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Mulini ad acqua in provincia di Agrigento. Una risorsa da valorizzare

24 Luglio 2014 //  by Elio Di Bella

di Aldo Mangione

mulino-di-cianciana

Le notizie raccolte in questo studio di ricerca sono il risultato di indagini e sopralluoghi, da me effettuati, lungo alcune vallate e corsi d’acqua del territorio agrigentino.

La spinta iniziale alla ricerca è stata motivata dalla occasionale scoperta di alcuni ruderi di un mulino ad acqua, riconosciuti in prossimità della foce del fiume Naro nel Comune di Agrigento . Nascosti tra alte canne e palme nane, lungo la sponda sinistra del fiume, apparivano i resti di una particolare opera muraria realizzata con struttura mista, composta da opere in ciottoli, calce, blocchi squadrati e mattoni in cotto.
Da un’attenta osservazione dei luoghi, scoprii il «porta acqua» e la «saia» di alimentazione i cui resti si perdevano tra le zolle di terreno interno.

Pensai allora di approfondire la conoscenza ed il ruolo che queste antiche fabbriche svolgevano un tempo e così, attraverso le prime ricerche storiche e i successivi rinvenimenti sul territorio, nacque l’esigenza appassionante di estendere la ricerca più sistematicamente in tutta l’area della provincia.
I mulini ad acqua, nonostante le forti condizioni di degrado in cui spesso appaiono, contribuiscono a definire, insieme agli altri beni culturali quel vasto patrimonio di testimonianze che fanno della provincia agrigentina un «continente» ricco di memorie e di storia.
Essi, in particolare, testimoniano un periodo della nostra cultura storica e dunque un momento di vita dell’uomo che, con laboriosità, ha costruito le tappe evolutive della storia del pane e della nostra civiltà contadina.
Basterebbe che il ricercatore attento scrutasse meglio il territorio, osservando gli antichi corsi d’acqua, per scoprire nascosti tra sterpi, canne e accanto a qualche aranceto, le strutture dei vecchi mulini, con le pareti gravemente lesionate, il tetto sfondato o il «buttigliuni» che ancora sovrasta il fabbricato ormai in rovina.
L’origine mediterranea dei mulini ad acqua, non mancherà certo di apparire sorprendente in ragione della irregolarità del flusso proprio dei nostri corsi d’acqua a determinare la forza motrice per far girare la macina.

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Questa antica invenzione, diffusa da un capo all’altro del mondo (Siria, Romania, Norvegia, Shetland) non sembra poter essere attribuita ad una civiltà ben determinata ma certamente si diffuse in tutto il medioevo, tanto da poterla ritenere una vera conquista tecnologica. In questo senso, inoltre, potrebbe essere riveduta la teoria di quanti ritengono il medioevo un periodo buio e senza spinta al progresso economico e tecnologico.
Tuttavia qualche fabbricato conserva ancora le meccaniche di funzionamento (macine, ruote idrauliche, strutture), ma tutto si presenta in condizioni di deplorevole abbandono.
Questa breve ricerca, attraverso la descrizione di alcuni opifici idraulici, non pretende di essere esaustiva ma intende offrire soprattutto ai giovani, una doverosa presentazione di questi antichi manufatti per i quali si propone il rispetto e la necessaria conservazione

CENNI STORICI
La tecnica di funzionamento dei mulini ad acqua rappresenta una vera e propria scienza idraulica, soprattutto per le ingegnose tecniche d’impiego e sfruttamento dell’acqua corrente quale principale fonte di energia meccanica.
Già in epoca romano-imperiale si perfezionava, con gli studi di Vitruvio, un sistema di trasmissione meccanica che utilizzava l’acqua corrente con risultati sorprendenti, introducendo la spinta idraulica che si sostituiva alla forza muscolare dell’uomo e degli animali da tiro .
Il tipo più antico di mulino ad acqua, a ruota girevole (mola versatilis), la cui scomparsa viene collocata un secolo prima dell’era cristiana, è quello orizzontale chiamato «greco o scandinavo», costituito da una ruota motrice orizzontale (quasi sempre in legno di quercia) a pale o cucchiai, con un albero verticale che attraversava la macina fissa inferiore e trasmetteva direttamente il moto alla macina superiore .

Originario probabilmente delle zone montuose del Medio-Oriente, si diffuse poi nel corso di alcuni secoli, in Europa e Asia, ma caratterizzato da un basso rendimento.
Secondo lo storico francese Marc Bloch, il primo mulino ad acqua figurava a Cabira, nel Ponto, tra le dipendenze del palazzo di Mitridate, certamente contemporaneo al complesso della costruzione databile tra gli anni 120 e 63 a. C.
Questo tipo di mulino, non adatto ai grandi fiumi di pianura, ricchi di acque ma troppo lenti, era in grado di funzionare soltanto con piccoli volumi d’acqua a corrente rapida, quindi si diffuse rapidamente nelle zone montane e di alta collina, dove le sue prestazioni venivano migliorate mediante la costruzione di un canale di convogliamento delle acque, munito di una tramoggia a pareti inclinate.

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In Sicilia e in gran parte della provincia agrigentina, a causa della scarsa piovosità, si rese necessario per il funzionamento dei mulini ad acqua a ruota orizzontale, la realizzazione di vasti recipienti, chiamati «conserve» oppure «gore», «bottacci», «margoni», «cisterne», «gebbie», ove raccogliere le acque, convogliate in un invaso chiamato: «ricolta» o meglio «corta» o «porta acqua», dal quale mediante canali artificiali detti: «fossi», «gore», «gorelle»,«saie», veniva elevato il livello dell’acqua.

La costruzione di questo complesso sistema di gora e ricolta, comportava un attento calcolo dei livelli di pendenze delle opere di convogliamento e diversione delle acque che venivano captate dalle fonti o dai vicini torrenti.
Inoltre, le pareti interne dei canali, fino al porta acqua, dovevano essere perfettamente a tenuta, solitamente con l’impiego di particolari materiali (malta idraulica e ciottoli fluviali) e malte finissime su strato di coccio pesto.
Il sistema di diversione delle acque non di rado serviva più mulini: uno principale posto in alto (mulino di «susu») e gli altri posti più a valle, fino all’ultimo che veniva chiamato mulino di «iusu» o di ripresa.
Testimonianze di tale tipologia sono ancora riconoscibili presso: Racalmuto, Favara, Cattolica Eraclea,… .
Il basso rendimento dei mulini a ruota orizzontale (le macine giravano lentamente, compiendo una sola rotazione per ogni giro della ruota idraulica), li rendeva inadatti alla produzione commerciale di farina, destinandoli a servire piccoli villaggi rurali che nei secoli XI-XII potevano avere una consistenza demografica che variava da alcune decine a un massimo di un centinaio di persone, come per i villaggi arabo-normanni della nostra provincia.

«L’esistenza del casale, dell’abitato rurale all’aperto, nella Sicilia musulmana sembra confermata da An Nuwayri che lo chiamava “qarya”. Vi è anche la testimonianza di Ibn Khaldun che, narrando la conquista normanna dell’isola, sottolinea la facilità con cui vennero occupati i casali di contro alla strenua resistenza opposta dai centri fortificati di: “Entella” (Contessa Entellina), “Guastanella” (Raffadali), “Monte Muculufa” (Gela), “Monte Castello” (S. Angelo Muxaro), “Sutera”, “Monte Caltafaraci” (Favara)» .

Occorre osservare che, dopo la conquista normanna, la Sicilia venne organizzata sulla base del casale; cioè alla base del sistema di organizzazione territoriale vennero istituiti dei «distretti» territoriali, relativamente vasti, detti aqalim.
Nei singoli aqalim il popolamento si ripartiva in piccole unità insediative di produzione agricola detti rahal, la cui popolazione era costituita da contadini liberi, proprietari della terra e tenuti all’obbligo di tributi.

In ogni aqalim è da ipotizzare l’esistenza di un abitato «capoluogo», quale centro religioso, militare ed amministrativo del distretto, rappresentato da un’importante insediamento principale sia per posizione topografica che per concentrazione demografica (per esempio, in periodo arabo Racalmuto era un rahal di Agrigento che a sua volta era un aqalim).
Ritengo che, ancora oggi, sia possibile reperire una documentazione storica capace di gettare nuova luce sui rapporti di scambio tra mondo arabo e mondo cristiano e sull’uso ancora attuale di utensili e tecniche agricole identiche, prima della introduzione delle macchine in agricoltura.
Una ricerca di questo genere sarebbe poi di particolare utilità per la Sicilia, dato che in altri luoghi l’incuria degli uomini e le offese del tempo hanno cancellato documenti e testimonianze.

In agricoltura, è ancora possibile effettuare ricerche sugli utensili, agrumi, cotone, grano, vigne, gelsi, ulivi, tecniche di allevamento, addomesticamento e uso di animali come forza motrice, scavi di pozzi, per citare alcuni dei possibili settori d’indagine ancora vivi ed esistenti nella nostra provincia .
Nel particolare ambito territoriale di Racalmuto, per esempio, il paesaggio agrario è segnato in maniera indelebile dalla presenza araba che mantiene vive le radici antiche di tecniche e materiali, usi e gesti lenti nella pratica agricola e nella macinazione del grano.
Le fonti documentarie permettono di verificare che la grande diffusione dei mulini ad acqua in Italia, si verificò nel periodo della «rivoluzione industriale» medievale, quando dopo il mille, si moltiplicarono meccanizzazioni utilizzando l’energia idraulica, oltre per la macinazione, anche per la realizzazione di: torchi, frantoi, concerie, filatoi, cartiere, seghe, torni…
La storia dei mulini seguì quella dei diritti sulle acque, il cui controllo passò poi all’autorità imperiale e dai feudatari ai vescovi, ai monasteri e quindi ai Comuni.

In periodo feudale, intorno al castello del Signore doveva esserci qualche mulino al fine di soddisfare i bisogni del casale, perché insieme con il forno del pane, con la bottega dell’artigiano, con la chiesa etc…, era un elemento indispensabile alla comunità, alla quale assicurava una certa autosufficienza.
Il Signore aveva interesse a costruire dei mulini nel proprio feudo, dai quali ricavava un lucro non indifferente, essendo costretti, i contadini, a farvi macinare il loro grano. Il monopolio dei mulini e dei forni fu introdotto dai Normanni dopo la conquista dell’isola e più tardi Carlo D’Angiò accentuò il peso del balzello, costruendo numerosi mulini e forni, ceduti in affitto con altre gabelle .
«In virtù dei suoi privilegi, la Chiesa sfuggiva a questa regola e quindi con l’immunità delle tasse, non pagava l’ammontare dell’imposta sul prezzo dei generi alimentari sottoposti a gabelle (carne, farina, olio, vino, pesce…)» .

Il mugnaio, responsabile di tutto, aveva diritto a percepire una «molenda» (tumulo di frumento per ogni salma) che oscillava tra la sedicesima e la ventesima parte della farina e a sottoporre a controllo del regio custode pesatore le unità di misura per la pesatura del grano e della farina (vedi rilascio di patente del 7/3/1846, ).

Compiuta l’Unità d’Italia si tentò di ripristinare questa imposta, potenziando la costruzione di nuovi mulini su tutto il territorio nazionale .
Successivamente, dopo le guerre d’indipendenza, il Parlamento approvava nel 1868 la Legge sul macinato ed a seguito di questa pesante gabella imposta, il lavoro del mugnaio diventò troppo oneroso e scoppiarono numerosi tumulti fino a quando fu abolita questa famigerata tassa, nel 1880.
Nella nostra provincia i mulini ad acqua continuarono a vivere fino alla seconda guerra mondiale e molti di essi, a seguito della diffusione ed introduzione delle nuove meccaniche d’impianto (motori a carbone, a gas, a scoppio, elettrici), furono progressivamente trasformati azionando, anche col moto idraulico, le turbine per la produzione di elettricità.
A Prizzi e a Palazzo Adriano per esempio, alcuni mulini lungo il corso del fiume Sosio sfruttarono il moto delle ruote idrauliche per alimentare le turbine destinate a fornire l’energia elettrica per l’illuminazione pubblica dei paesi.

A Cammarata, presso il mulino S. Pietro, le ruote idrauliche azionavano le turbine garantendo il funzionamento alle nuove macchine (francesi e inglesi) destinate alla macinazione del grano.
A Raffadali si ha notizia di alcuni mulini alimentati a carbone e a Racalmuto di altri mulini funzionanti a gas e a motore diesel.

TIPOLOGIA E TECNICA DI FUNZIONAMENTO

I nostri mulini erano del tipo a condotta forzata.
La fabbrica sorgeva sempre sotto il livello del terreno sul quale scorreva la «saia». L’acqua, precipitando dall’alto del «buttigliuni» (di forma ad imbuto, inclinato e protetto da un robusto torrione in muratura), si incanalava in una condotta a sezione ridotta aumentando di velocità e scaricando la sua energia contro le pale della ruota idraulica, provocando la rotazione attorno al suo asse verticale di ferro (Fig. 1).
Più il torrione era alto, maggiori risultavano la pressione e la spinta esercitate contro le pale (Fig. 2).
Sotto il pavimento della stanza delle macine, detta «cammira», dove girava la ruota idraulica, c’era il «garraffo» con classica volta ad arco. Da qui l’acqua, dopo avere trasmesso l’energia alle pale, usciva all’aperto per continuare la sua corsa nella saia che, dopo una breve distanza, alimentava uno o più mulini posti giù a valle.

I mulini presso la sorgente «Raffu» nel territorio di Racalmuto, rappresentano un importante sistema di sfruttamento dell’energia idraulica che, con opportuni accorgimenti di ripresa, serviva cinque mulini.
La provvisoria fermata del mulino (per l’ordinaria manutenzione) era basata sulla deviazione del flusso d’acqua tramite una leva che dall’interno azionava una pala metallica che sollevandosi deviava l’acqua dal foro di uscita, posto in alto, al «buttigliuni». La ruota, non ricevendo più la spinta, si fermava e bloccava la macina con essa solidale.
In caso di maltempo e conseguente aumento del flusso d’acqua, si interveniva a circa otto metri dal buttiglione abbassando una paratia metallica o di legno che faceva disperdere l’acqua lateralmente .
Si evitava in tal modo che sterpaglie, pietre e quant’altro l’acqua poteva trasportare, potevano otturare il buttigliuni e peggio ancora danneggiare le pale della ruota idraulica.
Per assicurare il normale funzionamento del mulino, la saia ed il porta acqua dovevano garantire una portata di almeno 30-35 litri al secondo.
La fase di molitura del grano consisteva nel versare il frumento nella tramoggia (cassa di legno di forma tronco piramidale capovolta, detta «ddeli», che attraverso l’apertura in basso, cadeva nel foro centrale della mola, chiamato «occhio» o «collo».

Così il grano, nel corso della rotazione delle mole, veniva a trovarsi nello spazio compreso fra la mola fissa e la mola girevole che col suo peso lo frantumava e lo polverizzava.
Questa farina, non ancora setacciata e depurata dalle scorie, fuoriusciva attraverso il canale e veniva raccolta nel «matraru» (cassa di legno da dove veniva poi insaccata), o direttamente insaccata.
«La prima farina macinata, circa un tumulo, (quasi 20 kg), veniva disposta attorno alla macina rotante in modo da formare un bordo protettivo che impediva la dispersione dell’altra farina sotto forma di polvere» , mentre abbiamo notizie che a Racalmuto presso il mulino Vinci esisteva un congegno cilindrico di legno, detto «tammuru», che ricopriva le mole impedendo la dispersione della farina.

tramoggia

Nella tramoggia era applicato un congegno sonoro che avvertiva il mugnaio quando la quantità di frumento stava per esaurirsi. Da un buco praticato nella parte superiore della tramoggia, pendeva uno spago alla cui estremità erano legate delle lamelle metalliche. L’altra estremità terminava con un grosso nodo ed era tenuta ferma dal peso del frumento. Quando il livello del grano si abbassava oltre il buco lo spago, non più trattenuto, scivolava all’esterno e le lamelle cadevano sulla macina rotante, producendo un caratteristico tintinnio.
Quando il rilievo delle scanalature si consumava, la macina mobile, che poteva pesare fino a dieci quintali, veniva sollevata mediante grossi bastoni usati come leva e con meticoloso lavoro di scalpello si rifacevano i denti .

Come si chiarirà più avanti, la ruota idraulica solitamente aveva i raggi, il cerchio e l’asse di ferro e in rari casi presenta ancora la struttura in legno di quercia.
Mediamente questi mulini potevano macinare circa quattro tumuli di frumento l’ora e quindi producevano circa 70 kg di farina in un’ora.
Oltre il grano si macinavano l’orzo, i ceci, il granone e il sale, per i quali si destinava uno dei mulini.

METODOLOGIA DI LAVORO E SISTEMAZIONE DATI RACCOLTI

A questo punto il lavoro d’indagine, consentiva la raccolta di una notevole quantità d’informazioni, anche attraverso l’ampia documentazione fotografica dei luoghi.
Occorreva dunque effettuare una selezione di campionatura delle principali emergenze, sostenuta dallo studio delle fonti storiche e dalle notizie di cultura locale, nonché da una adeguata catalogazione e riporto in mappa dei ritrovamenti.
Per fare ciò, è stato necessario ed indispensabile ritornare ad osservare, da vicino, certi elementi di interesse tecnico specifico -col rilevamento e disegno di strutture e di parti meccaniche .
Oltre a ciò è stato effettuato il controllo cartografico dei luoghi, sovrapponendo, anche se in scala diversa, le principali carte di cui potevo disporre (geologiche, storiche, catastali, idrografiche, dell’I. G. M,).

Le fonti scritte di documentazione, hanno permesso di rilevare alcune notizie storico-economiche e politico-sociali, permettendo la riscoperta di tradizioni ed usi della nostra antica cultura siciliana.
E’ stata affrontata la consultazione di particolari testi, documenti e carte d’archivio (Archivio storico comunale, Archivio storico dell’Intendenza di Finanza di AG, Archivio storico della Camera di Commercio, Archivio storico di Racalmuto, Biblioteca Lucchesiana di AG, ) oltre alla lettura di specifici testi di recente pubblicazione. Ciò al fine di ricercare una possibile collocazione storica di questi opifici idraulici.

Inoltre, di alcuni mulini sono state osservate con attenzione le antiche strutture e i sistemi costruttivi comparati con le altre tipologie locali e con quelle di altre località regionali (nell’area catanese) e nazionali (nella Regione dell’Emilia Romagna), mettendo a confronto i principi di funzionamento, le meccaniche impiegate e le potenzialità produttive.
Dal punto di vista etnologico, si sono rivelate di grande interesse le numerose testimonianze di persone che ricordano ancora di aver visto funzionare i vecchi mulini ad acqua.

mulino ad acqua

Con termini caratteristici e dialettali hanno voluto, anche se per poco tempo, riportare alla memoria i vecchi strumenti di lavoro del nonno o dell’amico che faceva il mugnaio, assieme ai canti, ai proverbi e alle scene di vita quotidiana di un mondo che sta scomparendo.
Ritenendo di non dovere trascurare, per quanto possibile, nessuno degli aspetti culturali intimamente connessi alla storia dei mulini, alla loro funzione sociale e storica, alla natura dei luoghi e allo stato attuale di conservazione, è stata elaborata una scheda tipo .

Al fine di una visualizzazione dei dati raccolti, è stata elaborata una tavola riassuntiva specifica dei corsi d’acqua.
Sono stati riportati in mappa anche tutti quei mulini che sono risultati senza nome(escludendo le ultime attribuzioni ingiuriose)12 non indicati sulle cartografie ufficiali.
Nella mappa generale del territorio agrigentino, si può leggere la distribuzione e concentrazione di mulini che, in questa fase della ricerca, ammontano a n° 60.
Di alcune interessanti testimonianze, per forma, tipologia, tecnologia dei materiali, sono stati eseguiti i rilievi e disegni di particolari scorci prospettici .
L’indagine storico-cartografica ha permesso anche la documentazione di alcuni di essi che però, ormai non esistono più (mulino del Conte, mulino di Jusu nel fiume Palma,…)

In questa sede si è voluto evitare di indagare a fondo sulla scomparsa e distruzione di queste ultime fabbriche, che non sempre sono state causate dall’azione devastante delle piene dei fiumi, ma più spesso sono state dovute all’intervento antropico, pubblico e privato.
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A Johanne – Ang. De Ciocchis Caroli III Jussu
Acta Decretaque omnia
Vol. I – Vallis Mazariae
Panormi, ex Tipographia Diarii Literarii, 1836

-Lavoro e tecnica nel Medioevo
di Marc Bloch
Ed. Universale Laterza 1973

-Grano Mulini Baroni
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Ed. Pellegrini – Cosenza 1979

– Gli antichi mulini del Chianti
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Ed. Salimbeni – Firenze 1981

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Ind. Grafica T. Sarcuto s.n.c. – Agrigento 1982

-Racalmuto – Memorie e tradizioni
di N. Tinebra Martorana
Ed. S.T.ASS. s.r.l. – Palermo 1982

-Bompensiere – Storia di un Comune di Sicilia
di Giuseppe Giunta
Ed. L.I.S. s.r.l. – Palermo 1983

-Guida alla Sicilia che scompare
di Elio Tocco Sugarco Edizioni – Milano 1984

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Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia Romagna
Ed. Grafis – Bologna 1984

– Gli antichi mulini ad acqua della terra di Licodia
di C. Verdi
Ed. Archeoclub di Licodia 1985

-Manuale della macinazione
di R. Ferrari
Ed. Faenza 1985

-Raffadali nel suo ambiente antico e attuale
di G. Di Giovanni
Ed. Centro Studi “G. Pastore” – Ag 1986

– A lu Raffu e Saracinu
di P. Carbone – Ed. “La bottega di Hefesto – Palermo 1988

-Caccamo: Mestieri e lavoro contadino
di Mario Giacomarra
Ed. Cassa Rurale ed Artigiana “San Giorgio” – Caccamo 1988

-Itinerari archeologici storici e naturalistici di Raffadali e dintorni
di M. Cassaro, G. Tarallo, A. Vella
Ed. Centro Studi “G. Pastore” 1988

– Matrici e permanenze di culture egemoni nell’architettura del bacino del Mediterraneo
Ed. S. F. Flaccovio – Palermo 1989

– Atti del Convegno Nazionale sulla storia dei Musulmani della Valle del Belice dal X al XIII sec.
a cura di G. Castellana 1990 – Ass. Regionale BB. CC. Soprint. Arch.- AG

-La Sicilia dopo il Vespro
di I. Peri
Ed. La terza 1990

– Cattolica Eraclea e il suo territorio
di G. Spoto – II ed. 1992

-Favara – Dalle origini ai nostri giorni
di G. Lentini

Categoria: Storia ComuniTag: mulino ad acqua

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