
U “Zu Peppi Giaracannà”
Dai miei ricordi d’infanzia
di Franco Tedesco , marzo 2011
Due cose mi colpirono subito quando a sette anni andai ad abitare in via Maddalusa, allora insieme al vecchio lungomare, il cuore di San Leone,: Muzuzù e Giaracannà. Muzuzù era un cane di bassa
statura, pezzato come una iena, dall’aspetto simile al boxer; ebbe l’onore di rappresentare il mio primo approccio diretto con la specie canina. Si diceva fosse un cane africano, rientrato da Tripoli con il suo padrone . E ciò nelle mie fantasie lo rendeva più affine ad una bestia feroce che ad un cane. Ne ero terrorizzato.Ero ancora un bambino di città che, venendo da quel momento in poi, a contatto con un ambiente naturale straordinario, qual era quello della Maddalusa,tra mare, fiume, bosco e superbe dune di sabbia, avrebbe poco a poco, mutato il suo atteggiamento nei confronti della natura e acquisito un particolare “imprinting”, che avrebbe , forse per sempre, influenzato il mio carattere. La nostra villetta era in fondo alla traversa ed il solo pensiero di dover passare davanti il cancello di Muzuzù per andare sulla strada principale mi procurava una terribile ansia. La paura di poterlo incontrare per strada incombeva su ogni mia attività e limitava il mio orizzonte al vialetto di casa. A poco a poco, grazie all’amicizia che instaurai con i figli del proprietario del mostro, superai la mia paura e d’incanto si allargò il mio confine. Iniziai così ad avventurarmi da solo nei dintorni.
La zona non era ancora molto abitata e soprattutto dovevano ancora insediarsi nelle vicinanze i miei cugini , Ciccio, Annamaria e il mio amico Paolo.Un giorno, durante uno dei primi approcci con il mondo al di fuori della mia traversa, mentre attraversavo il vecchio ponte di Maddalusa, notai una figura esile che pescava dalle sponde del fiume come mai avevo visto fare prima . Rimasi stregato dall’eleganza dei gesti. Il rizzaglio veniva abilmente raccolto sul braccio sinistro con la stessa cura e delicatezza che dedicherebbe un paracadutista nel ripiegare il suo attrezzo. Lo osservavo mentre teneva un braccio sollevato poco sopra la spalla a sostenere il peso della rete aperta a ventaglio e l’altro a serrarne stretto un bordo, quasi a formare un cerchio con l’altro, pronto per il lancio. Un altro passo, il corpo si piegava leggermente all’indietro ruotando lievemente a sinistra e poi ancora verso destra, solo adesso, con mossa rapida e decisa, così come il gesto di un discobolo, il braccio destro si allargava formando nell’aria un cerchio perfetto. E lui, il rizzaglio,si animava, volava in aria allargandosi come un fuoco d’artificio per poi, gravato dai suoi pesi, ricadere, trappola mortale, in acqua.
Era allora che u “Zù Peppi Giaracannà” con studiata lentezza raccoglieva a se la rete ed essa, man mano richiudendosi, imprigionava piccoli pesciolini, perlopiù cefali e qualche spigoletta predatrice entrata dal mare per cacciare altri suoi simili.
Non perdevo un lancio. Quella serie di movimenti simili ad una danza, mi affascinavano terribilmente. Ad uno ad uno,dopo averli districati dalla rete, “U Zù Peppi” raccoglieva i pesciolini e li faceva sparire all’interno di un largo tascapane, lurido, sdrucito, dal colore indefinibile . Mi notò e quando scorsi tra le rughe di quel viso antico un sorriso incoraggiante, mi avvicinai. Confesso che non riuscivo a comprendere bene il suo siciliano stretto, anche lui lo capì. Mi sfuggivano parecchi vocaboli, la mia educazione intrisa dell’ancora fresco, indimenticato idioma piemontese della mia giovane mamma , non concedeva molto al dialetto, ma “U Zu Peppi” , accolse con taciturna benevolenza la mia presenza, forse desideroso di una compagnia silente ma contemplativa come la mia. Presi così l’abitudine di seguirlo nella sua pesca quasi ogni pomeriggio. Giorno dopo giorno diventammo amici, tanto che u “Zu Peppi” mi lasciò provare a lanciare il rizzaglio, senza valutare che non avrei mai potuto avere le forza necessaria per imprimere la rotazione alla rete inzuppata d’acqua.Un giorno credo proprio che volle sorprendermi; due piccoli granchi, bianchi, quasi trasparenti si dimenavano tra le maglie della rete impigliandosi sempre di più.
dondolarsi in quello specchio d’acqua, una lancia in legno vivacemente colorata con un uomo, magro e scavato in piedi a prua, che, con occhi felini ereditati da generazioni di pescatori, riusciva ad individuare, arpionandoli i polpi, mimetizzati tra le pietre. In quei gesti ora lenti ora rapidi, ma sempre precisi, immersi nel silenzio che esaltava i rumori ed anche gli odori del mare, in quei mezzi così semplici, quasi immutati nella loro sostanza, c’era qualcosa di ancestrale che si perpetuava nonostante lo scorrere dei millenni. Lo vedevi li ritto, a prua a scrutare il fondo e pilotare la barca che avanzava con la debole corrente della marea,attraverso i movimenti delle anche che si trasmettevano ai piedi e… Zaffete! Spingeva con decisione sul fondo il bastone e lo ritirava quasi sempre con qualcosa di informe che si dimenava sul tridente. era allora che assestava un potente mozzicone tra gli occhi della bestia per finirla!Cominciai a praticare casa sua quando sua moglie, donna Luzza, divenne la nostra persona di servizio. Aiutava mia madre nelle faccende domestiche che non le mancavano di certo con quattro figli. In quel periodo iniziò la mia passione per la pesca subacquea. Un giorno particolarmente fortunato, riuscimmo, con Paolo e mio cugino Ciccio, a catturare più di sessanta chilogrammi di polpi. Non sapendo cosa farne, lasciatane da parte una quantità per noi, trovammo subito l’acquirente. U Zù Peppi Giaracannà ci acquistò il pescato e… Più tardi, dimenticando chi fosse stato il fornitore, u “Zu Peppi” passò da mia madre cercando di vendergliene qualche chilo dieci volte più di quanto lo avesse pagato a noi! Gli anni passavano e Giaracannà non sembrava invecchiare. Non avrei mai potuto immaginarlo bambino, nè vecchio con i capelli bianchi, “U zu Peppi” era un’icona, lui era Giaracannà e Giaracannà era fatto in quel modo, da sempre e per sempre. Ogni mattina , prima delle sette, accompagno la mia cagnolina a passeggiare alla Babbaluciara, a riprendere il viaggio della mia infanzia e scruto sempre quella parte della costa che ancora non sa se essere mare o fiume per tuffarmi nei miei ricordi. Forse un giorno rivedrò ancora la barca di mille colori e mille rughe dondolarsi dolcemente sotto il sole.
ricordi di Ettore Castagnola
Ero bambino la prima volta che lo vidi: ritto sulla prua della nera barchetta, immobile, lo sguardo fisso a scrutare il fondo del mare dove certamente qualcosa si muoveva fra i ciottoli. Forse era un polpo e lui attendeva, fiocina alla mano, che uscisse dall’abitacolo che lo nascondeva.
Aveva alcunché di primitivo quell’uomo solitario che viveva in simbiosi col mare, solo nelle ore di riposo, si rintanava in una capanna netta di frasche lì, a due passi dalla spiaggia.
Lo rividi da adulto, or non è tanti anni, una mattina di primavera che ero sceso alla marina di San Leone.
Col berretto di lana sul capo se ne stava accoccolato sul ciglio di un ciottolo lo so pendio, digradante sino al mare. Immobile stringeva beatamente fra i denti il cannello della sua pipa di terracotta. Due vistosi baffi neri incorniciavano il suo volto scavato dalla salsedine dal sole. Le palpebre semichiuse difendevano dalla luce accecante gli occhi.
Approfittare dell’occasione: svelto trasse di tasca il mio fedele blocchetto degli schizzi e fui lieto di fissare su di un foglio le fattezze di quell’uomo singolare che chiamavamo “Giarracannà” e che del luogo era ormai il simbolo. E con lui anche la sua barca era diventata simbolo di quel luogo marino che allora allineava lungo il litorale non più di una decina di case.
Peraltro, di quella nera, continuamente invecchiata barchetta, che stava sempre lì a dondolare pigramente presso la riva, l’immaginario popolare va fatto un punto di riferimento, il termine di paragone anche per definire il deambulare, il modo di muoversi di talune persone, appunto “come la barca di “giarracannà”