di Giuseppe Burgio
Era il giugno dell’anno millenovecentoquarantatrè, avevo venti anni; dalle falde del colle San Michele, osservavo, estatico e ammirato, il lento cullarsi dei frumenti, di cui è ricca la nostra Piana, sino alle basse alture e alle colline di fronte, punteggiate di mandorleti e di ulivi.
Il colore del sole me lo sentivo entrare in tutto il corpo, mi produceva un benessere fisico e rigenerante, mi dava una sensazione meravigliosa.
Era come se i campi di frumento, il cielo ampio, i raggi del sole caldo, il profumo della campagna ed io fossimo una cosa sola, tanti esseri che vibrassero insieme, un coro di voci in un palpito solo.
All’improvviso, un rombo assordante di aerei, dalla parte di ponente, mi scuote dal mio assorto contemplare, mi riporta con violenza alla dimensione d’una realtà drammatica, della guerra dell’Italia contro gl’inglesi e gli americani.
I caccia bombardieri nemici, una dozzina in tutto, provenienti dal mare di Porto Empedocle, si avventano nel cielo di Licata, iniziando la sinistra e lugubre picchiata proprio da sopra la mia testa, e riversano i loro ordigni maledetti.
Le bombe, andate a finire sul paese, sollevano dai tetti nuvole di fumo; mi lascio prendere da un senso di sbigottimento; la paura cresce, s’ingigantisce al pensiero di aver lasciata sola, in casa, mia madre; allora, con l’animo devastato e con l’affanno in gola, corro, a piedi, verso il paese.
licata bombardamentoPer la strada incontro gente spaventata, che s’affretta in senso contrario al mio, che fugge verso i campi, e che risponde con parole incomprensibili e distorte alle mie frettolose domande, facendomi credere chissà quale disastro e quali malanni dentro l’abitato!
Ma finalmente giungo alle prime case, le trovo in parte deserte, ma intatte: arrivo al mio quartiere, anch’esso intatto; in piedi anche la mia casa e mia madre che sta ad attendermi, atterrita per quegli istanti di carosello infernale.
Ci abbracciammo, lieti di essere vivi tutti e due, dissi che non si preoccupasse per le mie sorelle; stavano bene, nella roba dei Calafato a San Michele, dove eravamo ospiti; poi, dopo alcuni istanti, tacemmo. Era un silenzio di preoccupazioni ancora più serie, forse un presagio di cose più tristi e di eventi più dolorosi, dei giorni che vennero appresso, quelli dello sbarco alleato, con le navi che sparavano dal mare, e i soldati con i fucili spianati e le mitraglie, e gli aerei che sganciavano bombe, e i para che scendevano dall’alto. Un fuoco di inferno, mentre terrorizzati si correva ai rifugi antiaerei.
Il grano della Piana però, qualche settimana innanzi, era stato raccolto, anche se in fretta, al ritmo delle solite cantilene, pestato dai muli sulle aie o con le poche trebbie che c’erano allora.
Giorno per giorno, pur con gli aerei nemici che rombando sorvolavano l’isola, il canto dei contadini sulle aie, l’ansare delle trebbie e l’affaccendarsi degli uomini, facevano ancora sperare nella vita.
Il sole, anche in quell’estate di eventi angosciosi, puntualmente, giorno dopo giorno, tornava a spuntare, con il suo disco grande e indorato, illuminando e scaldando ai siciliani fiducia in se stessi e nell’avvenire, pur in mezzo ai disagi e alle devastazioni di una guerra dilacerante e infelice.
Sulla Piana, dove sostarono numerosi i carri e i mezzi corazzati dell’armata americana e per dove passarono torme di soldati marocchini, canadesi, australiani, i campi di grano, anno per anno, ancor oggi, quando è giugno, con le spighe turgide, attendono di essere trebbiati, per ricompensare i contadini, dopo un’annata di lavoro intenso, sudatissimo.