Mi limiterò a parlare del commercio in piazza (e cioè nella via Atenea) e quindi dei negozi della piazza.
La piazza di Agrigento era un unico. Dico era e non è, perchè il suo ruolo è stato svuotato e derelitto a seguito della costruzione dei cosiddetti quartieri satelliti, e quindi dello sviluppo policentrico della Città e se vogliamo della sua esplosione. Era un unico non già per bellezza, monumentalità etc., ma perchè non di una vera e propria piazza si trattava, ma di una via maestra che prendeva il nome di piazza per la mancanza di un’altra o di altre piazze. Fino ai primi dell’800 la piazza, o meglio la via maestra (come veniva chiamata) più che una arteria era stata la somma continua di una serie di tratti viari spesso con denominazioni proprie.
Un tratto centrale, ad es., si chiamava “via dei lanieri” (o delle lavine) per la concentrazione dei negozi di tessuti e filati (per le lavine o acquate che nella stagione delle piogge ne facevano una sorta di canale di gronda). Questi segmenti viari erano segnati da nodi, strozzature, dislivelli. Lungo l’intero corso due slarghi venivano pomposamente chiamate piazze: la piazza piccola e quella grande, che era soltanto meno piccola dell’altra.
Nel 1867 l’amministrazione comunale si impelagò nell’impresa di farne una arteria rettificata nel profilo e livellata nei dislivelli. Vennero “tagliate” alcune costruzioni, vennero colmati alcuni bassi per l’innalzamento della sede stradale, vennero rifondati alcuni edifici per l’abbassamento della stessa sede etc.
Il nome “piazza” venne utilizzato nell’accezione più antica e non rinascimentale: non già luogo di incontri, spazio di confronto. Gradualmente la strada maestra assorbì ed ospitò gli esercizi di vendita precedentemente disseminati ovunque, e concentrati prevalentemente nei “piani”: slarghi che avevano la funzione di piazzette.
Antico e famoso il “piano Lena, luogo di fondaci e di botteghe varie e “putii”. I macellai e buccieri erano concentrati prima in via Boccerie, poi in piano S.Sebastiano. Gli alimentaristi erano sparsi in tutto il tessuto urbano. I pescivendoli erano ambulanti.
un negozio della via ateneaNella seconda metà dell’800 la “piazza” seleziona ed assorbe i migliori e più rappresentativi esercizi commerciali. Nel secolo che comprende la metà dell’Ottocento e la prima metà del ‘900 i negozi girgentini sono distinguibili in due categorie estetiche, in riferimento all’allestimento esterno (insegne, vetrine, illuminazione etc.) ed all’arredamento interno. La suddivisione era relata al tipo di commercio esercitato ed alle facoltà economiche dei proprietari, specie per quanto riguardava le scorte e le tipologie merceologiche.
Vi erano botteghe, putii e negozietti angusti, disadorni, poveri, di tipologia diciamo così “indigena”, contrassegnati da ingressi con porte in legno a due ante che si aprivano verso l’esterno e contenenti al loro interno delle vetrinette che, con l’apertura delle porte, finivano in fuori. Queste porte, caratteristiche anche a Palermo, sono state descritte dal Pitrè, e io un paio di decenni addietro ne ho fatto acquisire una – superstite – dal museo civico, sezione etno-antropologica. Oggi purtroppo si trova buttata in un canto. Vi erano poi dei negozi “all’inglese”: alti magazzini, scaffalature, in buon legno se non addirittura in legno pregiato, vetrine ampie e fisse, insegne campeggianti, oblique, all’inglese, in oro zecchino su pannelli lignei verdi e su vetri bordò; grandi lanterne prima ad olio di sansa e poi a gas, aggettanti. Oppure diciture in argento su fondi neri, a lettere gotiche. Andando al periodo che ci interessa, via Atenea ospitava alcuni importanti negozi di tessuti. Negli anni ’50 del secolo scorso l’abbigliamento era prodotto dai sarti e le confezioni erano una rarità. Menziono il grandissimo negozio della ditta Di Martino, aperto alla fine del 700: tessuti d’ogni fibra, per uomo e donna, drapperia e seteria, e un assortimento straordinario dei cosiddetti “tagli da uomo”, cioè tessuti in lana inglese e in lino irlandese in misura standard per la confezione di abiti maschili. I Di Martino erano di origine napoletana e rifornivano gran parte dei paesi dell’entroterra agrigentino.
Altro grande negozio fondato nel ‘900 era quello di Piddu (Giuseppe) Messina, oriundo di Raffadali, arricchitosi negli USA e ritornato in patria per riprendere a posto fisso il mestiere che aveva esercitato da ambulante. Il negozio esiste ancora, ma è ubicato in magazzini diversi da quelli antichi. Il negozio Di Martino non esiste più. Messina lavorava prevalentemente con le forniture per corredi nuziali.
Due altri negozi di tessuti appartenevano alla famiglia Meli: uno sotto questo cognome e l’altro sotto la insegna di una fabbrica di tessuti, La Radiosa, di cui esercitavano la vendita in privativa. Un negozietto antichissimo, superstite di quelli ottocenteschi di via dei Lanieri, era quello delle sorelle Lauricella. Esso si apriva sempre in quel tratto di strada, e cioè nella cosiddetta discesa di S.Rosalia. Verso gli anni del primo miracolo economico aprì i battenti un negozio moderno di tessuti alla moda di cui era proprietario certo Salemi. Non mancavano le mercerie: la più importante era quella antica dei fratelli Sinatra, facoltosa e benemerita famiglia di mercanti illuminati, benemeriti anche nel campo della cultura, e possidenti terrieri. Un Francesco Sinatra, amantissimo della pittura, ha donato – come si è detto – al Comune la Galleria che da lui prende nome e che comprende oltre cento capolavori di Francesco Lo Jacono e opere del Camarda e d’altri. Notevoli anche le mercerie Torregrossa e Curmona.
Il più antico negozio di abiti confezionati fu quello per neonati e bambini di tale Paccaduda, antico e fornitissmo di tutto ciò che concerneva l’allevamento dei bambini.
Le farmacie erano quattro: Avema, Giandalia, Miceli e Nastri. Quelle di Miceli e Giandalia erano le più antiche (primi del ‘900) e possedevano scaffalature di pregio artistico incommensurabile. La farmacia Miceli era anche dotata di numerosissimi contenitori in ceramica di Caltagirone. Vi era anche una Sanitaria, il cui proprietario, pur non essendo né chimico né farmacista, aveva formulato alcuni efficacissimi parafarmaci, un rinomato callifugo, un dentifricio ect. Si chiamava Sciascia, ed apparteneva alla famiglia della moglie dell’on. Giuseppe La Loggia. Era quella, un’antica facoltosa avarissima famiglia di aromatari, medici e proprietari terrieri.
Non mancavano naturalmente i Caffè: Romeres, Seddio, Airone, Pedalino. Il locale Airone comprendeva un piccolo teatro per serate notturne e cabaret. Romeres era il più antico (’800). Pedalino aveva intrapreso attività nel dopoguerra, diventando famosissimo per la squisitezza dei prodotti. Il Caffè “La Torrefazione” proponeva un locale con grande vetrata sulla piazza, ed era molto frequentato durante la stagione invernale perchè consentiva di “vedere” la gente senza camminare. L’antica Pasticceria Zarcone (due sorelle nubili e un fratello celibe, molto anziani: figli di un pasticciere che aveva lasciato un buon ricordo) produceva piccole quantità di dolci con lavorazione accuratissima. Il vecchio e claudicante Zarcone divenne suo malgrado famoso protagonista di una vicenda tra il faceto e il serio, allorquando, in occasione della visita in Italia di Hitler, la federazione fascista di Agrigento invitò (e cioè obbligò) i negozianti ad abbellire con banderuole italo-tedesche, fiori e luminarie, le vetrine dei negozi. Lo Zarcone fece del proprio meglio, ed espose in bell’ordine, tra serti e ghirlande, decine di scatole lattee, di pasticcini, biscotti e altre leccornie prodotte dalla famosa e premiata industria dei Fratelli Lazzarone di Saronno. Si aprì una inchiesta per accertare con quale animo l’avesse fatto, dato che tutta la Città ne rideva ed inneggiava all’incontro romano dei fratelli Lazzarone…Poi tutto finì nel nulla.
Alcuni negozi trattavano la vendita di generi maschili di gran classe: guanti, ombrelli, camicie, berretti e cappelli, confezioni , pelletterie, cravatte etc. Erano quello di Bonfiglio nel pal. Celauro e quello di Ficarra nel pal. Corsini, ed altri tra i meno famosi. Non mancavano le oreficerie: De Luca, Casà, Celi.
La libreria (anzi cartolibreria) più antica era quella dei Bianchetta, sita nel locale che aveva già ospitato una legatoria artistica. Al Bianchetta succedette un tale Proto. Indi aprì i battenti, con interesse di pubblico, una succursale della libreria Palumbo di Palermo, libraio ed editore. Importante ed antico negozio di cartoleria era quello dei Nastri, ove si vendevano anche pochi ma scelti e costosi libri: Palumbo e Nastri divennero le sedi serotine di gruppi di professori del liceo agrigentino e intellettuali locali, che vi si incontravano, discutevano e si aggiornavano sulle novità librarie. La cartoleria Nastri (successivamente Ciaravello) era contraddistinta sull’apice del frontespizio da una enorme matita lignea, per indicare che quello era un locale per coloro che sapevano leggere e scrivere! Era stato coniato un motto, naturalmente da parte degli analfabeti: com’è pisanti teniri ‘a matita ‘manu.
I tabaccai erano: Pira, Cacciatore, Cipolla, due esercizi dei fratelli Di Leo, e Parlato. Cipolla vendeva anche giocattoli: per attirare la voglia e l’attenzione dei più piccoli aveva acquistato e teneva esposto un burattino meccanico riproducendo un uomo in frack e cilindro, con le braccia spiegate a mo’ di un direttore d’orchestra e una bacchetta in mano: elettricamente muoveva il busto in avanti e indietro. Venne chiamato dagli adulti: “ ‘u pupu di Cipuddra”: e si finì coll’intendere così non solo il burattino, ma anche il proprietario!
Via Atenea ospitava due negozi di mobili: quella annosa di Cardinale (famiglia di intagliatori ed ebanisti che annoverava anche uno scultore di rango nazionale) e di Soldano. Vendeva mobili di alta qualità e in stile. Soldano corrispondeva invece ad un ceto meno agiato; ma il popolo i mobili li ordinava dozzinalmente ai tanti falegnami. Negli anni Sessanta i due esercizi chiusero i battenti e i nuovi grandi negozi sorsero in periferia. Con l’avvento delle produzioni d’industria, specialmente nel settore delle confezioni vestiarie, ci fu un profondo rimescolamento commerciale. Sorsero i primi negozi di moda femminile, primo tra tutti quello di Scalia, un facoltoso riberese, dando l’avvio ad una proliferazione tumultuosa.
Dai pochi negozi di calzature (Imbergamo, Piraneo, Caico) si passò anche in questo campo ed una fungaia di negozi, molti dei quali di effimera durata. Veniva meno il principio della stabilità e della durevolezza delle imprese commerciali, quasi sempre legate ad un nome, ad una tradizione familiare. Si creò una sorta di tumultuosa maretta commerciale.
Non mancavano, specialmente nei decenni ’50-60 e come prosecuzione di una tradizione di un secolo (decorrente cioè dall’indomani dell’unità d’Italia) le sartorie per uomo, e qualcuna per uomo e donna: Michele Messina, Maldonado, Salvato, Averna etc. La sartoria Villa, come qualche altra, serviva i due sessi. Non era situata a piano terra ma in un appartamento a 1° piano, e vi dominava una cert’aria di famiglia: il profumo dei tessuti, dei gessetti, dei ferri da stiro si confondeva con i sentori casalinghi, con la minestra di cavoli e col brodo di pesci!
Vi erano anche i “bazar”, e di alto bordo: Altieri vendeva articoli maschili, porcellane, un vasto assortimento di armi etc. Cappadona prodotti di igiene personale, regali, pentolame etc. Un “bazar” popolaresco di piccoli mobili e stoviglie era quello di Mammano, sorto all’indomani della guerra. Qualche decennio appresso sorse un “bazar” di vetrerie, lampadari, stoviglie etc., gestito da Proto, di origine amalfitana.
Droghieri ed alimentaristi erano Michelangelo Messina (fornitissimo di caci ed insaccati), Ruoppolo, Proto, Ingenito, Sanso. Ruoppolo, Proto e Ingenito erano di origine amalfitana.
Numerosi i barbieri; e non mancavano due parrucchierie femminili: Sanfilippo e Marchese (palermitano).
Vitellaro vendeva profumi; e non solo li vendeva, ma in gran parte li produceva, grossolane acque di Colonia, buone Lavande, saponi per barba. Nel negozio troneggiava una enorme ampolla piena di lavanda verdognola: era la delizia dei bambini…
di Settimio Biondi in “Salvatore Sanfilippo, Storia di un comune italiano. Agrigento”.