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Sicilia Araba, Paradiso Perduto

21 Maggio 2017 //  by Elio Di Bella

arabi

PALERMO, gennaio 1072. I normanni assediano la città da cinque mesi. La resistenza dei musulmani è disperata, furiosa.

L’emiro Avyùb ibn Temìn è un genio militare, e vive nell’incrollabile speranza di ricevere rinforzi dall’Africa. «Arriveranno dal mare», pensa, e così infonde coraggio ai suoi uomini. Ma fuori delle mura, nel campo degli assedianti, il conte Ruggero ha finalmente una ben diversa certezza: dai messaggeri ha saputo che il duca Roberto il Guiscardo, suo fratello, sconfitti i bizantini nelle Puglie, ha allestito una flotta e sta per giungere in suo soccorso.

E così, una mattina all’alba, ecco da est profilarsi le sagome dei navigli, sull’orizzonte della baia palermitana. Per un attimo, Ayyùb ha l’illusione che siano navi islamiche, ma un attimo dopo il suo sogno si muta in tremendo sconforto! E’ da ovest, da Capo Gallo, che la flotta africana dovrebbe provenire. Ora Palermo è assediata anche dal mare.

 

Passano pochi giorni, e nella pianura di Bagheria (alle porte di Palermo, verso est) s’accende una battaglia fra un contingente islamico e le truppe di Ruggero; vincono i normanni e, fra le prede belliche, il conte nota con curiosità alcune gabbie che rinchiudono colombi. Interroga i prigionieri, viene a sapere che si tratta di colombi viaggiatori. E un’idea gli balena nella mente: fa appendere al collo di un colombo un messaggio, che annuncia l’esito della battaglia di Bagheria; fa tingere di sangue il biglietto e quindi libera 3 colombi, che subito volano verso Palermo e portano il messaggio ad Ayyùb. L’emiro comprende. E ordina la resa.

 

La caduta di Palermo segna il tracollo della resistenza islamica di fronte all’invasione normanna. Ancora per molti anni si combatterà me il destino dell’isola è segnato: nel 1091 cadrà Noto, l’ultima roccaforte.

Meno di un secolo dopo il viaggiatore arabo Ibn Giubayr di ritorno dall’Andalusia dal Pellegrinaggio alla Mecca, visiterà la Sicilia ancora popolata da molti musulmani e, dopo aver visto le bellezze di Palermo, esclamerà: «Allàh la possa rendere ai suoi fedeli!».

La nostalgia della Sicilia perduta attraverserà i secoli, sarà per gli arabi un rammarico  senza fine: e un’eco di quel dolore risuonerà in discorsi (patetici e deliranti) del colonnello Gheddai, che da tempo rivendica l’appartenenza storica della Sicilia alla Dar el-Islàm.

 

Le radici sono profonde. Il dominio dei musulmani in Sicilia durò circa due secoli, ma l’influsso lei loro costumi e della loro cultura si protrasse assai più lungamente, sino a giungere ai giorni nostri, manifesto o velato, in mille forme diverse.

 

L’architettura: basti pensare ai «dammusi» di Pantelleria (cubi di pietra sormontati da una volta a cupola) o alla struttura di alcune città, come Marsala o Palermo, che ricalcano il disegno urbanistico delle antiche città arabe.

La toponomastica: con i prefissi gibil (gebèl in arabo vuol dire montagna), ad esempio Gibilmanna; oppure cala (cal’à= fortezza) come Calatafimi, Calascibetta, o infiniti toponimi di città, campagna, isola, fiume o montagna, come Marsala, Sciacca, Salemi, Rekale, Gadir, Misilmeri, Favara, Addaura, Kalsa, Alcantara, Bugeber, Pantelleria, Kamma e così via.

Nelle usanze alimentari: il cuscus (arabo Kus-kus) nella provincia di Trapani, e molti dolci come  la cubàita e la stessa cassata siciliana, per non parlare delle spezie, degli ortaggi e della frutta (melanzane, agrumi, ecc.) che furono portati in Sicilia dagli arabi.

Nella lingua: dove l’influsso arabo è fortissimo, soprattutto nei dialetti della Sicilia occidentale (Sciacca, Mazara, Marsala, Trapani, Salemi, Alcamo), dove intere frasi, specie nel linguaggio contadino, si possono ancora formare per intero con voci di radice araba: talìa a ddra gèbbia dintra a ddra sènia significa guarda quel pozzo dentro a quell’orto, dove talìa, gèbbia e sènia sono parole arabe, pressoché identiche alle voci originali.

 

La lista degli esempi, ovviamente, si potrebbe allungare a piacere. Ma già quelli riferiti bastano a farci intuire l’importanza dell’influsso arabo- berbero-musulmano sulla formazione della cultura, della tradizione, e in sostanza dell’anima siciliana. Continuità, rapporto di mondi e di mentalità che fino agli inizi del secolo scorso non erano stati mai studiati al lume delle rigorose indagini storiche: come dimostra il celebre racconto dell’impostura dell’abate Vella, che sul declinare del secolo XVIII sconvolse la vita intellettuale di Palermo. Vicenda narrata, in forma romanzesca, da Leonardo Sciascia nel «Consiglio d’Egitto».

 

In breve: monsignor Airoldi, vescovo di Palermo, si lascia ingannare da un frate maltese, di nome Giuseppe Vella, il quale afferma di conoscere a fondo la lingua araba; gli affida perciò il compito di decifrare i manoscritti arabi della biblioteca di San Martino, e Vella si cimenta nell’opera inventando di sana pianta una traduzione, che lo stesso Airoldi dà infine alle stampe in una lussuosissima edizione (ho avuto modo di consultarne una rara copia all’Archiginnasio di Bologna) che subito scatena una querelle filologica di proporzioni colossali.

 

Non entriamo in particolari. Basti dire che, una volta sbugiardato l’impostore Vella (che da Airoldi aveva ottenuto bende e prebende per il suo lavoro truffaldino), in Sicilia fu tutto un fiorire di inusitato interesse nei confronti della storia arabo-siciliana, che a tal segno s’era rivelata ignorata e negletta, da offrire spazio a un falsario e da sprofondare nella vergogna un monsignore che si piccava di lettere e di erudizione, e godeva fama di uomo coltissimo e sapiente.

 

I frutti di quella rivoluzione si videro pochi decenni dopo, quando un signore in età già matura, siciliano esule a Parigi per le sue idee liberali e unitarie, cominciò a studiare la lingua araba e a decifrare sul serio i documenti relativi alla storia politica e letteraria della Sicilia musulmana; quello studioso si chiamava Michele Amari e in tre opere monumentali («Storia dei Musulmani di Sicilia», «Biblioteca Arabo-Sicula» e «Le epigrafi arabiche di Sicilia») tracciò un quadro, tuttora insuperato, vasto e profondo di quei due secoli di storia così ricchi di suggestioni e di conseguenze. Ad Amari dobbiamo quasi tutto quello che oggi sappiamo sulla storia della Sicilia islamica.

 

Storia che, se nel suo epilogo si confuse con episodi di sapore fiabesco (la vicenda del colombo e del biglietto insanguinato), si svolse nel suo prologo e nel suo atto iniziale esattamente come una leggenda, elaborata dalla mente fervida di un romanziere: lo stesso Amari, nel riferirla (sulla base di fonti arabe e cristiane), dovette confessare di non essere in grado di discernervi il reale dall’immaginario.

 

Eccone dunque l’antefatto: siamo nell’anno di Cristo 726. E’ iniziato da poco il secondo secolo dell’era islamica, e da meno di sessant’anni i musulmani dominano la Tunisia, mentre in Sicilia è saldamente insediato il potere imperiale di Bisanzio. Una piccola flotta di navi da guerra issanti le insegne del Profeta salpa dall’isola di Pantelleria, già caduta in mano araba nel 700, e punta le prue su Mazara, il porto più vicino della costa siciliana. Comanda la spedizione il rais Abd Allah ibn Ràfi.

 

Nella notte s’alza improvviso lo scirocco; non lungi dalla Secca dei Coralli la flotta è travolta dalle onde. Tutti annegano; e fra i guerrieri imbarcati c’è un pio e dotto personaggio di Qayrawàn, città santa dell’Islàm nel deserto tunisino, un vecchio di nome Ismaìl ibn Ubajoy el-Ansàri, che nella spedizione svolge il compito dell’imàm, di colui che guida alla guerra santa. Ismaìl annega levando in alto con la mano destra una preziosa copia del Corano, inutilmente cercando di salvare dal naufragio la Parola di Allah.

 

Passa un secolo, e la Sicilia appartiene ancora a Bisanzio. L’emiro aghlabita Ziyàdat Allah, che regna a Qayrawàn in nome del califfo abbaside di Baghdàd, forse non crede nemmeno alla possibilità di ritentare l’impresa che già non

era riuscita ad Abd Allah ibn Ràfi e ad altri comandanti arabi prima e dopo di lui. Ma un giorno dell’827 gli si presenta un rumì, un cristiano bizantino fuggito dalla Sicilia e approdato di sua volontà nel porto di Susa, città della costa tunisina tra Hammamet e Monastir. Si chiama Eufemio, e ha un’incredibile storia da raccontargli.

 

Alto ufficiale dell’esercito di Bisanzio col grado di turmarca, s’era invaghito qualche tempo prima di una donzella di nobile lignaggio, che, per volere del padre, era stata rinchiusa in un convento. Imperterrito, il focoso innamorato aveva  fatto rapire la fanciulla e senza storie se l’era sposata. I fratelli della rapita s’erano allora appellati a Michele II, imperatore di Bisanzio, e questi aveva decretato contro Eufemio la pena atroce del taglio del naso. E al turmarca non era  rimasto altro da fare che ribellarsi e fuggire.Con in mente un piano di rivalsa ben preciso.

 

Ziyàdat Allah ascolta con interessato stupore  l’idea di Eufemio: si tratterebbe di unire le truppe tunisine a quelle cristiane rimaste fedeli al turmarca, attaccare la Sicilia, conquistarla e affidare allo stesso Eufemio il comando militare del nuovo emirato islamico.

Ziyàdat Allah accetta ma, stranamente, invece di nominare rais della spedizione un esperto generale, decide di mettere i suoi soldati nella mani di un dottissimo imàm, il giurista e teologo settantenne Sinàij sad ibn al-Furàt. Idea folle ? Niente affatto.

 

All’alba del 13 giugno dell’827 le truppe islamiche radunate dentro e intorno al monastero-fortezza (ribài) di Susa ascoltano le parole di Sinàn; il vecchio imàm li incita pronunciando parole che in apparenza non hanno nulla a che vedere con il furore della guerra: «Su, dunque, sforzate gli animi, affaticate i corpi nel cercare la scienza e fatene tesoro, né siatene mai sazi, né mai vinti dai travagli ch’ella vi arreca, e sappiate che ne conseguirete la ricompensa in questa vita, e in quella che è da venire».

 

Eppure i soldati afferrano il senso del messaggio: la guerra vera è, per il musulmano, quella interiore, che si vince debellando l’empietà e le malefiche passioni, mentre il gihàd, la «guerra santa» esteriore che si combatte con la spada, ha senso solo se la vittoria è concepita come simbolo di quel trionfo spirituale.

 

Un po’ in disparte, accanto alla porta della moschea, anche il turmarca Eufemio ascolta la predica araba, senza ovviamente capirne una sola parola. Finito il discorso, le truppe si imbarcano. In un giorno e una notte le navi raggiungono la costa siciliana in un punto non lontano da Mazara. Ha inizio la vittoriosa conquista: ma né Asad né Eufemio riusciranno a vederla compiuta. Il vecchio teologo morirà di peste nell’estate dell’anno successivo sotto le mura di Siracusa assediata. E pochi mesi dopo Eufemio sarà ucciso da un soldato bizantino all’ingresso della città di Castrogiovanni.

 

Da questo momento la storia della conquista araba della Sicilia perde i contorni della leggenda e si fa cronaca pura. Non bastò ai musulmani un solo assedio, né una sola battaglia, per avere in pugno l’isola intera: la conquista della Sicilia fu lenta e faticosa, costò sangue e stragi, e si compì definitivamente solo un’ottantina di anni dopo, quando il nuovo rais tunisino, Ibrahim, prese  d’assalto Taormina, ultima roccaforte della resistenza cristiana e, dopo averla espugnata, la devastò.

Era il primo agosto del 902, una domenica. Ma già da tempo, nella Sicilia occidentale saldamente islamizzata, il potere aghlabita aveva cominciato a produrre i primi frutti della sua dominazione. E su questo, anche gli storici moderni non hanno dubbio alcuno: furono i contadini, i commercianti, gli artigiani, gli scienziati e i letterati sbarcati sull’isola al seguito dell’esercito conquistatore i veri promotori di quella ripresa di civiltà che vedrà la Sicilia, all’epoca dei normanni e degli svevi, elevarsi nuovamente, come ai tempi della magnificenza greca, a fulcro e centro di irradiazione della cultura europea e mediterranea: saranno i poeti siciliani della corte di Federico, eredi dei poeti arabi fioriti durante i due secoli della dominazione musulmana, i primi esponenti della letteratura italiana medievale, precursori del toscano Dolce Stil Novo e delle sue tematiche cortesi.

 

La Sicilia musulmana potè accogliere il flusso della cultura orientale proveniente da due principali direzioni: quella dell’Andalusia islamica e quella della Tunisia che proprio

allora brillava al culmine della sua civiltà: diceva infatti un proverbio arabo di quel tempo che «la scienza è un grano spuntato a Medina, vagliato a Baghdàd, macinato a Qayrawàn, stacciato a Cordova e mangiato a Fez».

 

Tragitto da oriente a occidente, che vedeva Qayrawàn in posizione di «macina» centrale. E dunque di estremo prestigio e privilegio.

Gli aghlabiti tunisini dominarono la Sicilia fino al 910, anno in cui a Palermo scoppiarono tumulti che portarono al potere una nuova dinastia, quella degli emiri kalbiti, di fede non sunnita ma sciita, e legata al misticheggiante movimento fatimista allora trionfante in Egitto e nel Maghréb. Furono dunque due i grandi periodi dell’Islam siciliano, e fu nel secondo che la civiltà portata dai conquistatori toccò il suo apogeo, anche sotto il profilo del benessere economico.

Un mercante di Baghdàd, Ibn Hawqàl, che visitò Palermo nel 973, rimase sbalordito dalla ricchezza di una città che a quell’epoca, con i suoi trecentomila abitanti, poteva ben dirsi una delle metropoli più grandi del mondo: «Nella città», scrive Ibn Hawqàl, «si vede un immenso numero di moschee: queste moschee sorpassano il numero di trecento. Ne chiesi il motivo, e mi venne risposto che qui, per eccesso di orgoglio, ciascuno voleva una moschea che fosse esclusivamente per lui, onde non ammettervi che la sua famiglia e la sua clientela, e che non era raro che due fratelli, i quali avevano le loro case contigue, si facessero

costruire una moschea per ciascuno, onde tenervisi soli».

Ibn Hawqàl fu colpito anche dalla potenza delle corporazioni mercantili: «I macellai tengono dentro la città più di centocinquanta botteghe da vender carne; nella loro moschea, un dì ch’era zeppa di gente, io contai, così all’incirca, più di settemila persone, poiché v’erano schierate per la preghiera più di trentasei file, ciascuna d quali sfiorava il numero di duecento persone.  Ma notò, con un certo acume sociologico, accanto ai fiorenti traffici commerciali e splendori civili e culturali (ch’egli bollò come forme di sfarzo e di ostentazione da «gente arricchita»), prosperava in Palermo anche delinquenza e che, ai margini della rispetta società che s’inchinava a Dio nelle moschee brulicava un mondo cupo e inquietante di miserabili, devianti e disadattati: «Giaccion si spiaggia del mare molti ribat pieni di brutti ceffi, uomini di malaffare, gente da sedizioni, vecchi e giovani, ribaldi di ogni lingua e nazione i quali si son fatta in fronte la callosità delle prosternazioni per piantarsi lì ad acchiappare l’elemosina e sparlar delle donne oneste. La parte sono mezzani di lordura o rotti a vizio infame. Riparano costoro nei ribat, come uomini da nulla ch’essi sono, gente senza tetto, autentiche canaglie».

Dove, al di là del giudizio sprezzante, si coglie il realismo di una descrizione non lontana da quella che si potrebbe dare di certe favelas sorgenti oggi ai margini delle ricche metropoli.

I due secoli della dominazione islamica mutarono l’aspetto della Sicilia non solo nelle città ma anche nelle campagne. Il latifondismo dell’epoca bizantina, che aveva provocato l’impoverimento e lo spopolamento dell’isola, fu disintegrato dalla politica delle confische e della colonizzazione capillare, che frammentò proprietà delle terre e diede impulso alla produzione dei campi.

Al tempo stesso, gli arabi introdussero nell’isola una serie di profonde innovazioni tecniche e di nuove colture che rivoluzionarono completamente l’agricoltura siciliana dandole l’aspetto che  sostanzialmente conserva ancora oggi: v’introdussero piante come il gelso, la canna da zucchero, gli agrumi, la palma da dattero e il cotone; diedero impulso all’orticoltura e all’allevamento dei cavalli.

E tutto questo fu anche possibile grazie alla politica di tolleranza religiosa che i musulmani (allora ben lontani dall’integralismo», ossia dal fanatismo, di oggi) praticarono nei confronti di chi non intendeva convertirsi alla loro fede: versando annualmente tassa all’emiro di Palermo, cristiani ed ebrei acquisivano il diritto di campare tranquillamente, lavorando, trafficando e pregando nelle loro chiese e sinagoghe con la stessa libertà di prima (o maggiore di prima, nel caso degli ebrei).

La Sicilia, assieme all’Andalusia islamica, costituì in quel tempo un esempio altissimo di civiltà multirazziale e multiconfessionale che potrebbe oggi fare invidia a molti paesi.

Ben si comprende allora il vero motivo della nostalgia che, nel suo esilio, il grande poeta arabo-siculo Ibn Hamdìs (nato a Siracusa nel 1055) espresse in molti dei suoi canti, ripensando all’isola amata che era stato costretto ad abbandonare dopo la caduta dell’emirato islamico:

«O mare, di là da te io ho un paradiso, in cui mi vestii di letizia, non di sciagura! / Il destino ha tradito le terre di Sicilia, che erano prima fortezze al riparo dei colpi del destino. / Vedo la mia terra avvilita dai cristiani, mentre prima, con la mia gente, il suo onore spiccava in alto rilievo…».

Eppure, per almeno un altro secolo, quello splendore visse ancora, influenzando fortemente l’arte e la civiltà dell’epoca normanna e sveva (Federico II corrispondeva in arabo col filosofo andaluso Ibn Sab’in), e creando a Palermo i capolavori della Zisa, della Cuba, della Cappella Palatina, di San Giovanni degli Eremiti e di altri monumenti che lasceranno impressa nella città l’impronta del suo grande passato islamico.

 

Massimo Ievolella, La Sicilia paradiso perduto, in Historia, n.419, gennaio 1993

 

 

 

 

 

 

Categoria: Storia SiciliaTag: arabi, musulmani, sicilia

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