
il poeta ad agrigento grand tour senza diario
Come spinto da una sorta di demoniaca coazione a vagare, l’ autore del “Don Juan” toccò anche le nostre sponde.
Come ha dimostrato di recente il giornalista agrigentino Angelo Palillo, esperto di letteratura di viaggio, autore tra l’ altro del volume “Agrigento turistica: cronaca di due secoli dell’ industria turistica della più bella città dei mortali”, che ha pazientemente spulciato tra le lettere di Byron, non trascurando le pagine dei diari di quanti lo affiancarono nelle sue peregrinazioni. E subito la prima sorpresa: il poeta inglese, simbolo del maledettismo romantico, arrivò in Sicilia nel 1809: cioè nell’anno in cui decise di partire, come ogni buon giovane lord, per il grand tour, ossia l’ immancabile viaggio d’ istruzione nel Continente che allora era giudicato indispensabile per ogni patrizio.
Dunque, non è vero, come raccontano in tanti, che Byron arrivò in Italia, “paradiso degli esiliati” come l’ aveva definita Shelley, per la prima volta nel 1816, quando riprese a viaggiare dopo il suo ritorno in Gran Bretagna. E visto che oramai si approssima l’ anniversario (1809-2009), il comune di Porto Empedocle ha colto la palla al balzo: il sindaco Calogero Firetto ha infatti deciso di dedicare una serata in onore di lord Byron, con tanto di targa da scoprire, presenza del console inglese, e lettura dei versi del grande poeta. Tutto questo perché, come ha dimostrato sempre Angelo Palillo, il bardo inglese salpò da Porto Empedocle per Malta il 30 agosto del 1809. Ma passiamo subito in rassegna le fonti: la prima è una lettera scritta da Byron stesso alla madre, da Malta, il 15 settembre del 1809.
Scrive a un certo punto Byron:
«Tu hai visto Murray e Robert in questo periodo e ricevuto la mia lettera. Poco è accaduto fin da quella data. Io ho toccato la città di Cagliari in Sardegna, e Girgenti in Sicilia, e mi imbarcherò domani per Patrasso, da dove procederò verso Yanina, dove Ali Pachà tiene la sua corte. Quindi io sarò presto fra i Mussulmani. Addio». «E’ lo stesso poeta – spiega Palillo – a far riferimento al suo soggiorno nell’ Isola. Da questa lettera, dunque, la prima conferma: non si tratta soltanto di illazioni, né di fraintendimenti, visto che molti negli anni hanno confuso Byron con Brydone, il noto viaggiatore il cui resoconto del grand tour ha avuto un grandissimo successo, potendo vantare almeno trenta edizioni». Dunque, Byron visitò il Portogallo, la Spagna, Gibilterra, la Sardegna, la Sicilia e Malta, la Grecia, l’ Albania e la Turchia e nuovamente la Grecia.
Questo viaggio gli ispirò i primi due canti di “Childe Harold’ s Pilgrimage”, una specie di “guida emozionale dei paesi visitati” come la definì Mario Praz, che al suo apparire (1812) incontrò immenso successo. Un successo dovuto soprattutto alla felice scelta dell’ argomento, trasportando nel canto della poesia un genere di letteratura, ossia i libri di viaggio, che in quel tempo era seguito con attenzione e avidità. Va detto che oltre alla curiosità per il pellegrinaggio (soprattutto la Grecia e il Levante), si aggiungeva quella per il pellegrino, bello e impossibile (anche se affetto da “piede equino”: una sorta di marchio leopardiano di infelicità) discendente lontano del Satana di Milton, misantropo, irriverente e tenero di cuore, generoso e avido: insomma, una sorta di caravaggesco chiaroscuro vivente.
Tanto che il 9 maggio 1816 fu pubblicato il romanzo gotico di Lady Caroline Lamb, intitolato “Glenarvon”, in cui Byron nelle vesti di Lord Glenarvon, ricopre il ruolo di un geniale e pericoloso seduttore, malinconico e non alieno ad alcun misfatto. Per tornare al passaggio di Byron in Sicilia, in “Childe Harold’ s Pilgrimage“, come nelle opere successive, non si trovano altri cenni sul suo passaggio a Girgenti. Per avere altri riferimenti sul viaggio del bardo, Palillo ha consultato gli scritti dei sodali del poeta. Decisiva la testimonianza, per il preciso riferimento temporale, di John Cam Hobhouse, compagno di studi di Byron, che scrive nel suo diario: «Mercoledì agosto 30 1809. In mare – tutto il giorno vedemmo la costa della Sicilia, pieno di villaggi e case distaccate, con macchie coltivate, inoltre vestigia di grandi castelli sui picchi di alte colline. Sciacca, vicino l’ antica Selinunte, una città bella, apparentemente come Brighton. Come noi c’avviciniamo a Girgenti il paese che appariva più sterile, con due macchie verdi verso la costa.
Avvistammo con un cannocchiale le rovine di un tempio, le colonne e, sotto la città, l’ antica Agrigentum su una collina. Sbarcammo nel porto sul molo, verso le sette e trenta. A nessuno tranne per Byron e me, obstantibus omnibus, fu permesso di scendere dalla barca. Andammo dal Capitano del Porto, il quale viveva in una casa grande e desolata, vestito con un cappotto celeste con un epaulette d’ oro e che non poteva sillabare “Townshend” (il nome dell’imbarcazione su cui viaggiavano, ndr).
Fu consegnata la posta, e ritornammo mentre soffiava una brezza eccellente alla nave». è probabile dunque, come a lungo si è sospettato, che Byron abbia visitato davvero la valle dei templi al chiaro di luna, come si legge nel libro di un suo biografo. Successivamente, fa notare ancora Palillo, il poeta Samuel Claggett Chew nel 1924, in una pagina del suo libro “Byron in England: His Fame and After-fame”, scrisse: «He passed Spain, Morocco, Agrigentum (“no hellish Phalaris” is there now); Malta…», con uno strano ma preciso riferimento al tiranno agrigentino. C’ è poi un altro aspetto che lega a doppio filo Byron alla Sicilia: la lettura che della sua opera fece un critico d’ eccezione, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il quale nelle sue lezioni di letteratura inglese dedicò ampio spazio all’ autore di “The Corsair”. E a un certo punto, addirittura scrive: «E adesso che la lirica ha voluto abbandonare una delle sue armi più potenti (quella sarcastica ed epigrammatica, ndr) siamo costretti a dire che nel 1954 quel che occorrerebbe alla nostra società… sarebbe un Byron, un poeta cioè che non fosse schiavo del pubblico o degli editori, un poeta con venti milioni di reddito, che osasse “appeler un chat un chat et Rolet un fripon”». Insomma, uno che non avesse peli sulla lingua. Cosa che a Byron, nella sua vita e anche dopo, costò non poco.
SALVATORE FERLITA
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