DI GIUSEPPE RUSSO, C.SS.R.
LUIGI PIRANDELLO E I REDENTORISTI: IL PIRANDELLO IN TRE SUOI LAVORI CI DA NOTIZIE VERE E NON VERE SUI REDENTORISTI DI AGRIGENTO
- — Le disavventure dei Redentoristi tra il 1848 e il 1860; 2. — Con la partenza dei Redentoristi non si spense l’amore dei girgentini verso di loro; 3. — Il Pirandello sta con «il Dio di dentro» e rifiuta «il Dio di fuori»; 4. — II Pirandello disconosce l’opera sociale della Chiesa girgentina, denigrando il clero e il vescovo; 5. — Pirandello nelle sue opere parla di una somma di denaro appartenente ai Redentoristi; 6. — Il Pirandello cita due opere di sant’Alfonso impropriamente; 7. —La seconda parte della novella «Difesa di Meola» nella realtà non ha alcun fondamento.
- — Le disavventure dei Redentoristi tra il 1848 e il 1860
L’interesse di Luigi Pirandello verso i Missionari Redentoristi o Liguorini, dal cognome del loro fondatore sant’Alfonso Maria de Liguori, parte in qualche modo dalla storia della sua famiglia. Infatti la madre dello scrittore, Caterina, era una Ricci Gramitto, figlia dell’avvocato Giovanni, antiborbone, ardente assertore dell’unità d’Italia, con idee liberalmassoni e nipote del canonico Innocenzo Ricci Gramitto, che scalò tutti i gradini in seno al Capitolo dei Canonici della Cattedrale di Girgenti e fu anche Vi-cario Generale.
Giovanni Ricci Gramitto, Giovanni Battista Picone, Gaetano Nocito, i fratelli Mariano e Francesco Gioeni con la presidenza di Bianchini furono i componenti del Comitato rivoluzionario, che guidò il popolo girgentino nella rivolta contro i Borboni del gennaio del 1848 (.G. PICONE, Memorie storiche agrigentine, ristampa anastatica, Agrigento 1982, 609-614.)
Cacciato dalla Sicilia l’esercito borbonico e insediata il 25 marzo l’Assemblea Nazionale, il primo compito del Parlamento Siciliano fu di reperire i fondi per costituire un esercito siciliano. Si pensò di dare ai banchieri come caparra gli ori delle chiese e i beni dei Gesuiti e dei Redentoristi, che erano creduti referenti del governo borbonico. Infatti furono soppressi e i loro beni in-camerati nei giorni in cui venivano ricordati i loro Fondatori: i Gesuiti il 31 luglio, festa di sant’Ignazio di Lojola, e i Redentori-sti o Liguorini il 2 agosto, festa di sant’Alfonso Maria de Liguori (M. BELTRAMI SCALIA, Rivoluzione di Sicilia (memorie storiche), vol II, Roma 1932, 180-181. È con la riforma liturgica del Concilio Vaticano II che la memoria di sant’Alfonso si celebra il 1° agosto).
L’anno successivo, ritornati i Borboni in Sicilia per opera del generale Carlo Filangeri, detto il Satriano, i girgentini, che avevano applaudito alla cacciata dei Borboni, di nuovo fecero il voltafaccia e mandarono a Caltanissetta dei delegati per dare la loro sottomissione al governo legittimo costituito. Furono ricevuti dal Satriano ed ottennero il decreto di amnistia, già pubblicato a Catania il 22 aprile 1849. Però dal decreto furono esclusi i componenti del Comitato rivoluzionario, che si rifugiarono a Malta. Qui l’avvocato Giovanni Ricci Gramitto, si fece venire la famiglia, ma il primo agosto del 1850 morì «consunto per la dispe-razione e la lontananza della sua terra» (A. CAMILLIER1, Biografia del figlio cambiato, Milano 2000, 28-29).
La casa dei Redentoristi di Girgenti per volere del re Ferdinando II fu riaperta e consegnata ai legittimi proprietari il 1° agosto 1849 tra il giubilo del popolo. Della cacciata dei Redentoristi di Girgenti non abbiamo alcuna documentazione, soltanto abbiamo una lettera del padre Antonino Lauria del 28 febbraio 1854, indirizzata al cardinale Cosenza, visitatore straordinario per le case dei Redentoristi del Regno delle due Sicilie, ove descrive la brutta sorte, che sortì in quel frangente:
«Con ogni rispetto sottopongo alla considerazione dell’ai. V. Rev.ma, come io ebbi restituita dell’augusto nostro Sovrano questa Casa già ridotta nelle passate vicende a quartiere de’ forzati evasi. Ho dovuto quindi soppendere ad ingenti spese di rifrazione, mobilia, e quando altro richiedesi per una nuova fondazione» (APPR (Archivio della Provincia Palermitana CSSR) V C 19..
La permanenza dei Redentoristi a Girgenti non durò a lungo, poiché undici anni dopo con l’arrivo dei Mille furono ancora soppressi, ma questa volta anche espulsi e mandati in esilio a Malta. Il decreto di espulsione fu promulgato dal dittatore Giuseppe Garibaldi e controfirmato dal Segretario di Stato dell’Interno e della Sicurezza Pubblica Francesco Crispi il 17 giugno 1860 (G. Russo, I Redentoristi in Agrigento, Agrigento 2005, 309-310 Cfr APPR V C ).
L’espulsione dei Redentoristi fu vissuta dai massoni come una vittoria, convinti che fossero legati a doppia corda con la casa borbonica, ma non così dal popolo girgentino, che sperava in un loro pronto ritorno, come era accaduto nel 1849.
Perché tanto odio verso i Redentoristi da parte dei liberal-massoni?
Tutti sapevano dei buoni rapporti che passavano i Redentoristi napoletani con la casa reale borbonica, specialmente con Ferdinando II. I girgentini di questa amicizia avevano usufruito per non aver soppressa la loro Provincia nel 1828 (PICONE, Memorie storiche agrigentine, 594-595. Il p. Calogero Giacone, redentorista, scriveva il 26 marzo 1829 al p. Celestino Code, superiore generale redentorista, che poi divenne consigliere del re Ferdinando II e confessore dei suoi figli: «La città in quei giorni ha in bocca il nome e i favori di Vostra Paternità per la grazia ricevuta»).
Essendo stato internazionalizzato nel 1847 il Consiglio generale redentorista con l’introduzione di quattro consiglieri stranieri per volere della Santa Sede, il superiore generale, padre Vincenzo Trapanase, siciliano di Aragona, pensò di presentarlo al re Ferdinando II. Ricevutoli a Caserta, il re tenne un discorso e tra le altre cose disse: «S. Alfonso ha fondato la sua Congregazione anzitutto per il mio regno; è qui che Dio la benedirà».
Poi, congedandoli, ripeté questa frase in francese, e rivolto al Trapanese disse: «Spero che questi padri ne saranno convinti, quanto me» (Cfr DE MEULEMEESTER, Histoire, 153. Citazione presa da J. LOOYAARD, Vie de S. E. le Cardinal Dechamps (mss in AGFIR Bio 1/2), I, 141.)
Da questo rapporto privilegiato dei Redentoristi napoletani con il re facilmente nacque per riflesso nei liberalmassoni siciliani l’odio verso i Redentoristi di stanza in Sicilia.
Non passarono molti giorni dal decreto garibaldino che il 25 giugno si presentò in nome di Vittorio Emanuele, re d’Italia, alle ore sedici secondo il computo antico, cioè alle ore nove attuali, la Commissione, eletta dal Governatore del Distretto, nella portineria della casa dei Redentoristi, sita nel quartiere di san Gerlando. La Commissione era formata dai signori Giuseppe Belli, direttore dei Rami Riuniti della Provincia di Girgenti, Gaetano Deluca, Michele Bonadonna e dal baronello Giovanni Celauro, ricevitore dei Rami e Diritti Diversi con i notai Salvatore Fasulo di Girgenti ed Alfonso Lo Presti, notaio con la residenza in Canicattì, di passaggio, per stilare «l’inventario degli oggetti mobili, mobiliari ed immobili pertinenti alla casa di questi reverendi padri liguorini», di già disciolti, come risulta dal decreto dittatoriale del diciassette corrente giugno’ (Cfr APPR, III A 1, Inventario della casa dei PP. Liguorini e della chiesa di Sant’Alfonso, fatto all’epoca della loro soppressione, cioè dal 25 giugno al 7 luglio 1860, 1 e 1 retro) .
La commissione trovò i seguenti padri Antonino Maria Lauria di Naro, rettore, Filippo Dolcimascolo di Sciacca, ministro-economo, Gaspare Ciaccio di Sciacca, Paolo Lo Jacono di Siculiana, Giacomo Dolcimascolo di Sciacca, Vincenzo Traina di Misilmeri, Pietro Cupani di Canicattì, Luigi Spina di Valguarnera, e i fratelli coadiutori: Rosario Adduca di Maschito, Leopoldo Amato di Girgenti, Carmelo Ricciardi di Girgenti, Natale Ballo di Palermo, mentre i padri napoletani Giuseppe Zanchelli e Carmelo Alfano erano già partiti per Napoli, e il fratello Diego Savatteri di Canicattì stava a Mazara del Vallo a servire il vescovo re-dentorista Carmelo Valenti’.( 9 Cfr Russo, I Redentoristi in Agrigento, 317-318.)
La commissione, riunita la comunità, lesse la dittatoriale disposizione. Ascoltata la lettura, tutti indistintamente si dichiararono pronti di lasciare la casa e di consegnare ciò che «vi è di mobile, immobile, mobilia, ed effetti mobiliari, appartenenti alla casa». (APPR, III A 1, Inventario della casa dei PP. Liguorini…,)
L’inventario fu compilato in tredici giorni e fu un calvario per la comunità, perché i singoli soggetti stettero in prigione nelle proprie stanze senza la possibilità di comunicare tra di loro. Infatti per maggiore cautela la Commissione pregò il comandante maggiore della Guardia Nazionale di disporre che una sezione di militi guardasse a vista, giorno e notte, sia le persone che le cose esistenti”. (Ibid).
L’ll luglio gli undici componenti la comunità di Girgenti con altri cinque confratelli venuti da Sciacca e da Calatafimi lasciarono la casa e la chiesa, inaugurata appena sei anni prima, che aveva consumato il frutto delle loro fatiche, vivendo nella massima povertà. Solo fratello Rosario Adduca restò a Girgenti, non per custodire la casa, ma perché ammalato ed inabile. (Ibid).
Accompagnati dalla guardia nazionale di buon mattino per evitare qualche sommossa, furono condotti al Molo. Si imbarcarono sul veliero, «Adriana», di Pasquale Marullo, che era stato incaricato di mettersi a disposizione dai fratelli Alfonso e Marco Marullo, magazzinieri del barone Ignazio Genuardi”. (Cfr S. Alessi, Servo di Dio Fratello Rosario Adduca, redentorista, Agrigento 1997, 65).
- — Con la partenza dei Redentoristi non si spense l’amore dei girgentini verso di loro Fratello Rosario, che era stato sacrista prima nella chiesa di santa Maria dell’Itria e poi nella nuova chiesa di sant’Alfonso e massaro nella Biblioteca Lucchesiana, non visse a lungo. Infatti morì il 19 agosto 1860, giorno in cui si celebrava, quell’anno, la festa di sant’Alfonso. Fu un accorrere di fedeli e il suo funerale fu una apoteosi. Alcuni girgentini fecero una colletta e commissionarono al pittore Onofrio Zirafa di riprodurlo sul letto di morte. L’iscrizione latina, posta sotto l’immagine, fu composta dall’avvocato penalista Giovanni Battista Picone (Ibid., 8).
Fratello Rosario, come aveva chiesto ad Alfonso Manto, l’uomo che con tanto amore l’accudì negli ultimi giorni, fu sepolto ai piedi dell’Addolorata, nei pressi dell’altare del Redentore, il primo a sinistra di chi guarda l’altare centrale, accanto al presbiterio. Le autorità non apposero ostacoli’ (Ibid).
La morte di fratello Rosario confermò l’amore e la stima dei girgentini verso i Redentoristi.
Per valutare l’odio dei massoni verso i Redentoristi è utile riportare una lettera del 20 gennaio 1914, a dieci giorni del loro arrivo a Girgenti.
Il sacerdote Giuseppe Modica, per incarico di monsignor Bartolomeo Lagumina, vescovo di Girgenti, scrive a Palermo al padre Salvatore Dispensa, superiore provinciale dei Redentoristi, suo cugino, comunicando il cambiamento del programma per il loro ingresso a Girgenti, voluto dal vescovo. La motivazione di questo cambiamento fu per non dare addito a reazioni negative da parte dei liberali, cioè dei massoni:
«Il Vescovo vuole che voi, anziché con un triduo di Qua-rantore, apriate la vostra venuta con una muta di Esercizi al popolo… » (ACA (Archivio Casa Agrigento CSSR), Carpetta Modica. Ibid).
E poi riferì perché il vescovo vuole questa mutazione:
«Siamo in tempo di lotta; facendo tanto clamore i nostri liberali della città nostra potranno suscitare qualche interpellanza al Parlamento e quindi potranno venire dei grattacapi. Così si dirà e si farà capire che i Padri Liguorini verranno per una sacra missione al popolo, che per simpatia ed amore li ha trattenuti ad una stabile dimora» (Ibid)
Il Modica prosegue:
«Ebbene, noi, qualunque sia l’apprezzamento o il commento che potrebbe farsi su tale ragione, siamo indifferenti al programma; quello che noi vogliamo che vengano presto i Liguorini. Sì, il popolo li vuole, li vuole a qualunque costo, e si duole che il numero dei Padri per ora sia sparuto.
Oh! quanti uomini e donne aspettano a voialtri per riconciliarsi con Dio. Io non posso camminare più in città, perché tutti mi fermano, tutti mi domandano con ansia: Quando verranno i Padri? Anche il Rettore del Seminario n’è contentissimo e si è offerto a mandare i seminaristi con la magnifica scuola di canto che animerà la messa solenne.
In quanto al vescovo bisogna compatirlo, perché lui forse temerebbe di perdere la protezione del Governo e quindi la pagnotta di quaranta mila lire» (Ibid).
Ormai, stabilita la data della venuta il primo febbraio, il vescovo mandò a chiamare il Modica e gli disse:
«Scriverà al suo cugino e gli dirà che io manderò la mia car-rozza col mio rappresentante, il sig. Can. Puma, mio segretario, a rilevarli alla stazione. Dirà ch’è mio assoluto piacere che domenica, dopo le funzioni che si faranno a S. Alfonso, vengano tutti e quattro a pranzare con me nel mio palazzo. Sicché in quanto a questo lui non pigli nessun pensiero» (Ibid., lettera del 28.01.1914).
L’accoglienza ai Redentoristi fu molto calorosa. Il sacerdote Angelo Di Piazza, rettore della chiesa di sant’Alfonso, il 29 gennaio 1914 aveva fatto stampare un manifesto – invito, che distribuì alla cittadinanza, ove diceva che il primo febbraio avrebbero fatto il loro ingresso i Missionari Redentoristi. (ACA, Carpetta Modica )
Infatti «Il Cittadino Cattolico», settimanale della Provincia di Girgenti, nella cronaca con il titolo «I Padri Liguorini a Girgenti» così descrisse l’arrivo e l’accoglienza:
«Il 1° c. m. arrivarono fra noi i tanto attesi figli di S. Alfonso.
Fin dalla mattina si notava in città un’insolita animazione. Alle ore 11 le rappresentanze di S. E. Mons. Vescovo, del Rev.mo Capitolo, dal Clero, del Seminario, della Federazione diocesana e di tutte le associazioni cattoliche della città in parecchie carrozze — gentilmente favorite da Mons. Vescovo, dal B.ne Giudice, dal Cav. La Rizza, dalla Duchessa Contarini e dalle famiglie Borsellino, Caruana, Cara — si recarono, alla stazione a rilevare i buoni Missionari, che appena arrivati vennero fatti segno a vive dimostrazioni di stima e di affetto e furono accompagnati alla Chiesa di S. Alfonso, già rigurgitante di devoti fedeli. Qui il Rev.mo Can. Gaglio diede dal pulpito il benvenuto ai Rev.di Padri con parole vibranti di entusiasmo e di santo zelo, magnificando l’efficacia della loro predicazione apostolica e invitando i fedeli a trar frutto dall’opera che essi compiranno in mezzo a noi. Gli rispose, vivamente commosso, il P. Dispensa, Provinciale dei Liguorini e nostro concittadino, il quale, dopo aver accennato con quanta ansia egli avesse sospirato questo giorno, ringraziò dal profondo del cuore in primo luogo S. E. Mons. Vescovo, che tanto benignamente aveva accolto l’iniziativa di una loro missione in Girgenti, e quindi tutte le rappresentanze che costituivano il comitato nonché il numeroso popolo accorso, e chiuse augurandosi che come essi si mettevano a disposizione di tutti, cosi tutti profittassero dell’opera loro per il bene delle loro anime e per la gloria di Dio.
Ebbe luogo poi la messa solenne celebrata dal Rev.mo P. Provinciale assistito dai PP. Pitoni e La Lomia. Vi prese parte la Schola cantorum del Seminario che eseguì con soddisfazione del pubblico una messa del Perosi sotto la competente direzione del Sac. Prof. Doumulin. Alla messa seguì il canto del Te Deum e la Benedizione col Divinissimo» (N. 4, del 18 febbraio 1914, p. 2; cfr CCA (Cronaca Casa Agrigento).
Terminata la lunga celebrazione, i padri passarono in pa-lazzo per ossequiare il vescovo. Furono accolti amorevolmente, e trattenuti a pranzo. (CCA).
Poi passarono a prendere possesso della loro abitazione, situata nel palazzo Portolano, di fronte alla chiesa dell’Itria, appartenente ai parenti della famiglia della moglie di Pirandello (Ibid)
Questo era il clima che trovarono i Redentoristi a Girgenti: un popolo osannante e i liberalmassoni a guardare. In verità i Redentoristi dal loro arrivo non sono stati mai ostacolati nel loro apostolato. Hanno operato sempre liberamente e la loro predicazione sia nella chiesa di sant’Alfonso che nelle altre della città è stata seguita con larga partecipazione di popolo. Non di meno i girgentini, provenienti numerosi da qualunque parte della città, hanno fatto richiesta dell’amministrazione del Sacramento della Penitenza”(Ibid).
Quando i Redentoristi violentemente furono costretti a interrompere il loro apostolato missionario, lasciarono nel tessuto popolare un ricordo indelebile per il loro spirito di sacrificio, per il distacco al denaro, ma in modo speciale per la sete delle anime, che venivano nutrite da sana dottrina. Tanto che spesse volte, trovando paesi in guerra con gruppi contrapposti, riuscivano a riportare la pace (Russo, I Redentoristi in Agrigento, 257-261).
Significativo è il termine Patruzzi, che, sin dall’inizio del loro arrivo in Sicilia, il popolo siciliano ha coniato per significare il loro amore e la loro riconoscenza.
Ricostituita la Congregazione del SS. Redentore in Sicilia nel 1881 a Mazara del Valle (Ibid., 331-337). e riprese le sante missioni nel 1903 trovarono accoglienza e plauso ovunque. (G. Russo, Isidoro Fiorini, missionario redentorista, Palermo 1999, 122-144).
Immemorabili restarono le missioni di Sciacca, Siculiana, Cammarata, Sambuca, Menfi, Aragona, Favara… per citare solo quelli della provincia di Girgenti. (ID., Ricerche e appunti sulle missioni redentoriste in Sicilia, partite dalla casa di Uditore, 1897-1939, Palermo 1984, dattiloscritto).
- — Il Pirandello sta con «il Dio di dentro» e rifiuta «il Dio di fuori»
Luigi Pirandello descrive l’avversità del liberalmassoni verso i Redentoristi in tre suoi lavori: nel romanzo «I vecchi e i giovani» («I vecchi e giovani» è un romanzo diviso in due parti, la prima parte è ambientata a Girgenti e la seconda parte a Roma. La trama si svolge nel tempo dei Fasci Siciliani.), e nelle novelle «Difesa di Meola»” (Novella pubblicata in «Il Marzocco» 1’8 agosto 1909. In questa novella si parla a lungo dei Redentoristi e qui Pirandello esprime i suoi giudizi su di essi). e «Visto che non piove… (Pubblicata in E0 (Studio Editoriale Lombardo) nel 1915, presumibilmente composta nel 1914., del trittico «Tonache di Montelusa»).
Questo clima avverso ai Redentoristi, coltivato solo da un gruppo molto ristretto di girgentini, lo scrittore lo ha respirato in famiglia, specialmente dalla madre Caterina, che aveva conservato l’astio verso i Redentoristi, amici del Borboni. Benché con la morte di Giovanni Ricci Gramitto, la cognata con i figli fossero stati ospitati in casa dello zio canonico, Innocenzo, in Via Duomo, il loro atteggiamento antiborbonico e anticlericale non mutò. Infatti mentre lo zio canonico cantava il «Te Deum» in Cattedrale per il ritorno dei Borboni in Sicilia, la nipote Caterina, futura madre di Luigi Pirandello, confezionava nel sottoscala le bandiere tricolori.
Nella missione di Sciacca del 1903 il popolo a viva voce ripetutamente in chiesa, interrompevano le prediche, e gridavano:
«I Padri non partiranno da Sciacca, Viva la misericordia di Dio, Viva la Missione, Viva i figli di sant’Alfonso». Infatti nel 1904 vi si stabilirono, anche se i liberalmassoni fecero una qualche opposizione”.( Russo, Isidoro Fiorini, 126-128)
Per riaverli a Girgenti si formò un comitato da personaggi eminenti, capeggiato da monsignor Angelo Di Piazza, rettore della chiesa di Sant’Alfonso, che esprimeva la volontà popolare”. (CCA, Carpetta Di Piazza).
Il Pirandello nelle sue opere mostra nessuna stima verso gli uomini di Chiesa, poiché ha tutta una concezione particolare della Chiesa. Infatti in «Uno, nessuno e centomila», fa la distanzio-ne tra Dio di dentro e Dio di fuori. Il Dio di dentro è l’esperienza privata, personale, individuale, spirituale della religione, mentre il Dio di fuori è la religione organizzata, cioè come struttura, clero, gerarchia, finanze, una moltitudine di edifici, culto esteriore di massa. Anche ne «I vecchi e i giovani» fa la distinzione tra religione come vita interiore e religione come organizzazione nel mondo esterno. Nocio Pigna, per esempio, osserva: «Altro è Dio, altro il prete ” (Cfr Il Dio di fuori: Chiesa letterale e chiese metaforiche, di John Barnes, in I vecchi e i giovani: storia, romanzo, film, a cura di Enzo Lauretta. Ed. del Centro Nazionale Studi Pirandelliani, Agrigento 2006, 249).
- — Il Pirandello disconosce l’opera sociale della Chiesa girgentina, denigrando il clero e il vescovo
Il Pirandello, seguendo la concezione del «Dio di dentro», non mostra alcuna stima verso il clero girgentino con a capo il suo vescovo e non riconosce il loro operato a favore del popolo. Eppure dopo l’unità d’Italia la chiesa girgentina ha avuto due vescovi, che brillano per sapienza ed operosità, i monsignori Domenico Turano (D. DE GREGORIO, La Chiesa Agrigentina, notizie storiche. IV: L’Ottocento, Agrigento 1999, 215-255) e Gaetano Blandini (Ibid., 259-241).
Uno storico oggi, ignorando il loro operato, non potrebbe stendere con oggettività la storia della Provincia agrigentina, perché sarebbe una storia monca.
Nel romanzo «I vecchi e i giovani» Pirandello così presenta il clero girgentino:
«Fortuna che finora li a Girgenti nessuno si moveva, né accennava di volersi muovere! Paese morto. Tanto vero — dicevano i maligni — che vi regnavano i corvi, cioè i preti. L’accidia, tanto di far bene quanto di far male, era radicata nella più profonda sconfidenza della sorte, nel concetto che nulla potesse avvenire, che vano sarebbe stato ogni sforzo per scuotere l’abbandono desolato, in cui giacevano non soltanto gli animi, ma anche tutte le cose» (L. PIRANDELLO, I vecchi e giovani, Oscar Mondadori, Milano 1970, 15).
E il vescovo, che qui è chiamato monsignor Montoro:
«Dal canto suo, Monsignore avvertiva che tra lui e il principe c’era un sentimento non ben definibile, che spesso da una parte e dall’altra s’arricciava, si ritraeva, lasciando tra loro un vuoto impiccioso, dal quale venisse dentro a ciascuno dei due una certa lieve acredine rodente. Forse questo vuoto era fatto da un argomento, che Monsignore sapeva di non poter toccare, e che pure era tanta parte della vita del principe: cioè, i suoi studii archeologici, il suo culto per le antiche memorie. Non poteva toccalo, quest’argomento, per timore che fosse pretesto a don Ippolito di riparlargli d’una cosa, di cui egli, uomo di mondo e senza ubbie d’alcuna sorta, non voleva sapere. Più volte il principe aveva cercato d’indurlo a consacrare almeno una piccola parte della sua cospicua mensa vescovile al restauro dell’antico Duomo, insigne monumento d’arte normanna, deturpato nel Settecento da orribili costruzioni di stucco e volgarissime dorature. Egli s’era rifiutato, dicendogli che, se mai fosse riuscito a metter da parte qualche risparmio, lo avrebbe piuttosto destinato a costituire una rendita, per cui al convento di Sant’Alfonso, lì presso la cattedrale, potessero ritornare i Padri Liguorini cacciati dopo il 1860. ( Ibid., 111)
E nella novella «Difesa di Meola», il vescovo è chiamato Vi-tangelo Partanna, e lo imbalsama in una figura tetra, mettendolo in contrasto con le bellezze naturali della città di Girgenti:
«Un incubo orrendo gravava su tutti noi Montelusani, da undici anni: dal giorno nefasto che Monsignor Vitangelo Partanna, per istanze e mali uffizii di potenti prelati a Roma, ottenne il nostro vescovado.
Avvezzi com’eravamo da tempo al fasto, alle maniere gioconde e cordiali, alla copiosa munificenza dell’Eccell.mo nostro Monsignor Vivaldi (Dio l’abbia in gloria!), tutti noi Montelusani ci sentimmo stringere il cuore, allorché vedemmo per la prima volta scendere dall’alto e vetusto Palazzo Vescovile, a piedi tra i due segretarii, incontro al sorriso della nostra perenne primavera, lo scheletro intabarrato di questo vescovo nuovo: alto, curvo su la sua trista magrezza, proteso il collo, le tumide e livide labbra in fuori, nello sforzo di tener ritta la faccia incartapecorita, con gli occhialacci neri su l’adunco naso. I due segretarii, il vecchio don Antonio Sclepis, zio del Mèola, e il giovane don Arturo Filomarino (che durò poco in carica), (Facilmente è il giovane sacerdote Michele Sdafani, che negli ultimi anni del Blandini ne fu segretario, ma con la nomina di monsignor Bartolomeo Lagumina fu subito esonerato, perché troppo interessato di questioni sociali, scegliendosi il sacerdote Pietro Di Puma, che lo servì sino alla morte) si tenevano un passo indietro e andavano interiti e come sospesi, consci dell’orribile impressione che Sua Eccellenza destava in tutta la cittadinanza. E infatti parve a tutti che il cielo, il gajo aspetto della nostra bianca cittadina s’oscurassero a quell’apparizione ispida, lugubre. Un brulichio sommesso, quasi di raccapriccio, si propagò al passaggio di lui per tutti gli alberi del lungo e ridente viale del Paradiso, vanto della nostra Montelusa, terminato laggiù da due azzurri: quello aspro e denso del mare, quello tenue e vano del cielo» (L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, «Difesa di Meola», vol. I, t. I, Milano 2001, 109-110).
Il Pirandello denigra il Blandini e si schiera totalmente da quella parte, che guarda e legge gli avvenimenti della Chiesa girgentina solo in negativo, sino ad arrivare a disconoscerli. Infatti non fa alcun accenno a tutto il movimento sociale della Chiesa girgentina, iniziato nell’ultimo decennio dell’ottocento e concluso violentemente con l’avvento del Fascismo.
Il Blandini, quando venne a Girgenti, portò un bagaglio di impegno sociale e un’entusiasmo pastorale, che accrebbe man mano sempre più, non ponendo limite a fatiche e a iniziative, tanto che morì sulla breccia a Canicattì.
Infatti il Blandini aveva svolto attività pastorale in parrocchia, era stato accanto al vescovo di Caltagirone Antonio Morana come segretario ed era stato a quarantasei anni nominato prelato di S. Lucia del Mela col titolo di vescovo titolare di Sergiopoli.
Giunto a Girgenti stette per circa due anni accanto a mon-signor Domenico Turano nella qualità di coadiutore, arricchendo le iniziative, che già esistevano, quali l’istruzione religiosa degli adulti con il catechismo dialogato con sede stabile nella chiesa di san Giuseppe e le conferenze mensili per la formazione del clero.
All’inizio del suo episcopato scoppiò il colera in Sicilia. Per venire incontro ai gravi disagi della popolazione diede delle norme al clero come affrontarlo.
Incrementò la pratica dell’ora santa da farsi la prima o la terza domenica di ogni mese e ne scrisse una, che sino al qualche decennio fa i fedeli la recitavano a memoria.
Invitò Don Giovanni Bosco a mandare i Salesiani a Girgenti e a Licata.
Riformò il seminario dando un regolamento ai seminaristi e costruì quello estivo di Favara.
Fu un instancabile annunciatore della Parola di Dio, non mettendo limite alle fatiche, utilizzando le ottime doti oratorie, che possedeva.
Visitò i paesi della diocesi per rendersi conto della situazione religiosa e sociale.
Ancora oggi il Blandini è ricordato con ammirazione per l’incremento dei Circoli cattolici, per i Congressi e i Comitati cittadini, le Adunanze diocesane dei comitati parrocchiali, le Casse rurali e artigiane, l’affitto dei feudi, la Banca Cattolica S. Gaetano e il settimanale «Il Cittadino Cattolico», che sostenne. (Cfr DE GREGORIO, La Chiesa agrigentina, L’Ottocento, 259-346).
Immemorabile è restato nella storia della Provincia e della diocesi di Girgenti il «Secondo Congresso Cattolico della Regione Sicula dell’Opera dei Congressi e de’ Comitati Cattolici in Italia», celebrato a Girgenti dall’8 all’il ottobre 1896.
Questo Congresso regionale l’anno precedente era stato preceduto da un Congresso diocesano, celebrato subito dopo il primo Congresso regionale di Palermo, che aveva suscitato un grande entusiasmo sia nel Blandini che nel clero e laicato girgentino.
Nel primo Congresso provinciale così si espresse il prevosto di Licata don Raimondo Incorvaia in favore delle classi rurali e artigiane:
«Lo stato miserando in cui versano attualmente i nostri fratelli tiene talmente preoccupato e sì inasprito il loro spirito che poco o nulla giova il parlare di anima e di eternità, se prima non si rimargina questa ferita sociale il cui dolore ha già pervertito una gran parte dei cuori umani…»
E poco dopo, aggiungeva:
«Dalle informazioni a dunque pervenute dalla diocesi relati-vamente alla questione economico-sociale noi rileviamo come certo: 1) che in tutti i paesi della diocesi (a meno di qualche città fortunata, sulla cui fortuna io confesso i miei dubbi), i contadini e i poveri operai versano in una vera miseria che li riduce spesso alla disperazione; 2) che la causa di tale miseria, oltre all’esorbitanza delle imposte che isteriliscono l’industria e l’agricoltura, oltre al deprezzamento sul valore subito dai prodotti industriali e agrari per la concorrenza, è causa precipua la deficienza del credito alla piccola industria e all’agricoltura, quale deficienza di credito ha costretto il povero agricoltore o l’infelice operaio a sottomettersi, nei suoi bisogni, all’enorme usura del 60, del 120 e spesso del 200 per cento! Ed io ricordo benissimo che un piccolo negoziante, or sono pochi mesi, dovette, in quaranta giorni, pagare £. 40 d’usura per sole £. 50 che egli aveva in grave urgenza ricevuto, a patto di pagare £. 1 al giorno, ossia il 730 per cento!!! 3) rileviamo che da tutti si reclama un rimedio» (Ibid., 294).
Il rimedio, che suggeriva l’Incorvaia, ma già proposto nel primo Congresso regionale di Palermo, era l’istituzione in ogni paese delle Casse rurali e operaie per venire incontro ai bisogni dei poveri.
Nel dodicesimo anniversario di fondazione del Circolo S. Gerlando di Agrigento, celebrato nel marzo del 1895 il ragioniere Emanuele Gallo parlò della necessità di impiantare le Casse rurali in diocesi, cosa che mons. Blandini caldeggiò, dicendo che ormai era tempo di intraprendere questa strada, nonostante le non molto floride condizioni economiche.
Nella Prima Adunanza Diocesana del 1895, mons. Blandini volle presente il sacerdote Luigi Cerutti, che già nel Veneto aveva avuto una lunga esperienza con le Casse rurali e artigiane per liberare i contadini e gli artigiani dall’usura.
Nella diocesi girgentina il movimento fu iniziato dal sacerdote Michele Palminteri di Calamonaci con l’aiuto dell’arciprete De Leo, fondando la Cassa rurale S. Vincenzo.
Come sede del secondo Congresso regionale fu scelta la chiesa di sant’Alfonso, che allora si trovava nel suo più grande splendore, tanto da far dire a mons. Giovanni Blandini, vescovo di Noto e fratello di Gaetano:
«Ove un dì torreggiava la cittadella degli agguerriti concittadini di Empedocle si eleva tra gli altri monumenti, consacrati al buon Dio, signore dei signori e vincitor della morte, questo tempio che in tempi recenti seppe levar su, cotanto vago e spazioso e divoto, la pietà vostra» (Secondo Congresso Cattolico della Regione Sicula dell’Opera dei Congressi e de’ Comitati Cattolici in Italia, 1896).
È proprio strano che il Pirandello ignora tutto questo. Eppure il Congresso regionale e i due Congressi provinciali su le opere sociali e caritative, celebrati a Girgenti, per dare dignità e per liberare dallo strozzinaggio degli usurai i contadini e gli artigiani sono stati celebrati con larga partecipazione di popolo, proveniente da tutta la Sicilia, proprio sotto il suo naso. Che abbia avuto simpatie socialistoide non è strano, ma che abbia disconosciuto totalmente l’impegno della Chiesa girgentina è proprio strano.
Pirandello certamente sta dalla parte dei liberalmassoni e fa tifo per Meola, piccolo e sparuto chiacchierone pieno di astio verso il vescovo e verso i Redentoristi.
- — Pirandello nelle sue opere parla di una somma di denaro appartenente ai Redentoristi
In «I vecchi e i giovani», «Difesa di Meola» e «Visto che non piove…» lo scrittore tratta una notizia, che tutti sapevano, quella del deposito di una somma di denaro, che doveva essere data ai Redentoristi al loro ritorno a Girgenti.
La provenienza di questa somma non si conosce. Ma è certo che la regina Sofia dopo la morte del giovane re delle Due Sicilie, Francesco II, diede delle somme per la formazione dei giovani Redentoristi, dimoranti a Napoli e in Sicilia. I Redentoristi di Napoli ne usufruirono subito, poiché avevano già delle case di formazione, mentre i siciliani non ne poterono usufruire, perché non si erano ancora costituiti in Sicilia. Allora la somma per i siciliani fu data ai Redentoristi del Lazio, affinché reclutassero giovani da mandare in Sicilia. (Russo, Isidoro Fiorini, 194-195). Dunque si può pensare che questa somma abbia avuta la stessa provenienza, cioè dalla regina Sofia. (Ibid., 195)
In «I vecchi e i giovani» Pirandello così ne parla:
«Più volte il principe (Laurentano) aveva cercato d’indurlo a consacrare almeno una piccola parte della sua cospicua mensa vescovile al restauro dell’antico Duomo, insigne monumento d’arte normanna, deturpato nel Settecento da orribili costruzioni di stucco e volgarissime dorature. Egli s’era rifiutato, dicendogli che, se mai fosse riuscito a metter da parte qualche risparmio, lo avrebbe piuttosto destinato a costituire una rendita, per cui al convento di Sant’Alfonso, li presso la cattedrale, potessero ritornare i Padri Liguorini cacciati dopo il 1860». (PIRANDELLO, I vecchi e i giovani, 111).
È nella novella «Difesa di Meola» che tratta questo argomento dilungandosi. Marco Meola è nipote del segretario anziano del vescovo. Da ragazzo era stato indirizzato in Seminario, ma uscitone, lo zio lo diseredò. Per questo trattamento nel Meola sorse un grande astio verso il clero, che lo portò sulla sponda della massoneria.
Nell’impianto della novella il Pirandello assume la parte del difensore di Meola, poiché i montelusani (girgentini) lo accusavano di brogli, appellandosi a «quanti sono in Italia liberali equanimi e ben pensanti». (Ibid., 109).
«Ho tanto raccomandato ai miei concittadini di Montelusa di non condannare così a occhi chiusi il Mèola, se non vogliono macchiarsi della più nera ingratitudine.
Il Mèola ha rubato.
Il Mèola s’è arricchito.
Il Mèola probabilmente domani si metterà a far l’usurajo.
Sì. Ma pensiamo, signori miei, a chi e perché ha rubato il Mèola. Pensiamo che è niente il bene che il Mèola ha fatto a se stesso rubando, se lo confrontiamo col bene che da quel suo furto è derivato alla nostra amatissima Montelusa (Girgenti)» (PIRANDELLO, Novelle per un anno, «Difesa di Meola», 109).
Il Pirandello lo descrive nervoso con le mani tremanti, le cui «ciocche ricciute della testa leonina, rizzandosi, lo costringevano più del solito a rincalcarsi con manate furiose il cappelluccio floscio, che non gli vuol mai sedere in capo. Era pallido e fiero. Un fremito di sdegno gli arricciava il naso di tratto in tratto» (Ibid., 111).
E poi riporta i ricordi del passato: la corruzione propagata dai Redentoristi nelle missioni popolari e la loro cacciata da Girgenti:
«Tuttora negli animi dei vecchi Montelusani la memoria della corruzione seminata nelle campagne e in tutto il paese, con le prediche e la confessione, dei Padri Liguorini, e dello spionaggio, dei tradimenti operati da essi negli anni nefandi della tirannia borbonica, di cui segretamente s’eran fatti strumenti» (Ibid).
Eppure non era così. Durante le missioni la popolazione creava un rapporto di affetto con i missionari per i benefici che riceveva, tanto che, giungendo il giorno della partenza, lo viveva come un giorno di grande perdita, da far dire al cronista che «l’uscita dei padri da Mineo fu accompagnala da pianti ed urli straordinari per tutta la strada sino a Militiello Val di Catania: non così piangono la morte dei loro genitori, come i minioli la partenza dei missionari».
E poi: «L’uscita dal paese fu uno squarcio di pianto degli Ebrei sopra le mura di Gerusalemme. I padri furono accompagnati a Militiello da circa duemila persone, duecento dei quali a cavallo» (AGHR XLI A 4; S. GIAMMUSSO, Le Missioni dei Redentoristi in Sicilia)
Non mancavano dimostrazioni di affetto, anche inopportune, quando i missionari passavano da un paese dove avevano già tenuta una missione. Quasi, li violentavano, costringendoli a fermarsi e allora era una lotta per proseguire il loro viaggio. (Russo. I redentoristi in Agrigento, 260)
Per il difensore, invece, Meola è un benefattore di Montelusa per aver fatto fallire il progetto del vescovo, quello di far tornare i Redentoristi. Infatti il vescovo era così impegnato ad accumulare denaro per un prossimo loro ritorno. Però nessuno dei girgentini era a conoscenza di questo segreto, tanto che il Meola lo svela.
«Ebbene, i Liguorini, i Liguorini voleva far tornare a Montelusa Monsignor Partanna, i Liguorini cacciati a furia di popolo quando scoppiò la rivoluzione.
Per questo egli accumulava le rendite della Diocesi»(PIRANDELLO, Novelle per un anno, «Difesa di Meola», 111-112).
Eppure i Redentoristi non furono cacciati a furor di popolo. Infatti la Commissione, che li tenne per tredici giorni chiusi giorno e notte sotto lo sguardo della Guardia Nazionale, dovette trasferirli al Molo di buon mattino per non creare una sommossa popolare. La stima e l’amore, che i girgentini avevano dei Redentoristi, la dimostrarono pochi giorni dopo con i funerali solenni, che tributarono a fratello Rosario Adduca, sino a seppellirlo contro qualunque legge nella chiesa di sant’Alfonso. (ALESSI, Servo di Dio Fratello Rosario Adduca, 61-83).
Il Pirandello anche nella novella «Visto che non piove…» parla del vescovo, che raccoglie denaro per far ritornare i Redentoristi.
«Marco Mèola, il feroce tribuno anticlericale, che quattr’anni addietro aveva giurato di salvar Montelusa da una temuta invasione di padri Liguorini, aveva ormai perduto ogni popolarità. Perché, pur essendo vero da una parte che il giuramento era stato mantenuto, non era men vero dall’altra che i mezzi adoperati e le arti che aveva dovuto usare per mantenerlo, e poi quel ratto, e poi la ricchezza che glien’era derivata, non erano valsi a dar credito alla dimostrazione ch’egli voleva fare, che il suo, cioè, era stato un sacrifizio eroico. Se la nipote di Monsignor Partanna, infatti, la educanda rapita, era brutta e gobba, belli e ballanti e sonanti erano i denari della dote che il Vescovo era stato costretto a dargli; e, in fondo, i pezzi grossi del clero montelusano, ai quali non era mai andata a sangue quella promessa del loro Vescovo di far tornare i padri Liguorini, se non amici apertamente, avevano di nascosto, anche dopo quella scappata, anzi appunto per quella scappata, seguitato a veder di buon occhio Marco Mèola» (L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, «Visto che non piove…», vol. I, t. I, Milano 2001, 136).
Visto che a Girgenti la gente parlava di questa somma di denaro ed che anche Luigi Pirandello ne aveva scritto, il superiore provinciale del tempo, padre Ernesto Bresciani, fece fare delle ricerche sia dall’arciprete di Canicattì, Luigi La Lomia che dall’economo curato di Grotte don Carmelo Chiarenza.
L’arciprete Luigi La Lomia, zio del redentorista padre Angelo, così rispose il 10 gennaio 1912:
«Lunedì, chiamato da P. Angelo, fui in Aragona per avermi comunicato i suoi pregiali disegni, ai quali così rispondo. Dinanzi tutto è vero che c’è il legalo di Monsignor Blandini per il mantenimento di quattro Gesuiti e colla dispensa della S. Sede potrà invertirsi ai Rev.mi PP. Liguorini» (APPR, carpetta Luigi La Lomia. Nel retro della busta il padre Bresciani scriveva: «Legato Blandini p. Girgenti»).
Poi continua:
«Le significo con tutto rispetto la propria mia convinzione: essere assai utile l’apertura della casa di Girgenti e fu errore preferire Sciacca a Girgenti.
Con massima confidenza debbo pure renderla avvisata; che avendo interrogato Monsignore: “Quando aprirà la casa dei Liguorini?” Rispose scuro: “Cosa volete, avete visto in Roma, che lusso di casa, mattoni, fabbriche ecc. ecc., come mantenerli?” Non si scoraggi, incominci le pratiche ed il Signore farà il Resto» (Ibid).
Invece la ricerca del Chiarenza, fatta nello stesso anno, fu più dettagliata e precisa:
«Il denaro che Monsignore Blandini teneva per la riapertura della casa dei Redentoristi era la somma di £. 50.000, che Egli per diversi anni tenne in deposito presso le Figlie di S. Vincenzo dell’Istituto Schifano e che ritirò qualche mese prima della sua morte, perché la Superiora Provinciale delle Suore non permise, che Ellino avessero tenuto un mandato così delicato ed importante. Nel tenere questo deposito presso quelle religiose aveva detto, che in caso di morte esse l’avrebbero dovuto restituire semplicemente all’arrivo dei Padri Redentoristi in Girgenti. Quando poi ritirò il deposito, suo malgrado, disse loro, che quella somma la conservava in un camerino col segreto del Palazzo Vescovile; e che alla morte di Lui l’autorizzava a dirlo. Difatti appena verificatosi la morte della f. m. di Blandini il Rev. Sclafani fu incaricato d’informare Monsignor Lagumina, il quale disse di averla trovata. Le Figlie di S. Vincenzo, interrogate in proposito, risponderebbero» (APPR, carpetta Chiarenza)
Alcuni giorni prima, il Bresciani con il padre Salvatore Dispensa era stato a Girgenti a conferire con monsignor Bartolomeo Lagumina, che non fece alcuno accenno del legato, anzi assunse un atteggiamento molto scostante sulla venuta dei Redentoristi, quasi allargando le braccia.
Il Bresciani dando rapporto di questo incontro, al padre Patrizio Murray, superiore generale, così scriveva il 19 luglio 1912:
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«Fui a Girgenti col P. Dispensa, ospitati graziosamente da Mons. Vescovo, il quale mi disse che se fossi andato l’anno scorso, subito e ben volentieri ci avrebbe ceduto casa e chiesa, ma che ora gli sembra difficile perché la casa è affittata per 10 anni (dei quali ne è passato uno solo) alla Provincia per le Guardie daziarie» (APPR, carpetta Bresciani).
Dunque il Pirandello dice la verità quando parla dell’esistenza di una somma di denaro, che sarebbe servito per il ritorno dei Redentoristi a Girgenti.
- — Il Pirandello cita due opere di sant’Alfonso impropriamente
Il Meola per creare avversione verso i Redentoristi ogni giorno nel caffé Pedoca commentava anche alcune opere di sant’Alfonso. Il Pirandello, che aveva ereditato per mezzo della mamma parte dei beni immobili, come la casa al Caos, dello zio canonico Innocenzo Ricci Gramitto, avrà anche ereditato parte della biblioteca. Le due opere citate dallo scrittore erano molto conosciute da un larghissimo pubblico sia nel settecento che nell’ottocento. Le Glorie di Maria hanno avuto e hanno ancora oggi una splendida fortuna. (Cfr DE MEULEMEESTER, Bibliographie, I. Già nel 1933 Le Glorie di Maria, che erano state pubblicate nel 1750, vivente il Santo, ebbero tredici edizioni a Napoli, Venezia, Panna e Bassano, mentre dopo la sua morte furono tradotte in francese, tedesco, inglese, spagnolo, olandese e in tante altre lingue, raggiungendo 736 edizioni. Se aggiungiamo quelle edite in questi ultimi settanta anni, senza smentita le edizioni facilmente raggiungono mille. Mentre i Sermoni compendiati per tutte le domeniche dell’anno, questo è il titolo esatto dell’opera citata dal Pirandello, vivente il Santo, ha avuto sei edizioni tra Napoli e Bassano, mentre sino al 1933 sessantasei edizioni. Questo testo era stato scritto dal Santo per dare un contributo ai sacerdoti per preparare le omelie della domenica).
«Io ricordo bene che cori d’approvazione e che applausi e quanta ammirazione, allorché, sfidando i fulmini del Vescovado e l’indignazione e la vendetta dello zio, Marco Mèola, facendosi cattedra d’un tavolino del Caffé Pedoca, si mise per un’ora al giorno a commentare ai Montelusani le opere latine e volgari di Alfonso Maria de’ Liguori, segnatamente i Discorsi sacri e morali per tutte le domeniche dell’anno e il libro delle Glorie di Maria» (PIRANDELLO, Novelle per un anno, «Difesa di Meola», 112-113).
Le due opere che cita il Meola non sono opere latine e neppure morali. Queste due opere possono essere catalogate in-vece tra le opere ascetiche. Si vede che il Pirandello non li ha lette e le cita, tanto per citarle, perché ha letto i titoli.
- — La seconda parte della novella «Difesa di Meola» nella realtà non ha alcun fondamento
Il racconto del progetto e della realizzazione della fuitina con la probanda gobbetta, nipote del vescovo, collocata nella badia di sant’Anna, forse sarà veramente accaduto, ma non ha alcun rapportò con la venuta o no dei Redentoristi.
Sotto l’aspetto artistico, però, è interessante per l’immediatezza del dialogo tra il difensore, Pirandello, e il Meola nel viale del Paradiso:
«Sonavano nell’aria che inebriava, satura di tutte le fragranze della nuova primavera, le campane delle chiese, tra i gridi festivi delle rondini guizzanti a frotte nel luminoso ardore di quel vespero indimenticabile.
Io e il Mèola passeggiavamo per il nostro viale del Paradiso, muti e assorti nei nostri pensieri.
Il Mèola a un tratto si fermò e sorrise.
– Senti, – mi disse. – Queste campane più prossime? Sono della badia di Sant’Anna. Se tu sapessi chi le suona!
– Chi le suona?
– Tre campane, tre colombelle!
Mi voltai a guardarlo, stupito del tono e dell’aria con cui aveva proferito quelle parole.
– Tre monache?
Negò col capo, e mi fe’ cenno d’attendere.
– Ascolta, – soggiunse piano. – Ora, appena tutt’e tre finiranno di sonare, l’ultima, la campanella più piccola e più argentina, batterà tre tocchi, timidi. Ecco… ascolta bene!
Difatti, lontano, nel silenzio del cielo, rintoccò tre volte – din din din – quella timida campanella argentina, e parve che il suono di quei tre tintinni si fondesse beato nell’aurea luminosità del crepuscolo.
– Hai inteso? – mi domandò il Mèola. – Questi tre rintocchi dicono a un felice mortale: “Io penso a te!”.
Tornai a guardarlo. Aveva socchiuso gli occhi, per sospirare, e alzato il mento. Sotto la folta barba crespa gli s’intravedeva il collo taurino, bianco come l’avorio.
– Marco! – gli gridai, scotendolo per un braccio.
Egli allora scoppiò a ridere; poi, aggrottando le ciglia, mormorò:
– Mi sacrifico, amico mio, mi sacrifico! Ma sta’ pur sicuro che
i Liguorini non torneranno a Montelusa.
Non potei strappargli altro di bocca per molto tempo» (Ibid., 113-114).
Il Meola, tramite le visite settimanali che faceva alla zia monaca, preposta alla sorveglianza delle tre educande, trama la tresca, portandosi la gobbetta, nipote del vescovo per impedire che i padri Liguorini tornassero a Montelusa. (Ibid., 118).
«Monsignor Partanna infatti – per costringere il Mèola alle nozze con la nipote rapita – dovette convertire in dote a questa nipote il fondo raccolto per il ritorno dei padri Liguorini. Monsignor Partanna è vecchio e non avrà più tempo di rifare quel fondo.
Che aveva promesso Marco Mèola a noi liberali di Montelusa? Che i Liguorini non sarebbero tornati.
Ebbene, o signori, e non è certo ormai che i Liguorini non tor-neranno a Montelusa?» (Ibid).
Eppure i Redentoristi sono tornati il 1° febbraio del 1914, accolti festosamente dai girgentini, come già è stato detto.
Con il loro ritorno la volontà di monsignor Blandini non è stata messa in atto, perché la somma non è stata mai consegnata ai Redentoristi.
I Redentoristi, contenti di essere ritornati a Girgenti non l’hanno mai richiesta, anche se era un loro diritto.
Se si fa il conto delle spese che monsignor Lagumina ha sostenuto per l’acquisto della casa dal Municipio, la cui somma è stata di £ 9.75065 (ACA, Carpetta Lagumina: Contratti tra Vescovo e CSSR. Si fa notare che monsignor Lagumina ha acquistata la casa per la diocesi, dando ai Redentoristi l’uso perpetuo con la clausola di poter fare qualunque modifica) , per il deposito di £ 32.000, che mise presso la Banca S. Gaetano in cartelle del debito pubblico italiano al 3%, per l’affitto del palazzo lucchesiano (ACA, Carpetta Lagumina: Contratti tra Vescovo e CSSR. Questo deposito andò perduto quando la Banca S. Gaetano fallì) e di qualche altro piccolo contributo, che diede all’inizio del loro arrivo per fare delle riparazioni al tetto della chiesa, si deve dire che la somma raggiunge all’incirca il deposito Blandini.
SOMMARIO
I Redentoristi, presenti a Agrigento dal 1761, furono soppressi e mandati in esilio a Malta nel 1860 dopo l’arrivo di Garibaldi e dei suoi Mille. L’espulsione dei Redentoristi fu vissuta dai massoni come una vittoria, ma non così dal popolo girgentino, che sperava in un loro pronto ritorno. Ripristinata la Congregazione in Sicilia, i Redentoristi tornarono ad Agrigento nel 1914, malgrado gli intrighi dei liberalmassoni. Nel romanzo I vecchi e i giovani e nelle novelle Difesa di Meola e Visto che non piove…, Pirandello descrive il clima avverso ai Redentoristi che, come spiega l’autore di questo saggio, era coltivato solo da un gruppo molto ristretto di girgentini.
SUMMARY
The Redemptorists, who had been present in Agrigento since 1761, were suppressed and sent into exile on Malta in 1860 after the arrivai of Garibaldi and his troops. The expulsion of the Redemptorists was seen by the Freemasons as a victory. But it was not viewed as such by the people of Agrigento who hoped for their quick return. Once the Congregation was restored in Sicily, the Redemptorists re-turned to Agrigento in 1914, despite the intrigues of the Freemasons. In the romantic novel I vecchi e i giovani, and in the other novels Difesa di Meola and Visto che non piove…, Pirandello describes the atmos-phere which was hostile to the Redemptorists. The hostility, as the au-thor of this essay explains, was fomented by only a very small band of Agrigento citizens.