
La festa di Santa Lucia che cade il 13 dicembre un tempo dovette avere più importanza a Racalmuto tra le altre feste del paese, se si pensa appunto che la Santa siracusana era tenuta come compatrona ed aveva una chiesetta a lei dedicata sopra un poggiuolo, nella quale si presta un ciborio marmoreo del Seicento, sconosciuto agli studiosi, che meriterebbe avere un’adeguata illustrazione (recentemente esso è stato sistemato il luogo più opportuno da quel rettore).
Il 13 dicembre tra noi, come in ogni paese della Sicilia, è tradizionale per la devozione verso la eroica martire siracusana di mangiare la cosiddetta “cuccia”, frumento cotto e variamente condito con zucchero e miele. L’usanza, come il dotto Pitrè fa notare, è antichissima. Secondo la tradizione che è in gran parte storica, si sa che in occasione di una carestia, che desolava la Sicilia (pestilenze carestie erano all’ordine del giorno in quei tempi!) approdarono alcuni velieri carichi di frumento, per cui gli affamati isolani, primi fra tutti i siracusani, si nutrirono ben presto di frumento cotto, e ciò per far presto, giacché la manipolazione del pane avrebbe richiesto del tempo a satollare gli affamati.
Ma questo giorno dell’anno, più che dalla tradizione, è illustrato da alcuni proverbi metereologici che vale la pena di ricordare e dimostrare che, anche se oggi essi non hanno più rispondenza con la nostra meteorologia, sono esattamente validi per i tempi nei quali sono nati. Infatti si sa che il Papa Gregorio XIII, il quale con la bolla “Inter gravissimas” per emendare lo sbaglio di calcolo astronomico dovuto all’allora vigente calendario Giuliano, che calcolava l’anno solare in 365 giorni e sei ore, invece che esso di fatto risulta di 365 giorni, cinque ore, 54 decimi e 49 centesimi, stabilì che il 5 ottobre del 1582 diventasse il 15 dello stesso mese, perché allora si era in eccesso di 19 giorni rispetto all’anno astronomico esatto.
Quindi se noi oggi sentiamo dire i nostri vecchi “dopo Santa Lucia un passu di ciucciuvia (è un uccello) – intendendo con ciò che il giorno comincia ad aumentare – ci pare stonato in quanto, per altri dieci giorni, il giorno in effetti diminuisce ancora e ci sembra inoltre che non appena sia terminata la stagione invernale, i proverbi facciano a gara per anticipare il bel tempo della primavera. Così si spiegano gli altri proverbi metereologici come: “ Tutti li santi – la nivi a li canti (siamo ancora in tiepido inverno) e l’altro “Natali. Un passu di cani (cioè che l’aumento in maggiore) – San Mmilasi, la mirenna trasi (2 febbraio), ed altri ancora.
Provatevi ancor oggi a spiegare ciò e a far capire a qualche nostro vecchio centenario che le cose non stanno, riguardo alla meteorologia, come la pensa lui e come la pensavano i suoi vecchi: e vi riderà in faccia e vi ripeterà con insistenza, se non addirittura con aria di compatimento, che la notte di Santa Lucia sia proprio la più lunga dell’anno e non vorrà affatto capire riforme e controriforme di calendari, sia pure promosse dal Papa in persona. Anzi, a tal riguardo vi preciserà che ai suoi tempi, al capo dell’anno era costume che il sacerdote saliva sul pulpito e faceva note ai fedeli le feste principali religiose dell’anno (onde: “abbanniari li festi”, che oggi significa un’altra cosa) e a questo punto è giusto ricordare l’analoga funzione che hanno millenni di storia, allorquando l’antico pontefice romano nel primo giorno di ogni mese, faceva pubblici al popolo i giorni fasti e nefasti del mese, da cui il nome di Kalendae. E tale tradizione si dimostra ancor viva dopo millenni nella voce “carennuli”, cioè volgarmente Kalende di Natale, ancora in uso in qualche paese del siracusano e indicherebbe precisamente il presagire dei giorni buoni o cattivi i quali vanno dal 13 al 24 dicembre i mesi dell’anno venturo.
Tali usanze sono ancora vive nel nostro popolo e per concludere la presente nota che si riferisce a Santa Lucia, mi piace ricordare che a Racalmuto, dopo che la chiesetta omonima divenne sacrestia della bella e grande chiesa del Monte, costruita i primi di questo secolo per legato del sacerdote Signorino, restò in essa, abbandonata e piena di polvere, il ciborio marmoreo a cui sopra si è accennato e nella nuova chiesa la Santa ha avuto un nuovo posto e venerazione una tela, che si trovava dapprima nella chiesetta soppressa e che se non ha tanto pregio artistico pure antica e rappresenta la Santa siracusana nella iconografia usuale, la quale tiene in mano un piattello con due occhi, emblema del suo martirio.
Molte volte nella storia e tradizione si danno la mano e sono essa. Che non solo hanno la virtù di rievocarci il passato, ma la tradizione, principalmente nel nostro caso, alla forza di portarci in un mondo meraviglioso, e quantunque esso cozzi con la realtà odierna, fa chiudere le ali al nostro ingegno quando non regge colpi della critica.
Raffaele Grillo, in Giornale di Sicilia, novembre 1955