L’officina agrigentina si sviluppa, fin dal secondo quarto del VI secolo a. C„ misurandosi con le peculiarità del materiale a disposizione, la locale calcarenite, molto più tenera quindi più facilmente lavorabile di quelle selinuntina e siracusana, ma anche molto meno coerente e resistente.
Se la fatica della lavorazione e conseguentemente i tempi relativi erano ridotti, dovevano però essere attuati e mantenuti procedimenti particolari, sia nelle fondazioni che nell’elevato, nonché nella lavorazione e nell’assemblaggio degli elementi architettonici.
Citiamo, al riguardo, i sistemi di fondazione che comportavano, in genere, cavi abbastanza profondi penetranti anche entro la roccia, ai quali talvolta dobbiamo la nostra conoscenza di vicende costruttive, come nel caso del santuario delle divinità ctonie, all’estremità occidentale del costone dei templi.
Il tempio detto di Hera, invece, presenta un interessante sistema di profonde sostruzioni costruite in blocchi anche entro la roccia. In questo quadrò si può ricordare ancora il santuario rupestre in località S. Biagio che già alla metà del VI secolo a. C. – ancora prima, quindi, del vicino tempio di Demetra – offre una significativa esemplificazione di questo rapporto tra costruito e roccia naturale che contraddistingue un aspetto dell’officina agrigentina.
grande altare dell’Olympieion
Possiamo spiegare in questo modo anche l’ interessante sistema di fondazione riscontrato nel corpo principale del grande altare dell’Olympieion , costituito da una fitta serie di sostegni che reggevano il piano superiore dell’altare oggi scomparso.
Anche l’apparecchio lapideo comportava particolari attenzioni, che consentivano peraltro di realizzare, ncll’Olympieion ad esempio, attraverso un perfetto assemblaggio, non solo clementi architettonici tradizionali come le colonne, ma anche elementi figurati di nuova concezione, come i Telamoni.
A questo assemblaggio e alle necessità della pietra si debbono ricondurre le variazioni da edificio a edificio applicate all’unità di misura, verosimilmente perché lo stesso standard non dava garanzie di lunga e sicura validità.
Le stesse limitazioni derivanti dal materiale spiegano il perdurare, nell’officina agrigentina, di tecniche altrove solo arcaiche, come i canali per lo scorrimento delle corde destinate al sollevamento, che troviamo, ad esempio, oltre che nell’Olympieion, fin nel tempio di Vulcano della fine del V secolo a. C.
L’uso ormai consolidato di tecniche legate al materiale può chiarire particolari altrimenti inspiegabili. Nel tempio della Vittoria ad Himera, ad esempio, che possiamo ricondurre all’officina agrigentina, il pavimento della peristasi era costituito da lastre, oggi asportate, che non poggiavano come di consueto su di una serie di muri di spina, ma su di un letto continuo di blocchi tra il crepidoma e il toichobate, anzi erano inseriti, in parte, in quest’ultimo.
Nel quadro dell’officina agrigentina possiamo inserire le assai scarse testimonianze di architettura monumentale a Gela, databili in età classica. Citiamo il tempio sull’acropoli che risale alla fine del primo quarto del V secolo a. C. e di cui è stata rimontata una colonna.
Testo di Giorgio Gullini