E’ ritenuto il più antico tra i templi dorici dell’antica Akragas e gli studiosi sono certi che questo tempio descrive Cicerone, sebbene piuttosto controverso appare il passo delle Verrine (Ercules templum est apud Agrigentinos non longe a foro, sanes anctum apud illoso et religiosum: Il tempio agrigentino di Ercole non è distante dalla piazza, certamente è ritenuto santo e sacro presso gli Agrigentini) per quel riferimento al Foro dell’antica città.
Sino a poco più di 70 anni fa, il visitatore che si avventurava in questa estremità sud del pianoro, a non più di trecento metri dal tempio della Concordia, si imbatteva solo dinanzi ad una vasta confusione, costituita da un mucchio disordinato di colonne, capitelli, trabeazioni, tamburi, metope e triglifi.
Solitario si innalzava tra quelle macerie un torso di colonna (il secondo da ovest del lato est) e si intravedeva una gradinata.
In questo stato ci presentano il tempio soprattutto i pittori come Houel e gli archeologi come Politi ancora all’inizio del secolo scorso. Fu probabilmente un terremoto ad abbattere il tempio. Finalmente nel 1832 venne ordinato lo sgombero degli avanzi ed allora la pianta del tempio si presentò in tutta la sua grandezza e ci si rese conto di trovarsi dinanzi al secondo maggiore tempio, per dimensioni, dopo il tempio di Giove, innalzato dagli Agrigentini.
Quasi cento anni dopo, nel 1922, il capitano sir Alessandro Hardcastle finanziò e seguì personalmente i lavori per rialzare otto colonne sul lato sud-ovest del tempio. E benché sulle colonne non vi siano più le metope, i triglifi e il cornicione, tuttavia si può ritenere quasi completo il lato orientale del tempio di Ercole, dove è stato anche scoperto lo stilobate. Questo tempio misurava in lunghezza 73,42 metri e in larghezza 27,56 metri, con colonne alte più di dieci metri.
Altri lavori e studi più avanzati vennero eseguiti pochi anni dopo sotto la direzione dell’archeologo Pirro Marconi. E’ stato così appurato che esso rappresenta un’innovazione rispetto alla prassi architettonica del VI secolo a.C., epoca della sua costruzione; anche se sulla datazione è sorta nel tempo qualche discussione tra gli esperti a causa di alcuni ritrovamenti non sempre facilmente databili). Per cui, secondo alcuni studiosi la sua fondazione risalirebbe piuttosto al periodo precedente la battagli di Imera (480 a.C.), ma il completamento sarebbe da collocare nel decennio dopo, o poco più.
Venne usato per scopi religiosi anche dai Romani.
Era un periptero-exastilo-hipetras, cioè a colonnati e scoperto, come quasi tutti i primitivi templi dorici, con peristasi di 6 X 15, con cella munita di pronao ed opistodomo in antis. L’alta piattaforma rettangolare su cui si innalzava il colonnato misurava metri 73,95 in lunghezza e 27,78 in larghezza. La cella era lunga metri 47,67 e larga metri 13,90.
Tra il pronao e la cella vediamo anche in questo tempio quei piloni con una scaletta che sono presenti anche in altri templi dorici agrigentini e che servivano a raggiungere il tetto. Le colonne e i loro capitelli assai espansi sono indizio del relativo arcaismo del tempio.
E’ stato costruito con pietre estratte dalla Rupe Atenea e dalle rocce circostanti; uno stucco fine e liscio, sul quale sono state ritrovate tracce di colore giallo pallido, rosso vivo e blu splendente, ne faceva sparire l’eccessiva porosità. Ma le modanature superiori dei cornicioni erano realizzate in pietra dura di grana molto fine e decorate con fregi, alcuni dei quali scolpiti con modesto rilievo, altri soltanto lisci. I disegni erano resi evidenti come sui monumenti marmorei di Atene, per mezzo di colori applicati direttamente sulla pietra.
Si dice che in questo tempio esistesse un artistico dipinto di Zeusi che rappresentava Ercole bambino in atto di strangolare due serpenti, mentre il possente Giove, attorniato da altre divinità, ammira la straordinaria impresa. Anche i genitori di Ercole, il padre Anfitrione e la madre Alcmena, lo ammirano sorpresi e trepidanti. E’ stato Plinio a descriverci l’opera: “Magnificus est Iuppiter eius in trono, astantibus diis, et Ercules infans dragones strangulans, Alcmena matre coram pavente et Amphitryone”(Magnifico è il suo Giove in trono, attorniato dagli dei, ed il piccolo Ercole che strangola i serpenti dinanzi alla madre Alcmena impaurita ed Amfitrione).
Un’opera stupenda che Zeusi donò agli Agrigentini perché d’inestimabile valore: “Donare opera sua instituit, – scrisse Plinio – quod erat nullo satis digno pretio permutari posse diceret” (Decise di donare la sua opera perché diceva non poter essere permutato ciò che non era di nessun prezzo degno). Nel tempio di Ercole si venerava una stupenda statua di bronzo del dio che destò l’ammirazione di Cicerone, il quale sottolinea di non aver visto al mondo nessuna opera d’arte più bella di questa: “Ibi est, ex aere simulacrum ipsius Herculis, quo non facile quidquam dixerim me vidisse pulcrius usque eo, ut rictum eius ac mentum paullo sit attritius, quod in precibus et gratulationibus non solum id venerari, verum etiam osculari solent” (Qui si trova un simulacro di bronzo dello stesso Ercole di cui non facilmente io potrei dire di aver visto qualcosa di più degno, a tal punto che il suo mento era stato abraso, giacchè i fedeli sogliono durante le preghiere e i ringraziamenti non solo venerarlo, ma anche baciarlo).
Tante straordinarie ricchezze non potevano sfuggire all’ingorda rapacità del pretore romano Caio Verre, il quale voleva impadronirsi della statua di Ercole per mezzo dei suoi emissari, guidati da Timarchide. Il colpo venne tentato di notte, ma i ladri non riuscirono a rimuovere la statua e le guardie, che sorvegliavano il tempio, avvertendo rumori sospetti, scoprirono i malfattori e diedero l’allarme. Molti cittadini lasciarono le case ed accorsero, costringendo alla fuga i ladri, salvando la statua d’oro.
DI ELIO DI BELLA