pirandello e marta abba
Roma
Dal biennio in cui, al Magistero di Roma, ebbi come professore Luigi Pirandello affiora il ricordo di qualche episodio. In un precedente articolo dissi che egli esercitava un profondo fascino su numerose allieve: perciò non era raro il caso che qualcuna si accendesse per lui di improvvisa passione, destinata però a spegnersi presto perchè egli sembrava indifferente — talvolta ostile — sia alle simpatie che alle antipatie che suscitava. Valga, per tutti, questo episodio.
Una mattina Pirandello entrò in classe, andò difilato alla cattedra con la stessa fretta di una persona che vuole liberarsi al più presto di qualche cosa che le dà fastidio.
E appena seduto, senza neppure fare l’appello, trasse dalla tasca una lettera e con volto serio, quasi corrucciato disse: «Signorine, ogni bel gioco dura poco. Ora basta » e zac-zac fece quei foglietti in mille pezzi, che buttò nel cestino delle carte. Noi ci guardammo allibite. Ricordo ancora lo sguardo stupito di alcune che, volgendosi indietro luna verso l’altra, sembravano dire: «Che cosa ci sarà stato scritto? ».
La lezione terminò nel profondo silenzio di noi tutte. Ma appena essa ebbe termine ci precipitammo verso il cestino, raccattammo quei pezzi di carta e incollandoli al punto giusto ricomponemmo il testo della lettera.
La scrivente si firmava Fior d’Alpe perchè era una settentrionale e si rivolgeva a Fuoco, sotto il qual nome era adombrato Pirandello, che natio della Sicilia era per essa, il simbolo della lava infuocata del vulcano Etna.
Forse quella doveva essere l’ultima e certamente la più manifesta e ardita di altre sue dichiarazioni, se il professore aveva detto con voce vibrata: « Ora basta ».
La vicenda finì lì, nè poteva avere un seguito.
Primo anno di Magistero. Ora della correzione dei compiti. Ho già detto che Pirandello nel corso dell’anno non assegnava mai temi politici, anzi non assegnava temi, affidandosi all’estro delle alunne
Avvenne, dunque, che un’allieva volle narrare, in un compito, una sua storia personale ed, infatti, raccontò come, fanciulla di quindici o sedici anni, allieva delle Normali, travolta da un’ondata di misticismo, decise di farsi suora e per giunta di clausura.
Il professore, durante la lettura, a tratti sorrideva del suo breve, fuggevole sorriso — non si abbandonava mai ad una schietta risata — e seguiva con interesse la storia di tutti i tentativi fatti dall’aspirante suora per indurre la madre riluttante a dare il sospirato consenso.
Ma che cosa avvenne quando essa ebbe partita vinta?
Qualche cosa crollò nel suo animo, non volle più quello che aveva tanto desiderato: quello che prima a lei era sembrato tanto bello — la pace del chiostro, la vita di preghiera le parve ora odioso; la realtà di quel momento era diversa da quella dì poco prima.
Di ritorno dal convento, dove era andata per prendere gli ultimi accordi con la Madre Superiora, volle passare per la cappella dove (cito le parole del suo compito perchè ben conosco quella ex-alunna) «quelle Suore biascicanti preghiere le sembrarono il simbolo di un’arida vita contemplativa e il chiostro che già le era sembrato luogo di pace le parve triste e squallido ».
A questo punto Pirandello scattò: « Perchè biascicanti preghiere? Perchè simbolo di un’arida vita contemplativa? ». E l’alunna, già imbevuta di logica pirandelliana, di rimando subito rispose: «In quel momento le vedevo così »
Pirandello, quando era in commissione di esami, che non erano delle sue discipline, non prendeva parte attiva alle interrogazioni dei colleghi. Taceva, assorto, con la testa un po’ reclinata e fumava di continuo. Solo raramente interloquiva con qualche breve osservazione. Spesso disegnava, faceva schizzi su qualche foglietto a portata di mano.
Si trattava di volti femminili, spesso ombreggiati dalle velette pendenti dalle larghe tese dei grandi cappelli, allora di moda.
In realtà Pirandello fu anche pittore: pittore dilettante, si capisce, e diversi suoi quadri sono ancora oggi in possesso di privati.
Pia Romano