«L’opera di Pirandello, nella sua formidabile coerenza e omogeneità, fu un perpetuo lavoro in corso: una sezione, praticata in qualunque punto, la denunzia tutta».
Così Giacomo Debenedetti.
E resta, questa sua affermazione ugualmente valida, particolarmente anzi, di fronte a “I vecchi e i giovani”; particolarmente, diciamo, nella misura in cui questo romanzo è stato di solito considerato dalla critica come il punto da cui, praticando una sezione, verrebbe fuori un disegno che soltanto per qualche tratto, per qualche ombra, corrisponderebbe agli altri, tra loro simili se non identici, che si ottengono sezionando da qualsiasi altro punto.
Considerandolo nella sua incongruenza, nella sua dissonanza, e cioè relegandovelo, la critica si è quasi sempre sbrigata di questo romanzo collegandolo a I viceré di Federico De Roberto: e cioè, in effetti, collegandone la sfortuna a quel libro sfortunatissimo.
Curiosamente, del romanzo visto in rapporto a tutte le altre opere, soltanto l’insulso Contini dice che è «probabilmente il più degno oggi d’attenzione»; ma non tanto curiosamente, invero, se lo dice non per innalzare I vecchi e i giovani ma per abbassare tutte le altre.
Ad ogni buon conto, evita di spiegare perché si dovrebbe oggi più attenzione a questo, tra i romanzi di Pirandello: forse soltanto per il fatto che dopo di questo, secondo lui, Pirandello di romanzi non ne scrisse più («da allora, pur insistendo nelle novelle, si dedicò soprattutto al teatro»; e si noti l’insistendo, che vale un peggio per lui che ha insistito).
Ma lasciando stare Contini, e avvertendo che su “I vecchi e i giovani” hanno scritto esattissime cose Gaetano Trombatore nel saggio Pirandello e i Fasci siciliani (1955) e Gaspare Giudice in quella sua straordinaria biografia di Pirandello (propriamente tanto fuori dell’ ordinario, in Italia, da restare quasi misconosciuta), appunto per non ripetere quello che Trombatore e Giudice hanno scritto, ci porremo una domanda abbastanza ovvia, tanto ovvia che finora non è stata posta, ma tutt’altro che esterna e inessenziale: perché Pirandello, alla distanza di almeno dieci anni, scrive un romanzo sui Fasci Siciliani? Perché scrive un libro così diverso e al tempo stesso così non dissimile dalle altre sue opere da poter essere addirittura considerato un saggio della sua visione della vita sotto specie autobiografica ?
Teniamo d’occhio le date.
Il romanzo esce a puntate sulla Rassegna temporanea tra il gennaio e il novembre del 1909. Si può ragionevolmente presumere sia stato scritto tra il 1907 e il 1908. Bisogna tener presente che, a quegli anni, ha già pubblicato i romanzi L’esclusa, Il turno, Il fu Mattia Pascal; una settantina di novelle, su giornali e riviste, in gran parte raccolte in sei volumi; la commedia La morsa; cinque volumetti di poesie; il saggio sull’umorismo e il primo dei due sull’Angilieri. E da nessuna di queste cose si può trarre il presagio de I vecchi e i giovani in quanto romanzo storico, in quanto romanzo di conflitti sociali: il mondo dello scrittore era già assolutamente articolato in quello che poi, per idea corrente, si intenderà nei termini «pirandelliano», «pirandellianamente», «pirandellismo» e così via.
Che cosa porta dunque Pirandello a dedicarsi a una ricostruzione storica, a scrivere un romanzo storico? Non certo, come qualcuno vuole, l’ambizione di scrivere un romanzo come I viceré: non abbiamo prova che lo amasse; e poi l’insuccesso del libro era stato tale da scoraggiare al romanzo storico, nonché Pirandello che non ne aveva la vocazione, tutti gli scrittori che in qualche modo quella vocazione sentivano. Perché, dunque, scrive I vecchi e i giovani?
Ecco: l’occasione esterna crediamo sia da ricercare nelle condizioni della provincia di Girgenti nel 1907. Nell’estate dell’anno precedente la compagnia Anglosicula aveva rinunciato a rinnovare il contratto a scadenza quinquennale, e che durava da due quinquenni, che la legava all’acquisto a prezzo invariabile di un buon sessanta per cento della produzione zolfìfera siciliana. Poiché i magazzini della compagnia rigurgitavano di zolfo invenduto, gli esercenti abbandonati caddero in preda alla paura, all’incertezza. Conseguentemente, nel 1907, si trovarono disoccupati 5.154 operai: 4.222 degli addetti all’escavazione, 932 degli addetti al trattamento.
Influivano anche, su una tale riduzione, le trasformazioni tecniche: ma in minima parte. In effetti, era la solita storia: si faceva pagare facilmente agli operai il prezzo di una crisi, e stavolta di una crisi soltanto temuta. In particolare questa riduzione, ingente in rapporto alla popolazione, colpiva le province di Girgenti e Caltanissetta.
Contemporaneamente, in quello stesso anno 1906, si verificava un massiccio ritorno di emigranti dagli Stati Uniti. E non solo di quelli che se ne erano andati cinque o sei anni prima, che almeno tornavano con un piccolo gruzzolo (un gruzzolo di cui altro non potevano fare che depositarlo nelle casse postali, poiché chi aveva terre non vendeva), ma anche di quelli che erano partiti nei primi mesi dell’anno: il che vale a dire che se poveri erano partiti, poverissimi ritornavano.
Chi, come noi, è nato in questa provincia negli anni in cui il capoluogo aveva nome Girgenti, non ha difficoltà a immaginare il quadro di desolazione e disperazione che allora poteva offrire; e l’impressione, il senso di responsabilità e di colpa, che una tale desolata e disperata realtà poteva suscitare in uno scrittore — anche in uno scrittore come Pirandello, alieno da ogni impegno civile e che più poteva esser mosso dalla pietà che dalla solidarietà.
Ma l’occasione esterna, che ci pare di intravedere nelle condizioni della provincia di Girgenti nell’anno 1907, provocava la reazione, la precipitazione, di lungo processo interiore: di un travaglio, di una ricerca, di una lenta e oscura cristallizzazione amorosa e angosciosa.
Non si potrebbe dir meglio di Gaspare Giudice: «Egli cominciò a scriverlo (I vecchi e i giovani) quando era prossimo ai quarant’anni e sentì il bisogno di raccogliere, in un unico libro, il suo giudizio sul mondo contemporaneo: concetti e sentimenti.
Si trattava di un complesso mondo di memorie e di esperienze attuali, di fatti e di parole che assumevano in lui ora una calda figura di incendio, ora un larvatico aspetto di vanità. Era l’idea di un romanzo in cui, senza calcoli, egli potesse incontrarsi a tu per tu e nello stesso teatro con la memoria e con la contemporaneità.
In tale libro, che doveva trarre pretesto dalla cronaca di avvenimenti accaduti dodici anni prima, c’era l’inconscia intenzione di un bilancio della propria vita.
Pirandello voleva rinsaldare la leggenda della sua famiglia, la memoria del paese natale, come paesaggio e come luogo di una società umana, rifondere nell’immaginazione precise fisionomie di uomini e di cose che dovevano vivere a fianco di personaggi fittizi, simbolici di stati d’animo più segreti.
Inoltre, nel libro, si voleva ripetere ogni fondamentale riflessione sulla vita, sulla società politica contemporanea, sulla convivenza nazionale. Un libro di vita e di polemica.
Oltre queste cose che, consciamente o inconsciamente, vi si volevano riversare, altre se ne trovano, più segrete e mascherate, non meno importanti. L’opera tutta di Pirandello confluisce a un certo punto in questo famoso e composito fiume-romanzo, trascinante relitti e sogni segreti».
Un appunto di Pirandello su Manzoni ci aiuta a definire quel che I vecchi e i giovani non è; poiché, citando Gaspare Giudice, abbiamo definito che cosa è.
«Quattro circostanze» — annota Pirandello — «contribuiscono a rendere l’opera del Manzoni così eccellente. Prima, che egli è uno storico insigne. Da questa dote deriva una dignità, una solidità che elevano l’opera sua sopra a tutte quelle che noi comunemente comprendiamo sotto il nome di romanzi. Seconda circostanza: la religione cattolica, dalla quale egli deriva molte situazioni poetiche, che da protestante non avrebbe potuto immaginare. Terza: che egli ha molto sofferto nelle lotte rivoluzionarie, se non per sè personalmente, pei suoi amici.
Infine circostanza favorevole al romanzo, che l’azione si svolge sulle rive incantevoli del lago di Como, in luoghi che il poeta conosce fin dall’infanzia e di cui tutti gli spettacoli sono a lui famigliari; donde la chiarezza e la particolarità meravigliosa nel disegno, che son tra i grandi meriti dell’opera sua».
Ora, tralasciando se un tale giudizio si attagli o meno al Manzoni, se interamente o in parte, cerchiamone corrispondenza nel Pirandello de I vecchi e i giovani. Ed ecco: 1) Pirandello non è per nulla uno storico (e implichiamo nello scrivere storia il credere nella storia, almeno in questo caso: di Manzoni che ci credeva ed è storico, di Pirandello che non ci credeva e non è storico) ; 2) Pirandello è in una condizione simile a quella che, alquanto gratuitamente, conferisce al protestante: nell’impossibilità di derivare da una fede o da un’idea delle «situazioni poetiche»; 3) Pirandello non ha sofferto nelle lotte rivoluzionarie, nè — per temperamento oltre che per una visione della vita — sarà mai disposto a soffrirne; e infine: Pirandello, dai «luoghi che conosce fin dall’infanzia e di cui tutti gli spettacoli sono a lui famigliari», non può trarre idea d’ordine, di chiarezza, di razionalità — un disegno, insomma, che muova e commuova razione del romanzo così come nei Promessi Sposi.
Comunque di questi quattro punti il più importante finisce coll’essere, per noi, il terzo: l’assenza, in Pirandello, di una fede o di una idea da cui derivare quelle che lui chiama «situazioni poetiche» e che noi, tout court, possiamo chiamare la situazione poetica di cui l’opera totalmente manca. E intendiamo, si capisce, la situazione poetica dell’avvenimento che avrebbe dovuto essere il centro del romanzo e ne è invece il pretesto: il sorgere dei Fasci, la loro cruenta repressione.
Ma non si può e non si deve mai pretendere da uno scrittore — e da uno scrittore come Pirandello — quel che non può dire.
Intanto, se guardiamo alla produzione letteraria italiana di quegli anni — tra il 1909, in cui il romanzo esce a puntate, e il 1913 in cui viene pubblicato in volume dal Treves — non possiamo che dirci d’accordo con Trombatore: «In quegli anni solo una intemerata coscienza di scrittore poteva attendere a un romanzo come questo». Che poi nello scrittore agissero non soltanto istinti e pregiudizi di classe, ma anche quel tipico qualunquismo avant la lettre del «galantuomismo» siciliano che principalmente si esplicita nella diffidenza verso la politica, nel disprezzo verso i politicanti, non è da meravigliare.
E sappiamo benissimo che tutto ciò, combinandosi con i suoi furori e coi suoi candori, lo consegnerà al fascismo: ma è ormai tempo di dire che il fascismo non è stato soltanto la vocazione degli italiani peggiori, ma anche l’errore di molti dei migliori.
Ma quali che siano stati gli errori, le confusioni ideologiche, i pregiudizi le debolezze, la probità dello scrittore in quanto scrittore vi è superiore.
Dai confini del nulla su cui la sua opera si dispiega, ad un punto della sua vita, su un punto doloroso della storia siciliana, egli ha voluto, come il Sigfrido di Giraudoux, fare una scelta: da «uomo sulla terra», soltanto «uomo sulla terra», quale si dichiarava ed era, ha voluto fare la scelta di essere siciliano.
E come il senso ultimo del romanzo è nel morire di Mauro Mortara dalla parte giusta, ucciso dai soldati del Regno d’Italia, questo mettersi dalla parte giusta dello scrittore, sia pure attraverso la pietà e nell’affermazione di un sicilianismo viscerale più che razionale, è un fatto di cui qui ed oggi è giusto tenere conto.
LEONARDO SCIASCIA