibrio straordinario che solo i Greci, cultori eccelsi della matematica e della musica, potevano concepire e realizzare e solo in uno scenario naturale così unico, come la Valle akragantina si potevano pienamente manifestare.

Il tempio della Concordia è senz’altro uno dei meglio conservati fra gli antichi templi dorici del classico periodo edificatorio della Grecia. Fu eretto nella prima metà del V secolo a.C. (probabilmente tra il 440 – 430 a.C.) in una altura naturale, in cui si trovano anche i templi di Ercole e di Giunone. Trentaquattro colonne doriche scanalate, tutte in tufo conchiliaceo, ciascuna di quattro pezzi, si ergono sullo stereobate primitivo, tredici per ogni lato longitudinale, sei davanti e sei dietro, col pronao e l’epistodomo, formando quello che i greci chiamavano Hexastilos Peripteros.
La lunghezza totale del tempio con la gradinata è di metri 42,12, la larghezza di 19,69, l’altezza di metri 11, per complessivi metri quadrati 829,76. La cella in antis rettangolare è lunga metri 28,80 e larga metri 9,30.
Si innalza su un basamento costituito anche da quattro gradini (metri 39,44 per 16,91) e la cui funzione era anche quella di superare i dislivelli del terreno roccioso.

Le colonne hanno 20 scanalature ciascuna ed armoniosa entasi (curvatura della sezione verticale); l’interstizio fra le colonne misura m.1.76, il loro diametro 1,44 e la loro altezza è di m.6,83 capitelli compresi. Le quattro colonne interne (due nel pronao e due nell’epistodomo) sono invece più alte.

Al pronao manca soltanto il tetto che prevedeva tegole marmoree; l’architrave è ornato da triglifi ed è alto metri 2,98; l’Opistodomos (retrocella per il tesoro del tempio) non è intero ed ha le proporzioni del pronao. La cella ha una lunghezza di 28,80 metri ed una larghezza di 9,32 ed agli angoli posteriori, nel muro divisorio che lo separa nel naos, si trovano due scale a chiocciola, giranti nel largo spessore dello stesso muro, le quali dovevano condurre alla sommità della cella, che era certamente coperta da un soffitto piano che è andato perduto. Del tetto è conservato il frontone nei lati est ed ovest.

Il colore del tempio è di un rosso gialliccio poichè è stato realizzato con pietre di qualità arenacea, rossiccia e con conchiglie fossili.

L’esterno e l’interno erano rivestiti di leggero stucco con l’abituale policromia. Fu detto della Concordia perché si trovò nei suoi dintorni una epigrafe dalla quale si ricava che questo tempio fu edificato a spese dei Lilibetani (Lilibeo era l’antica Marsala) in onore della concordia degli Agrigentini, sotto il proconsolato di M. Aterio Candido e Lucio Cornelio Marcello propretore. (Così recitava l’iscrizione: Concordiae Agrigentorum / sacrum / respubblica lilybitanorum / dedicantibus / M. Atterio Candido procons. Et / L. Cornelio Marcello / A. Pr. Pr). Si potrebbe argomentare, pertanto, da questa epigrafe, che sono stati i Romani a mutarne il culto e che questo tempio (prima dedicato dagli akragantini ad un nume di cui non è stato tramandato il nome) da allora sia stato consacrato alla Concordia.
Il tempio della Concordia deve però la sua conservazione oltre che alla sua forte ossatura anche ad un santo Vescovo agrigentino del V secolo, Gregorio II, o Gregorio delle Rape.

Il monaco Leonzio racconta, infatti, che Gregorio, dopo il vittorioso ritorno da Roma (dove si era recato per difendersi dalle infamanti accuse di un certo Leucio) decise di ringraziare Dio consacrando ai Santi Pietro e Paolo il tempio della Concordia, dopo averlo restaurato. Egli chiuse il colonnato con muro tra l’una e l’altra colonna, ruppe il quarto muro della Cella est, ed aprì, negli altri due del nord e del sud, gli archi che tuttora si vedono, in modo che quel tempio divenisse a tre navate, le due laterali nella peristasi e quella centrale che sostanzialmente coincide con la cella, di cui è stato abbattuto anche il muro di fondo per essere adattata alle nuove necessità liturgiche.
Anche le arcate aperte nei muri della cella (dodici per lato), che ancora oggi vediamo, sono il risultato delle trasformazioni volute da Gregorio II.

Anche se successivamente la città di Agrigento si trasferì nella collina, la chiesa continuò ugualmente a funzionare (ma non più come cattedrale, ma come chiesa dedicata a San Gregorio delle Rape) per diverso tempo. Nei secoli successivi vennero fatti certamente altri interventi di restauro. Ci sono noti in particolare i lavori eseguiti nel 1748 dall’architetto delle antichità siciliane Carlo Chenci su disposizione del principe di Torremuzza.
Una grande lapide marmorea fu fissata sul tempio per ricordare tali restauri voluti dal governo borbonico, ma venne tolta qualche tempo dopo.

Nel nostro secolo gli studi e gli interventi conservativi per proteggere sempre meglio questa eccezionale testimonianza dell’arte greca sono stati numerosi.

Categoria: Agrigento RaccontaTag: agrigento arte

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