
Il primo febbraio del 2004 su “Repubblica” è stato pubblicato un articolo di Agostino Spataro intitolato “Agrigento, sagra dell’ abusivismo in fiore” in cui si parla di monsignor Lorenzo Gioeni, vescovo di Agrigento (1730-1754).
Non riuscendo a comprendere come si possa connettere l’opera del Gioeni, del secolo XVIII, con l’ abusivismo odierno, lascio la cosa alla logica dell’ autore; segnalo soltanto che quanto l’ autore scrive sul vescovo Gioeni è completamente falso, gravemente calunnioso e offensivo, non solo per la sua persona, ma anche per la Diocesi di Agrigento, di cui fu grandemente benemerito. Contrariamente a quanto scrive l’ autore, monsignor Gioeni, venuto in Agrigento nel 1731, non fece demolire la trabeazione del tempio di Giove con i tre giganti, perché erano crollati da soli più di tre secoli prima, come raccontò, in versi leonini, un contemporaneo: Giovanni Montaperto Abatellis, che anche ne precisa la data: 5 dicembre 1401.
Questo è attestato dal Fazello (De rebus siculis). è falsa e calunniosa anche l’ accusa che monsignor Gioeni abbia fatto adoperare i massi dell’ Olimpion per il molo di Porto Empedocle, perché questo non fu fatto costruire dal vescovo, ma dal re Carlo III di Borbone, su progetto dei tecnici reali, il matematico Girolamo Settimo e l’ ingegnere Salvatore Gavazza, da imprese scelte dall’ amministrazione statale. Gioeni promosse soltanto la richiesta della costruzione del molo, chiedendola al re. Questo fu notato in una lapide posta sul braccio antico del porto: «Dignum regia munificentia portum a Laurentio Gioeni episcopo agrigentino piis apud regem precibus praemotum…».
L’ autore dell’ articolo, inoltre, depreca che al Gioeni sia intitolata una via cittadina, ignorando, spesso non volutamente, le benemerenze del Gioeni, non solo ecclesiastiche, ma anche civili e sociali: in un palazzo da lui eretto raccolse anziani e orfani poveri a cui procurò educazione e istruzione e l’ apprendimento di un mestiere. Nel suo istituto si insegnavano e si praticavano le arti di sarto, calzolaio, falegname, tessitore, tipografo, ceraio, funaiolo; c’ erano persino una scuola di musica strumentale e una banda musicale.
Per i contadini costituì il monte frumentario, da cui essi potevano ottenere le sementi per restituirle dopo la messe e in cui potevano depositare i prodotti e ottenere il pagamento quando lo ritenessero più conveniente. Per le ragazze fondò e promosse Collegi di Maria.
L’ autore ignorava tutto questo?
Poteva informarsi anche sfogliando recenti pubblicazioni: G. Gibilaro, I Borboni e il porto di Girgenti, pagg. 105 e ss.; D. De Gregorio, La Chiesa Agrigentina III, pagg. 133 e ss. Nell’articolo ho richiamato, peraltro in forma interrogativa, una voce della tradizione popolare, avallata da diversi scrittori italiani e stranieri, secondo la quale per la costruzione del molo empedoclino, voluta dal vescovo Lorenzo Gioeni, fu utilizzata parte dei ruderi del tempio di Giove.
Il problema sollevato costituisce un’ annosa e controversa questione storica che, certo, non ho inventato io col citato articolo, quasi avessi un pregiudizio contro un vescovo del 1700, da molti ritenuto un “innovatore”. Io, che storico non sono, ho cercato, semplicemente, di renderla in chiave giornalistica, prendendo anche spunto dal nuovo libro dell’ agrigentino Matteo Collura (“In Sicilia”, edito da Longanesi, Milano) il quale a pagina 47 scrive testualmente: «A Lorenzo Gioeni, vescovo nel 1730, si deve la realizzazione del Molo di Girgenti, oggi Porto Empedocle.
Un’ opera che nei libri di storia locale viene salutata come di grande importanza civile, ma che invogliò i suoi realizzatori ad attingere copioso pietrame dalla Valle dei templi, e soprattutto dall’ ammasso ciclopico di colonne, capitelli e fregi che un tempo avevano dato stupefacente forma al tempio di Zeus».
Giacché ci siamo, anche per tentare di risolvere il mistero della «logica dell’autore» a proposito di abusivismo edilizio, aggiungo che nello stesso libro di Collura si possono leggere, a pagina 50, severe censure circa il ruolo della Chiesa agrigentina contemporanea: «Una chiesa costruita abusivamente in un villaggio interamente abusivo. Niente di simile può capitare di vedere altrove~ da quest’ informe ammasso di case, villette e capannoni affogati nelle immondizie, sembrano essere loro, i templi, i veri abusivi».
Una realtà contraddittoria, spinta agli estremi della resistenza alle leggi dello Stato e della Regione, non inventata da Collura, ma preesistente e denunciata dalle tv di mezzo mondo. A me saranno sfuggiti alcuni libri (del cui rigore scientifico dubitano gli specialisti consultati), temo che all’arcivescovo sia sfuggito un libro essenziale e di successo come quello di Matteo Collura che, ovviamente, è antecedente al mio articolo. Così come lo sono, e di molto, una serie di altri riferimenti che confermano l’ ipotesi dello scempio dei resti del tempio akragantino e fra i tanti quelli: 1) dell’ eminente studioso tedesco Giulio Schubring che nel suo “Topografia storica di Agrigento” (del 1887) scrive a pagina 166: «Nel secolo passato della maggior parte delle sue pietre (del tempio di Giove, ndr) venne costrutto il molo di Girgenti».
2) dello scrittore francese Gastone Vuillier il quale nel suo “La Sicilia Impressioni del presente e del passato” (editori Fratelli Treves, Milano 1897) annota, a pagina 211: «La maggior parte dei resti di quel prodigioso edificio è scomparsa; si dice che un ingegnere se ne impadronisse per costruire il molo di Porto Empedocle».
3) di un altro autore locale, Giuseppe Di Giovanni, che nella sua fortunata guida turistica “Agrigento: la Valle dei templi e il Museo regionale” del 1979, dice, a pagina 59, che: «Si può constatare che gran parte dei materiali dovettero essere asportati. Il molo di Porto Empedocle ai tempi di Carlo III di Borbone venne costruito con pietre tolte all’ Olimpico».
Esistono, dunque, un filone di pensiero e un’ opinione pubblica che accreditano tale ipotesi e altre posizioni che la negano.
In realtà, manca una ricerca storica obiettiva (non di parte) che possa sancire la verità circa il ruolo effettivo svolto dal vescovo Gioeni. Per intanto, bisogna prendere atto che la “voce” esiste. Chi l’ ha divulgata?
Il dottor Settimio Biondi, cultore della storia patria agrigentina, nel suo pregevole studio “Il Settecento agrigentino e la presenza redentorista ad Agrigento” sostiene che tale voce, vera o falsa che sia, fu propalata dagli esponenti del clero locale impegnato in una grave e lunga controversia con il vescovo Gioeni il quale, non potendola dirimere nell’ambito e con i metodi della convivenza religiosa, la portò addirittura alla Corte Generale di Napoli.
Come si evince da questa replica e, per altri versi, dalla stessa nota dell’ arcivescovo Ferraro, sono numerosi i sostenitori dell’ una e dell’ altra ipotesi.
La questione a mio modesto avviso non si può risolvere con una presa di posizione polemica. Forse, varrebbe la pena di organizzare un qualificato simposio di storici e specialisti. Sarebbe, sicuramente, più proficuo dei tanti, inutili e dispendiosi, che si tengono annualmente ad Agrigento.
11 febbraio 2004
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