Il pendio a sud della storica Rupe Atenea, dove al presente sono il palazzo, il giardino e l’arena Bonsignore, la Villa Altieri e il Viale Cavour, era, prima del 1860, occupato da piante di fichi d’India e da alquanti alberi di mandorlo. E sopra il tratto retto, a sinistra della strada rotabile, che conduce alle rovine di Agrigento, poco lungi dalla chiesa di San Calogero, vi era costruito, di fronte al mare, un sedile di pietra arenaria, lungo circa quindici metri, sul quale si saliva con sei gradini. Esisteva nel sito stesso, dov’è oggi la villa Picone, un piccolo orto botanico di erbe e piante medicinali, circondato di muri.
Nella parte inferiore, a sud della strada, si vedevano la chiesa ed il convento dei Cappuccini, trasformati nel 1872 in distretto militare, con la estesa selva chiusa in un muro, e circondata nell’interno da grandi alberi di cipresso, distanti alquanti metri l’uno dall’altro.
Ad occidente, nel sito nel quale sono oggidì la casetta del dazio di consumo e il piccolo piazzale con ringhiera di ferro, davanti la porta della casa Grasso, esisteva da tempo immemorabile un emiciclo di pietra arenaria, luogo di riposo e di ritrovo dei nostri maggiori, che andavano a passeggio, di mediocre grandezza, con un sedile tutto attorno nella parte interna, della stessa pietra, che si appellava: Rotonda (ù tunnu) e che fu sotterrato, quando si eseguì la livellazione di quella parte del piano.
Tale e quale l’ho descritto ora, era, o lettore, quel tratto della rupe Atenea, oggi mutato in un viale ridente e pittoresco; e tali e quali te le ho accennate, erano le adiacenze, oggidì sparse di ville e di palazzi.
La sistemazione del pubblico passeggio, che si appella Viale Cavour, fu incominciata nell’anno 1848. In quell’anno fu eseguito il taglio della base del monte; e nell’anno 1855 fu restaurato e compiuto, per opera di Diego Sartorio, aiutante di campo nel reggimento di fanteria, in quel tempo dimorante in Girgenti, per mezzo dei soldati tagliapietre e muratori, e per fare una cosa grata ai girgentini, muro a sinistra della strada rotabile sottostante, gran parte del quale era di pietre a secco. E nello stesso anno egli fece incominciare lo scavamento per il grande emiciclo. La decuria, con la deliberazione del 19 Settembre 1855, gli esternò le più vive espressioni di grazie.
Il prolungamento e l’abbellimento di quel magnifico viale sono stati vivo pensiero di tutti gli amministratori del comune. E a questo fine, nel 1870 e poi nel 1871, si procedette alla espropriazione e all’acquisto delle terre vicine. Le prime colonne e le ringhiere di ferro, che formano il parapetto del marciapiede, lungo il muro della strada rotabile, furono poste nell’anno 1873, e in seguito, perché malandatevennero sostituite dalle attuali.
Quel pubblico passeggio con l’emiciclo, decoro della città e delizia dei cittadini, è stata opera di molti anni, ed é costato non poca spesa all’erario comunale, nell’anno 1911 per il taglio di parte della collina argillosa, che esiste tra la Villa Picone e quella di Alessi, per la livellazione di quel bellissimo terrazzo, e per la istruzione del muro di sostegno, si spesero settantacinque mila lire.
Tutto in quei lembo della Rupe Atenea e cangiato e abbellito: tutto oggidì in quel sito é ameno e suggestivo. Fra mezzo secolo sarà il luogo più bello di Girgenti, perché qui vi si svolge con lusso la città, e vi sorgeranno case e ville, come quelle di Bonsignore, di Altieri, di Picone, di Alessi, di Agozzino, di Contino e di Catalisano.
Quell’ampio viale, fiancheggiato da marciapiedi e abbellito a sinistra da due file di grandi alberi, che levano in alto i frondosi rami, con l’immensa distesa del mare azzurro a sud e ad ovest, é veramente delizioso. Va, o lettore, nei giorni belli dell’inverno al Viale Cavour, e guarda il grande emiciclo, che é scavato nel monte e che può contenere circa duemila persone. E’ un’opera colossale! Nel centro di esso fu collocato il mezzo busto del grande statista italiano, Camillo Cavour, scolpito dallo scultore palermitano Delisi.
Qui la sera, in tutte le domeniche e i giovedì dell’estate, sotto il firmamento brillantato di stelle, e nel pomeriggio delle domeniche nei bei giorni d’inverno, di fronte al ceruleo mare pieno di fascino, la banda cittadina o la militare eseguono scelta musica e attirano ogni classe di persone.
Va, e dal punto nel quale furono nell’inverno del 1911 piantate le palme, volgi gli occhi a sud, e guarda il magnifico panorama. Se l’anima tua vibra allo spettacolo delle belle scene della natura, proverai gratissime e svariate sensazioni. Guarda in quel punto, dove si erge intero ancora quel magnifico tempio pieno di semplicità, di maestà e di grandezza: é il tempio detto della Concordia. A tanti secoli di distanza, quel tempio, e l’altro non molto lontano detto di Giunone Lacinia, e le rovine gigantesche e superbe, che sono in quel luogo, parlano alla memoria e all’immaginazione. E non fa bisogno che tu sia fornito di studi classici per ammirare, pensare e meditare.
Grande era lo splendore di quei tempi, e degli altri dei quali ammiriamo le rovine, coi tetti, le pareti e le colonne rivestiti di stucco e con rilievi di rosoni, di fogliami e di altri ornamenti artisticamente lavorati e colorati in giallo, verde, rosso, turchino!
In quel luogo, venticinque secoli addietro, esisteva nel maggior suo fiore una città vasta, potente e meravigliosa per la magnificenza dei palazzi privati e la maestà dei pubblici monumenti: era la città di Agrigento.
Una folla di memorie risveglia alla mente il nome di quella città sparita! Con i suoi borghi, che si estendevano sino al mare, contava duecento mila abitanti. Presso la foce del vicino fiume possedeva un approdo, asilo ai numerosi legni propri e degli stranieri. Attivissimo era il suo commercio con la Libia e con la Grecia: florida la sua industria; e coltivate erano dai suoi cittadini le scienze, le arti e le lettere. Gli abitanti erano ricchissimi.
Quando l’agrigentino Esseneto ritornò in Agrigento vincitore dalle gare di Olimpia, gli andarono incontro trecento cocchi, tirati da cavalli tutti bianchi, di proprietà degli agrigentini.
Quando si celebrò il matrimonio della figlia del ricchissimo Antistene, fecero corteggio agli sposi mille carri e numerosi cavalieri, e pubblici banchetti a sue spese furono dati ai cittadini per tutte le vie della città. E il ricchissimo Gellia teneva i suoi servi in tutte le porte della città, con lo scopo d’invitare a casa sua tutti i forestieri che venivano in Agrigento!
Guardando, dal punto dove termina il viale, quell’incantevole panorama, scorgerai a sud un giardino circondato di muri e adornato di cipressi: é il camposanto di Girgenti. Non ti corrucciare, o lettore, se per qualche minuto fermo il tuo pensiero sopra un lugubre argomento.
Quel cimitero risponde ad un bisogno, che era sentito dai girgentini. Girgenti, infatti, non aveva un camposanto prima del 1860. Malgrado la legge del 17 Marzo 1817, che ne prescriveva la costruzione fuori dall’abitato a tutti i comuni, i morti si seppellivano nelle chiese dentro la città, col pregiudizio della pubblica igiene, e poi fuori l’abitato nelle sepolture dei conventi dei Cappuccini e di San Vito, mediante un compenso in denaro, che si pagava ai frati. E quando le sepolture si riempivano di casse mortuarie, erano man mano vuotate, e gli scheletri venivano sotterrati negli ossari delle selve.
Fu nel 1836, per paura del colera, il quale nell’estate del 1837 fece una disastrosa invasione nella nostra città, che l’intendente della provincia propose alla decuria la costruzione di un camposanto presso la Rupe Atenea, e che fu costruito. Ma quel camposanto non fu altro che una grande fossa comune, con un’area insufficiente per Girgenti, senza muri e di figura meschina, e in un sito inopportuno. Nessuna tomba, nessuna lapide, né cipressi, né fiori adornavano quel luogo sacro alla morte. Ne avevano cura un custode, che era un frate laico ed un cappellano, retribuiti dal comune con ducati 60 ciascuno l’anno. Il trasporto dei morti poi era uno spettacolo che sconcertava la fantasia. I morti delle famiglie civili erano trasportati di sera per la via Atenea, a spalla, dentro casse, precedute da un lungo stuolo di operai con in mano torce accese.
E i morti appartenenti alle famiglie del popolo venivano trasportati di giorno, sopra un cataletto, con il corpo coperto da una coltre e col viso scoperto! Oggidì il trasporto dei morti al cimitero si fa di giorno con carri funebri decentissimi, i quali eccitano nello spirito dei riguardanti sentimenti di religioso rispetto. E’ incredibile il terrore che ispirò ai nostri padri il colera dell’estate del 1837, che diede la spinta della costruzione del cimitero presso la Rupe Atenea. Quel flagello, il quale nelle lordure e nelle immondezze della città trovò favorevoli condizioni per il suo sviluppo, fece una strage così immane, che decimò addirittura la popolazione. E la paura s’impadronì talmente delle anime dei cittadini, che ogni faccenda fu abbandonata, la vita sociale sospesa, e non si pensò ad altro durante l’epidemia, che alla propria conservazione e alla morte.
Il consiglio comunale nell’anno scorso, 1912, deliberò di ampliare l’odierno camposanto, e all’uopo furono acquistati quattro ettari di terreno dei proprietari vicini per £. 22.000, e si concessero ad appalto le opere di ampliamento per £. 28.000. E tutto ciò merita l’applauso dei cittadini. Il rispetto e la pietà verso i morti é religione, progresso e civiltà.
Francesco Paolo Diana 1912