una inchiesta-viaggio nella terra che fece da sfondo ai racconti del drammaturgo siciliano
Uno scrittore è tanto più autentico quando riesce a mantenere viva nella sua arte la memoria dei luoghi dov’è vissuto fanciullo e quando, pur senza tradire la fedeltà del ricordo, riesce a travalicare i termini del paesaggio a lui caro ed esprimerlo in termini universali, accettabili, cioè, a vaste e diseguali masse di uomini.
Pirandello è indubbiamente tra questi scrittori che conservarono sempre una dolorante simpatia per l’angolo di terra in cui nacquero, anzi, più se ne distaccarono è più vagabondarono, e maggiormente piacque loro tornare, quando non poterono fisicamente, almeno con la loro arte, nei luoghi in cui aprirono i loro occhi alla vita e avvertirono i primi contatti col loro mondo.
Ecco perché Pirandello, fin dalla sua tesi di laurea, volle ricordarsi della sua Girgenti e trattare filologicamente lo strano, cantilenante e pittoresco dialetto del Rabbato, cioè il quartiere più tradizionalmente agrigentino, assieme a quello del Pojo, cioè del quartiere di S. Michele; ecco perché, fin dalla prima produzione dei romanzi volle ambientare le sue prime esperienze narrative proprio nella sua città e come tanto ne « L’esclusa » che ne « Il turno » e ne « I vecchi e i giovani », la campagna, la città e i dintorni di Agrigento riempiono, con la loro vita semplice, monotona, assillante e pur densa, le pagine del grande scrittore.
la campagna agrigentina ne “I vecchi e i giovani”
In particolare, la campagna agrigentina è una delle componenti paesaggistiche che fanno da sfondo alla complessa e importante vicenda de «I vecchi e i giovani, romanzo che. senza voler nulla togliere alla gloria del Gattopardo, è il ritratto di una Sicilia torbida, patriarcale e inquieta che dovrebbe dare tanti punti al più famoso e recente romanzo del Lampedusa.
Nel brano, che adesso riporteremo, è sinteticamente descritta una zona tra le più belle e sconosciute della Valle dei Templi agrigentini, uno squarcio di paesaggio che, nella sua suggestione, si può solo ammirare dal Tempio di Castore e Polluce o dall’alto di una serie di resti archeologici affioranti che l’incuria dell’uomo non è riuscita a dotare di strade panoramiche e di accesso.
Ma, subito dopo la descrizione del paesaggio, intatto ancor oggi, Pirandello si lascia prendere la mano dalla sua passione sociale e descrive l’inumana situazione dei fittavoli e dei mezzadri:
« Tranne il vigneto, cura appassionata e orgoglio di Mauro Mortasa, e l’antico oliveto saraceno, il mandorleto e alcuni ettari di campo estivo e. giù nell’ampio burrone, l’agrumeto, che costituiva la parte di mezzo ì riservata a Don Cosmo, tutto il resto era ceduto in piccoli lotti e mezzadria a poveri contadini, non dal principe Don Ippolito direttamente, a cui anche quel feudo apparteneva, ma da fitavoli di fittavoli, i quali, non contenti di vivere in città da signori sulla fatica di quei poveri disgraziati, li vessavano con l’usura più spietata e con un raggiro intricato di patti esosi.
L’usura si esercitava sulla semente e sui soccorsi anticipati durante l’annata; l’angheria più iniqua nei prelevamenti al tempo del raccolto. Dopo aver faticato un anno, il cosiddetto mezzadro si vedeva portar via dall’aia a tumulo a tumulo quasi tutto il raccolto: i tumuli per la semente, i tumuli per la pastura, e questo per la lampada e questo per il campiere e quest’altro per la Madonna Addolorata: e poi per San Francesco di Paola e per San Calogero, e i insomma per quasi tutti i Santi del calendario ecclesiastico; sicché talvolta, si e no, gli restava il « solame », cioè quel po’ di grano misto alla paglia e alla polvere che nelle trebbiature rimaneva sull’aia! ».
La campagna agrigentina e la Valle dei Templi
Nel brano che segue ritorna la descrizione dell’aspro paesaggio che si può godere dalle rovine del tempio dei Dioscuri:
« Colimbetra., l’antica famosa Colimbetra akragantina era veramente molto più i giù, nel punto più basso del pianoro, dove tre vallette si uniscono e le rocce si dividono e la linea dell’aspro ciglione, su cui sorgono i templi, è interrotto da una larga apertura. In quel luogo ora detto dell’Abbadia bassa, gli Akragantini, cento anni dopo la fondazione della loro città, avevano formato la pescheria, gran bacino d’acqua che si estendeva fino all’Hypsas e la cui diga concorreva col fiume alla fortificazione della città. Colimbetra aveva chiamato don Ippolito la sua tenuta, perché anch’egli lassù, nella parte occidentale di essa, aveva raccolto un bacino di acqua alimentato d’inverno dal torrentello che scorreva sotto Bonamorone e d’estate da una nòria, la cui ruota stridula era da mane a sera girata da una giumenta cieca. Tutt’intorno a quel bacino sorgeva un boschetto delizioso d’aranci e melograni ».
Lì, a due passi, ecco un altro burrone, un’altra spaccatura, al fondo della quale scorre timidamente un piccolo torrente, asciutto, naturalmente, il maggior numero dei giorni dell’anno: una spaccatura che sembra aprirsi verso il mare e vicino alla quale scorre il frastuono delle locomotive e dei treni merci che fanno la spola tra Agrigento e la vicina Porto Empedocle: è S. Anna.
Oggi, proprio lì, uno estroso e umanissimo personaggio agrigentino che, in tanti suoi atteggiamenti sembra ritagliato da una pagina pirandelliana, vi ha fatto sorgere una piccola costruzione, coll’unico sacrificio delle sue forze, a tutto beneficio del turista di passaggio che voglia smemorarsi nell’augusta e lontanante visione dei templi e nella straordinaria pace agreste che possiede il luogo, quando tacciono i fischi delle automotrici di passaggio.
Le organizzazioni turistiche continuano a ignorare il luogo, ma Turiddu Malogioglio, inguaribile sognatore, pensa che forse un giorno gli agrigentini si accorgeranno che «lui» ha fatto ancora un gesto positivo per la sua città.
Enzo Lauretta