Molti libri oggi non hanno l’onore di raggiungere gli scaffali di una libreria. Alcuni di essi però, pur con la loro scarsa diffusione, offrono suggerimenti e sussidi per nuovi studi.
Tale la raccolta di “Lettere dalla Sicilia a S. Alfonso“, curata con diligenza e precisione da Salvatore Giammuso. Una occasione per approfondire e allargare le conoscenze storiche della realtà sociale e religiosa della seconda metà del Settecento siciliano.
Tutto comincia con Mons. Gioeni, quel vescovo di Girgenti che pretendeva sostituirsi al re di Napoli per la costruzione del molo nella marina della città.
L’illuminismo arrivava perfino nei confini più remoti dell’Europa. Mons. Gioeni sognava gli Oblati di S. Gerlando per l’istruzione e l’elevazione morale degli abitanti della “vasta diocesi composta di 63 terre e città.
Lo scopo fu raggiunto dal successore Lucchesi Palli, non con i preti del luogo, ma con una equipe di sacerdoti missionari che gli inviò dal Regno di Napoli Alfonso de’ Liguori.
Con l’aria che allora spirava, del Tanucci e del Caracciolo, in quale maniera giustificare la presenza di un gruppo religioso a Girgenti ? Essi agli occhi delle autorità dovevano apparire come custodi della biblioteca, ove avrebbe lavorato Mattia Pascal, che il Lucchesi andava erigendo.
“Una magnifica libreria piena di libri scelti e rari”, scrive uno dei sacerdoti mandati dal De Liguori.
Con questo impegno i padri non sarebbero stati distratti dal loro impegno principale della predicazione? Niente affatto! Perché si fa sapere al superiore di Napoli, il De Liguori appunto: “La città di Girgenti non ha di questi uomini studiosi; si contenta ognuno di quattro librazzi.”
Inoltre i girgentani avevano subito bollata “inutilissima” l’iniziativa del Lucchesi.
I missionari divennero subito popolari.
“Hanno incontrato tutta la soddisfazione di ogni sorta di persone”, scriveva il Lucchesi: ed egli, da parte sua, si reputava “contentissimo”.
Testimoni di questa popolarità, a modo loro, saranno il Pirandello con il romanzetto delle “Tonache di Montelusa” nelle novelle per un anno, il Verga con i piccanti racconti sul
Cicerone il p. Amore. Si è anche sostenuto che il gusto per il teatro negli agrigentini sia nato mimando i gesti e i modi di modulare e condurre il discorso e le perorazioni di questi missionari.
Da parte loro, essi sono orgogliosi del loro lavoro. Qualcuno “come cavallo di guerra si rinvigorisce al suono del tamburo delle missioni”. Soddisfatti delle loro rendite, predicano gratuitamente, “non si assoggettano a mendicare… frumento, vino, commestibili”. Non sono venuti in Sicilia «per campare a spese altrui», restano indignati quando intuiscono di essere trattati “come morti di fame”.
Piovuti in un “regno straniero” come in altro pianeta, fanno conoscere ai confratelli lasciati nel Napoletano le loro impressioni e i loro sentimenti e danno giudizi sui siciliani e sulla Sicilia di quel tempo.
Prima di tutto il rapporto sul viaggio. Un viaggio, che avrebbe potuto compiersi in soli tre o quattro giorni, ma che doveva prolungarsi per oltre un mese.
«Da Salerno a Palermo, capitale del regno di Sicilia… dopo tre giorni di scabroso viaggio, fummo sbattuti dal vento contrario nella isola di Lipari… Fecimo vela per Palermo. ma allorché stavamo quasi vicini…fummo di nuovo respinti addietro dai venti contrari, e mentre stavamo per entrare nel porto di Lipari, fummo sorpresi da tale tempesta che ci vedemmo in prossimo pericolo di naufragare…
All’uscir da Lipari (per Palermo) un altro bastimento per una improvvisa tempesta di mare naufragò dinanzi agli occhi nostri, ed era partito insieme con noi… Verso sera cala la tempesta. A poco a poco fecimo vela per Palermo». Giunsero a Girgenti “così spaventati dai terrori del mare, ch’ebbimo a pigliar sangue d’ irco e farci sognar per tornare in vita”.
Chi racconta questaodissea è il p. Bernardo Apice, che dal capo della spedizione missionaria, il p. Pier Paolo Blasucci, viene giudicato “esageralo nel parlare, nello scrivere, nel biasimare”, ma che pure riesce simpaticissimo.
Il p. Apice sa offrire consigli umanissimi e intelligenti alle penitenti lasciate nel Napolitano: “Santità può stare insieme ai difetti”. Ancora “Il desiderio della libertà non è sempre difetto., basta che lo offriate a Dio”. Arriva anche al sublime: “O infermità e fatiche, o vita o morte, non sono cose buone e desiderabili quando le manda Dio?” Ma spesso bofonchia: “In Sicilia c’è molta ignoranza”. I siciliani “sono superbi, stravolti, furbi e ripieni di false massime”.
L’aria di Girgenti gli e “contraria e positivamente negativa”. La desolazione!
“Nella Sicilia erma e deserta scontiamo tutto. Qui non abbiamo nemmeno un bicchiere d’acqua buona per bere”. Infine la ribellione: “lo restare in Sicilia! ma questo spirito non me lo sento”. Il buon religioso avrà il modo di superarsi: in Sicilia “ci tornerà sebben ci avesse a morire per l’aria e… per i caldi eccessivi”.
Anche altri missionari si lamentano del clima: “I caldi in queste parti sono indicibili”. Viene condannato il formalismo degli isolani: “Sono funzioni si… assai volubili… fanno a gara chi può spendere di più”. In una breve missiva sono sottolineate per tre volte le “furberie dei siciliani”.
Tuttavia non mancano umori e impressioni di diverso segno: “Questa aria di Girgenti è ottima”, scrive un sacerdote ai confratelli lasciati nel Napoletano. Un secondo contempla con ammirazione il paesino di Santa Margherita Belice: “situata in una fertilissima e spaziosissima campagna”.
Il popolo di S. Margherita “concorre a meraviglia ed è bene inclinato”.
Il p. Caputo gode dell’aria di Girgenti “che in sé è ottima. A Favara alcuni si credono aiutati “dalla temperie del clima e dalla bontà dell’acqua”. Sempre a Favara “il popolo è di buonissima indole, allegra e capace”. Qui si può star sicuri che non regna la bestemmia. l’odio, la ubriachezza. Se talvolta i siciliani reagiscono male, forse la colpa potrebbe ascriversi ai padri missionari, perché “con i siciliani non ci vuole fuoco e boria, ma pazienza e umiltà”.
Molto interessanti le osservazioni sul costume e sulla vita dei siciliani: le note di colore, come anche le note di poco colore.
A Favara “la chiesa matrice è puzzolentissima perché le fosse sono ripiene e sono costretti a pestare con tali i già sepolti per seppellire quelli che muoiono, sempre a Favara la gente è ordinariamente povera anche tra i galantuomini. Tra gli ecclesiastici si sono persone comodissime e quelle che campano poveramente.”
Il p. Caputo ricorda la carestia del 1763: “La resina qui questo anno ha fatto seccar tutte le fave e sta facendo lo stesso al grano… ! poveri van piangendo per le campagne”. E vi sarà la carestia del 1785: «Quest’anno in Sicilia si è provata la fame universalmente., le rivoluzioni del popolo affamalo sono frequenti”. Subito dopo, finalmente l’abbondanza: “Le campagne sono tante piene di fave che i massari hanno fatto gettare il bando, chi vuole fave vada a raccoglierle dove piace”.
C’è il caso di un missionario, il “caro e bello” Andrea Morza. ammalatosi di tubercolosi in casa di un benefattore “nella bellissima città di Licata” c si sentiva “trattato meglio di un cavaliere”. Le sue sofferenze sono indicibili “ma non dice mai cosa sia tedio”.
A questo ammalato il superiore accorda tutti permessi, “todos que la bisognas”. e ricorda la predicazione del buon esempio: “come il sole che alla muta parla”. Da Palma di Montechiaro gli invia anche una ricetta fatta da un certo medico Don Felice: “Radica di china una dramma, la quale si cuocerà (dopo essersi contusa e posta in effusione la sera) tre once quattro di acqua sino che saranno ridotte once due.
Poi si mischiano le suddette once, cioè due di latte asinino; e questa pozione si pigli vostra riverenza ogni mattina. La sera poi seguiti a pigliare lo stomatico di Poterio verso le 22 in circa.”
Alcuni dei padri napoletani con il tempo si sono andati affezionando “a questa nazione siciliana”; qualcuno si sente già mezzo siciliano: adesso intanto si è aggiunto un gruppetto di missionari siciliani. Allora si sente il bisogno di una maggiore fusione; qualcuno vuole inviare i siciliani” nell’ altro regno, anche per pigliare aria e il linguaggio italico di quelle parti”‘.
E si fanno sentire le polemiche sull’opinione più probabile e meno probabile, rigida e meno rigida”.
I tempi sono mutati. Le opinioni stravaganti e rivoltanti di Camaruel, chiamato il principe dei lassisti, e del siculo Diana, chiamato l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, non sono più accettate. E da Scilla si è passati a Cariddi. Dal lassismo al rigorismo.
Il p. Piero Paolo Blasucci, colui che praticamente è sempre il capo della spedizione dei missionari in Sicilia, ha già cavalcato la tigre del nuovo orientamento rigido. Ritiene negativa perfino la mediazione del suo fondatore e superiore, il De Liguori, presume di poterne correggere l’opera e annuncia l’apparizione di una nuova Teologia morale.
Il p. Bernardo Apice scoppia. Lui è per la mitezza: “Alcuni vanno alle volte affettando sentenze rigide per coprire la poltroneria. Così “si fugge il confessare soldati, sbirri, carcerati, ufficiali pubblici, preti e galantuomini”.
Alla fine “il fuoco della discordia”. Per qualche cosa che era più grande degli stessi missionari, per qualcosa che riguardava la vita del loro istituto e il senso della loro stessa vita.
Quel che offende maggiormente i confratelli napoletani in Sicilia è il doppio gioco di colui che è sempre stato il loro capo, il p. Pier Paolo Blasucci, “il generalissimo dei siciliani che menerebbe in saccoccia monsignor Liguori, il vicario e i consultori di tutta la congregazione”. L’accusano di “dispotismo assoluto”, gli rimproverano quella prudenza mondana o piuttosto politica di corte; egli fa vedere di essere “il santo come Salomone, e tutti gli altri che la pensano diversamente da lui siano scellerati e sciocchi, per dirla alla siciliana, id est, reverende parlando, ciucci ed asini”.
Con l’epistolario si arriva al 26 luglio del 1787. Nessuno poteva supporre a Girgenti quel che sarebbe scoppiato il 14 luglio del 1789, due anni e undici giorni dopo.
Domenico Cufaro, Napoletani a Girgenti nel Settecento, in Lumie di Sicilia, giugno 1993, n. 18