EMPEDOCLE, OLIMPIONICO DELL’ANTICHITA’
Lo spirito pacifico dei giochi sportivi, visti come insopprimibile fratellanza tra i popoli, risale alle origini delle città-stato della Grecia e trova antecedenti già nell’uomo delle caverne.
Tutti i greci, con spirito unitario nazionale, si fermavano ogni quattro anni, cessavano anche le guerre, per onorare Giove nella città di Olimpia. La tradizione risale ad Ifito e Licurgo nell’880 a. C. e, considerata la importanza, dal 776 le Olimpiadi divennero la base della cronologia antica, sino al 4° secolo d.C. I giochi si aprivano con cerimonie religiose e con sacrifici, e gli atleti partecipanti giuravano davanti a Giove di comportarsi con onore: il loro premio era una corona intrecciata coi rami di un sacro ulivo selvatico.
Seguivano, dopo le premiazioni, sontuosi banchetti, allietati da suoni e danze, nonché da declamazioni da parte di poeti.
L’antica Akragas (Agrigento) aveva forti tradizioni olimpioniche e partecipò sempre ai giochi, portando varie volte alla vittoria i suoi atleti.
Pindaro cantò nei suoi inni le gesta sportive dei protagonisti dei giochi, e, tra gli altri, celebrò il tiranno di Akragas, Terone, vincitore ad Olimpia nella corsa dei cavalli.
Anche Simonide di Ceo (morto ad Agrigento) e il nipote Bacchilide celebrarono con inni ufficiali i vincitori di Olimpia, sia pure con accenti diversi di quelli di Pindaro.
Empedocle non fu soltanto un grande filosofo della natura, medico, biologo, ingegnere, oratore e retore, ma partecipò anche e si distinse ai giochi di Olimpia , come afferma Satiro nelle Vite: vinse con il celete, così come il nonno Empedocle il vecchio, prima di lui, e il padre Metone.
Favorino nelle Memorie ricorda che in quell’occasione, Empedocle avesse festeggiato offrendo un grande bue di miele e farina. Proprio relativamente a quell’Olimpiade, si tramanda che il rapsodo Cleomene abbia recitato di Empedocle il poema, Le purificazioni, e pare che il pubblico ne sia uscito commosso, tributandogli il massimo riconoscimento. Empedocle, inoltre, fu un grande democratico e, pur appartenendo ad una famiglia aristocratica, lottò a favore dei diseredati. Coerente negli atteggiamenti, quando gli fu offerta la corona reale, vi rinunciò, insediando un governo di mille persone. Ma ciò non riuscì a salvarlo dalla reazione dell’oligarchia di Akragas, che lo fece condannare all’esilio.
Le fonti – Diogene Laerzio in particolare- evidenziano dubbi intorno alla sua morte, avvenuta con la caduta, per suicidio rituale o per imprudenza, in un cratere dell’Etna, oppure dovuta alla caduta dal suo cocchio, o in ultima analisi per vecchiaia nel Peloponneso, dove s’era ritirato in esilio.
di Ubaldo Riccobono