Immaginatevi di entrare nel cuore del Risorgimento italiano, nel 1860, l’anno di tutte le speranze e dell’imminente unificazione dell’Italia. Immaginatevi le città liberate, i Borboni che perdono, mentre al Nord i piemontesi avanzano lentamente. Immaginatevi la Sicilia dello sbarco di Garibaldi e poi focalizzate il pensiero sulle facce di un tribunale di guerra, nella città di Bronte, che in un frettoloso processo durato meno di quattro ore giudica ben 150 persone, alcune delle quali condannate alla pena capitale. Tra questi c’è un uomo che si chiama Nunzio Ciraldo Fraiunco. E’ incapace d’intendere e di volere. Malato di demenza, era stato arrestato per aver girato per le strade del paese con una trombetta di latta in mano cantando “Cappeddi guaddattivi, l’ura dù judiziu s’avvicina, populu nun mancari all’appellu”.
All’alba del 10 agosto 1860 Fraiunco viene portato, assieme ad altre quattro persone, nella piazzetta antistante il convento di Santo Vito e collocato dinanzi al plotone d’esecuzione.
Alla scarica di fucileria, nessun soldato ha la forza di sparargli. Rimasto incolume, nell’illusione che la Madonna Addolorata lo avesse miracolato, si inginocchia piangendo ai piedi del generale Nino Bixio, figura di spicco del movimento risorgimentale, invocando la salvezza. Riceve in cambio della supplica una palla di piombo in testa. Lo ”scemo del villaggio” muore così, colpevole solo di aver soffiato in una trombetta.
La storia di Fraiunco va di pari passo a quella di Nunzio Longi Longhitano, Nunzio Nunno Spitaleri e Nunzio Samperi e Nicolò Lombardo. Tutti uccisi. I cadaveri furono lasciati esposti al pubblico e insepolti.
Nino Bixio, proprio da Bronte, in una lettera alla moglie Adelaide, ebbe modo di scrivere: ”Che paesi! Si potrebbero chiamare dei veri porcili! Questo insomma è un paese che bisognerebbe distruggere o almeno spopolare e mandarli in Africa a farli civili”. Bixio non era un personaggio qualunque della storia risorgimentale. Era uno dei generali di Garibaldi. Per la fantasia collettiva, un ”eroe”.
Quando l’11 maggio del 1860 l’Eroe dei Due Mondi era sbarcato con i Mille nel porto di Marsala, sapeva bene che gli sarebbe stato necessaria la partecipazione dei cittadini. Nell’entroterra siculo si erano accese molte speranze di riscatto sociale da parte della media borghesia e delle classi meno abbienti. A Bronte, sulle pendici dell’Etna, la contrapposizione fra nobiltà latifondista – rappresentata dalla Ducea di Nelson, proprietà terriera – e la società civile si fece forte. Il 2 agosto al malcontento popolare si aggiunsero persone provenienti dai paesi limitrofi. L’insurrezione sociale scoppiò in un attimo: vennero date alle fiamme decine di case e di edifici comunali. Quindi furono uccise sedici persone tra nobili, ufficiali e civili, compreso il barone del paese, sua moglie e i due figlioletti, infine un notaio e un prete.
Il Comitato di guerra, creato in maggio per volere di Garibaldi e Crispi, decise di inviare a Bronte un battaglione di garibaldini agli ordini di Bixio. Gli intenti di Garibaldi erano volti al mantenimento dell’ordine pubblico, ma allo stesso tempo sussisteva un problema politico ed economico: proteggere gli interessi dell’Inghilterra (Ducea di Nelson) che aveva favorito lo sbarco dei Mille. Da qui la reazione, che calò impietosa e forse alla cieca, non distinguendo le prove, non individuando i reali responsabili della rivolta e uccidendo, persino, un poveretto che non c’entrava nulla. Alla luce delle successive ricostruzioni storiche, infatti, si appurò che Nicolò Lombardo, ritenuto uno dei capi della rivolta, fosse estraneo alla stessa, ma invitato a fuggire egli si rifiutò di agire in questo modo per poter difendere il proprio onore.
Bronte è una storia che ancora oggi fa fatica ad accendere le discussioni e ad entrare nei libri scolastici. Per chi non lo sapesse, è una delle pagine che racconta in modo esemplare come l’Unità d’Italia fu una conquista fatta anche con il sangue degli innocenti. Per certi versi poco onorevole, sopratutto per uno stato che voleva sovvertire, nei fatti, le realtà autoritarie che avevano governato e frazionato l’Italia fino alla sua condivisione territoriale.
Se vi capita, leggete la storia di Bronte. Servirà per capire che il passato può essere un labirinto complesso da raccontare e che i vincitori, molto spesso, hanno ben poco da vantarsi rispetto ai guasti e ai peccati dei vinti.
Autore Fabrizio Giusti