Apelle Politi
Riassunto: l’autore descrive brevemente le ragioni di edificazione e decadimento del tempio di Giove Olimpico in Acragante, passa in rassegna le varie ricostruzioni dovute a diversi ricercatori e ne propone una propria, discutendone la genesi e i significati.
Di tutti i tempi dorici della Magna Grecia, il tempio di Giove Olimpico di Akragas, e quello che per l’originalità della sua struttura e della sua architettura decorativa, merita di essere distinto come il tempio classico per eccellenza.
Ciclopico tanto da contendere, nell’ordine della grandiosità di primato a quello di Efeso nella ionica, la sua edificazione, più che in una pura e semplice ragione religiosa, va vista in un tornaconto politico.
E come l’interesse politico a fare stupire con la grandiosità, determinò la ciclopicità della mole, così l’onore toccato all’artista di essere prescelto a tanta meraviglia di monumento, fu ciò che cotanto generalmente gli assillò la fantasia a creare l’originalità tipica.
Infatti la Grecia, tanto per le condizioni orografiche del continente, come per le numerose serie di piccole medie e grandi isole che ad eccezione del Nord la circuiscono, ab antico ebbe una vita storica assai particolareggiata ed autonoma, con ovunque re e tiranni che governavano stati, isole e città autocraticamente, tra agitazione guerre sanguinose, generate il più delle volte da fu utilissima questioni.
E benché sin dalla più remota antichità, esistessero le Anfizioni, le leghe religiose cioè che avevano il fine di cooperare all’affratellamento dei popoli, pur tuttavia nel campo politico riporta l’Hertzberg (1)
“Giammai la federazione ebbe ingerenza né nel tenere insieme i vari Stati, né nel comporre i loro dissidi. Essa si mantenne a questo solo patto, che in caso di guerra fra le diverse città, quella che apparteneva agli Anfizioni non potesse essere distrutta né privata d’acqua”in età meno remota poi, il grande legislatore Licurgo (884 avanti Cristo) al fine di avvicinare i popoli così belligeranti della Grecia, per via di un legame puramente ideale, da dà notizia lo stesso storico:
“… Concluse con Ifito discendente di Oxilo un trattato che permise anche ai Lacedemoni di intervenire in Olimpia alla festa religiosa di un popolo non dorico del Peloponneso. Gli Etoli conquistatori dell’ elide che se non posted’un’antica festa accompagnata da giochi ginnasti e connessa alla leggenda d’Ercole, che erano usi a celebrare a Giove Olimpico di Ache di Pisa presso la foce del Cladeo nella bassa vallata dell’Alfeo, popolo soggiogato da questi Etoli.
Come essa divenisse contempo internazionale, E quanta importanza avesse Per tutto il mondo greco, basti osservare che ai periodi fissi di siffatta festa si appoggiò l’unica cronologia, che col tempo fu riconosciuta generale per tutti i greci. L’ultima volta venne solennizzata nel 393 dopo Cristo. Da quest’anno in su i greci contavano fino alla Olimpiade divenuta celebre per la vittoria di Corebo nell’Elide , 776 avanti Cristo (2)”.
“Ne era cominciato ancora il secolo settimo che già tutta la Grecia vi conveniva. I dori al di là del Mare Egeo, la gagliarda nobiltà dell’attica, le illustre stirpi dei Joni dell’Asia, i forti cavalieri della Tessaglia, i Sichelioti e gl’italioti stessi non tardarono a mettersi sulla via che conduceva al piano del basso Alfeo. Così nel settimo secolo avanti Cristo – sull’esempio di Licurgo – La festa religiosa di Giove Olimpico era divenuta una solennità pan ellenica (tre)”.
Né per tanta festa salì solo infama Olimpia, ma il villaggio di Antela, vicino ad Atene, l’isoletta di Delo, le città di Efeso, di Kimdo, di Crotone ed altre ancora, celebravano feste religiose pan elleniche, per mire politiche commerciali, e Delfi soprattutto divenne di tale rinomanza che la sua femme oltrepassò i confini della Magna Grecia.
E l’Hertzberg fonte magnifica considera: noialtri moderni siamo stati usi, per molto tempo, a considerare L’oracolo delfico come una impostura di sacerdoti. Eppure non è così.Ei non si trattava punto, nei migliori giorni di quel santuario, di scrutare l’avvenire per mezzo dell’oracolo. Si trattava invece di questo, che per molte contingenze della loro vita pubblica e privata, i greci volevano avere un consiglio imparziale avvalorato dall’autorevole intervento della divinità. E senza dubbio i sacerdoti di Delfi, per secoli interi, ebbero la piena e onesta coscienza di essere in grado di conoscere realmente il parere di Apollo e di dare coscienziosamente il parere richiesto.
Così nel campo politico era a Delfi che molte volte si doveva la savia direzione data alla fondazione di colonie greche. Insomma Nell’ottavo, nel settimo il sesto secolo avanti Cristo, dopo la riforma di Licurgo, in tutta la Grecia non vi fu un’importante istituzione, non una grande impresa, le quali non fossero precedute dal volere di Apollo, del profeta del sommo Giove. Gli stessi re popoli stranieri ricorrevano a lui. Finalmente non è da tacere che Delfi col tempo divenne il centro d’un gran traffico pecuniario, in quanto che parecchi Stati greci solevano deporvi i loro tesori (quattro)”.
Ora, nell’interesse di creare in Sicilia una fervente vita pan ellenica, con suggestioni ante potere spirituale, ed esercitare una potente influenza politica con un vincolo di continuità produttrice di ricchezza in tutte le attività, fu certamente deliberata l’erezione dell’immane nostro tempio, opportunamente consacrato al padre degli dei e degli uomini, e ciò tanto più che Acragante, trovandosi al centro della costa Meridionale della Sicilia costituiva il centro del Mediterraneo, e senza tema di errare possiamo affermare che bene vi si scorgeva un luogo strategico di grandissima importanza, ed un luogo sempre provvidamente provvido ad apprestare Aiuti ai naviganti che continuamente battevano il mare per recarsi nelle colonie che le coste tutte del Mediterraneo cingevano.
E la sacra ciclopica casa acragantina del grande dell’Olimpo, cominciata nell’edificare nel 480 avanti Cristo, dopo la celebre vittoria di Imera, divenne un fatto compiuto, che anzi mentre lo storico Tommaso Fazello (5), che nei riguardi di essa ci ha tramandato il più delle notizie dice che: “La guerra cartaginese (406 avanti Cristo) fu cagione, che non si finisse il tetto, che si era cominciato prima che la guerra si muovesse (6)”, la relazione che dopo recentissimi scavi ha fatto l’archeologo Pirro Marconi, ci fa consapevoli che quella copertura non mancava, giacché nella relazione è:
“lo scavo lungo il lato meridionale del tempio ha dato una sorpresa,…
Una quantità assai considerevole di resti – (centinaia di pezzi, piccole e grandi) – di tegole rettangolari, piane, con nervature agli orli, Del solito tipo in uso dell’architettura greca del sesto secolo avanti Cristo e tre frammenti di cui due cospicui, di grandi dei coloni ricurvi, di dimensioni notevolissime, accuratamente policromate (7).
La rovina.
Il tempio divenne una distesa di rovine in prosieguo di tempo, giacché in Fazello e detto:
una parte che era appoggiata a tre giganti, e da certe colonne, stette gran tempo in piedi, la quale tenuta dalla città di Agrigento per memoria e l’hanno aggiunta alle loro bandiere”.
E continua:
“in quel tempo che questa fabbrica rovinò, trovossi un certo poeta, che descrisse quella rovina con questi versi:
Quelle rovine venerande e belle
Che dell’opre famose, e degli alteri
Edifizi e superbi, e delle immense
Ricchezze tue, o glorioso e chiaro
Agrigento, facean memoria e fede,
E delle tue virtudi erano illustri
Testimoni, son’ora, ohimè, per terra.
Chè sotto il pondo delle gravi e immani
Mura, piegando i tre giganti il collo,
E le ginocchia e le robuste spalle,
ch’eran di quella mole alto sostegno,
Misere andar nella rovina estrema.
Ove son or le meraviglie tue
O regno di Sicilia? Ove son quelle
Chiare memorie, onde potevi altrui
Mostrar per segni le grandezze antiche?
Ohimè, ch’oppresse dalle ingiurie gravi
Di vecchiezza, e di tempo, or son sepolte
Sotto a brutte rovine, e ‘l dì funesto
Ch’elle andaron per terra, il dì fu nono
Del mese di dicembre, e della nostra
Salute l’anno si volgeva intorno
Mille quattrocent’uno, nel quale il tempo,
Nimico al tuo splendore, andò superbo
Trionfatore delle miserie tue,
E dei tuoi danni si mostrò giocando. (8)
Viva pittura, che con la bellezza del tempio, ricchezze magnificenze la città, ci precisa l’anno, il mese il giorno della totale caduta del venerando dell’umbro e ci tramanda oltre che esso cadde: “… oppresso dall’ingiurie gravi
Di vecchiezza e di tempo…”
Verità questa che non è tutta la verità, ma solo parte la verità, perché la cagione capitale del crollo del colosso classico dell’architettonica Templare greca, va vista in un accertato esquilibrio statico, sul quale certamente meglio poterono la vecchiezza e la mano inesorabilmente vandalica del tempo.
Il nostro Giove Olimpico, secondo scaturisce da ponderare considerazioni, non fu l’opera di un vero e proprio architetto, ma concezione geniale di un non acragantino celeberrimo scultore, che venne ad unirsi per l’attuazione del suo progetto ad un valentissimo costruttore di condotti sotterranei, che non certo scevro di talenti edilizi, in Acragante veniva apprezzato come architetto.
Infatti la struttura delle sue 38 più che mezze colonne, addossate al muro perimetrale, riprovevole imitazione del sistema assiro, costituisce un’eccezione fra tutte le colonne che la greca antica architettura presenta, Poiché esse invece di essere monolitiche composte dei soliti pezzi detti a tamburo, erano formate da cunei relativamente assai piccoli, che si sovrapponevano a strati orizzontali alternandosi nelle con tinture verticali ed aderendo ad un nocciolo interno, politico nato a forma di più che se mi ottagono, o ad altra forma di più che è semi cilindro.
Queste pseudo colonne alte ad un di presso metri 11,80, zoccolo e capitello esclusi, che al sommoscapo avevano un diametro di metri 2,92, all’imoscapo di metri 3,48, rastremate senza entasi, e nelle quali si contavano in ogni singola, due non intiere e nove intiere scanalature, del diametro medio di cm 32, vale a dire capaci di contenere come nicchie nove persone, e che venivano formate da non meno di 22 strati di cunei, queste colonne in unità al poco relativamente spesso muro e dagli immani capitelli, formati da due pezzi a combaciare verticalmente, abaco escluso che era di tre pezzi, cedettero all’esorbitante peso degli enormi stessi, e della terribile trabeazione, Che opera non di uomini, ma di esseri sovrumani, quale essa appare a guardare oggi semplici frammenti che la componevano, veniva per anch’o gravata dalla spinta del tetto a pendio che copriva il pseudoperistilo.
Anche il professor Pirro Marconi, quando parla della sistemazione dei telamoni, viene alla conclusione che essi assai male erano assicurate al muro cui aderivano.
E la dizione non fa difetto a comprovare che mai il vandalismo danneggiò il nostro tempio dinanzi dell’era cristiana, essa infatti riporta che il Giove Olimpico acragantino per opera dei cartaginesi, nel 406 avanti Cristo, non subì danno alcuno, e 151 anni dopo nel 255 avanti Cristo, esso era ancora in piedi, se dopo la battaglia di Regolo, e l’annientamento della flotta romana, l’ammiraglio “Cartalo cartaginese assediata Agrigento, la prese, l’incendiò, e ne demolì le mura, – risparmiando il – tempio di Giove Olimpico, – ove: – que’ che rimasero, si rifuggirono e scamparono così dalla morte (8) “.
Ma il crollo non avrebbe potuto raderne la base sino a rendere un enigma la esatta conoscenza dell’iconografia.
Certo, i nemici del paganesimo, i cristiani in ogni tempo, operarono tale distruzione.
Si interroghi per avere di tanto una testimonianza la vicina al tempio, chiesa di San Nicola.
La chiesa di San Nicola non è l’espressione di una spontanea, diretta concezione architettonica, ma è una costruzione messa su col proposito di usufruire di materiale raccogliticcio. Le sue pesanti cornici, che l’alto ne girano, sebbene studiate, periodicamente convincono che esse appartennero al tempio di Giove Olimpico.