Ventiquattro anni di storia politica licatese hanno il loro svolgimento dialettico attraverso tre tappe fondamentali:
- a) il passaggio dal regime totalitaria alla democrazia ha determinato nella massa lavoratrice lo choc causato dalla cattiva interpretazione del concetto di libertà che porta inevitabilmente ai noti fatti del 28 maggio 1944.
- b) la fase intermedia denota un abbattimento morale, politico e sociale della comunità licatese, la quale si presenta bifronte: conservatrice, immobile, identica a se stessa, ma nel suo seno sonnecchia il malcontento e lo spirito rivoluzionario. I fatti del 5 luglio 1960 costituiscono il campanello d’allarme di una società in cui si prepara l’esplosione.
- c) l’11 giugno 1967 è la data in cui il popolo di Licata si riconosce come tale e merita di chiamarsi popolo. Tale risveglio è avvenuto di colpo e in via del tutto minacciosa.
Credo, a questo punto, che dall’invasione dell’Isola all’11 giugno, Licata sia stata impegnata in « tre rivoluzioni » che rappresentano le tappe storiche fondamentali della vita politica e sociale della nostra città dall’ultimo dopoguerra.
La prima quella del 28 maggio 1944, impopolare e opera di facinorosi, mortificherà il Partito Comunista Italiano il quale non certamente da questa data potrà trarre i suoi simboli per l’avvenire. La seconda, non prevista, ma non per questo meno importante,trova la fusione di tutti i partiti nella morte di Vincenzo Napoli.La terza è opera dell’intero popolo di Licata; i partiti sono distrutti, ma non i licatesi che li componevano. Democristiani, liberali, repubblicani, monarchici, missini, socialisti e comunisti si fondono nella unicità dello spirito popolare. E’ la riabilitazione completa dei cittadini di Licata senza distinzione di colore politico. Ogni macchia del passato viene cancellata, ogni dubbio sul patriottismo civico dei comunisti viene sfatato. Questi all’11 giugno appaiono i più sacrificati; votarono soltanto i vecchi, minacciati di perdere la pensione; il resto si strinse compatto ai democristiani, ai liberali, ai missini e ai socialisti in Piazza Progresso e combatté, questa volta, per i colori della città. I comunisti licatesi hanno così riscattato, forse con maggior fatica degli altri, un intero passato; l’11 giugno è stato giorno di gloria per tutti i licatesi uniti per la prima volta nella loro storia.
Di questa rivoluzione un giorno potrà vantarsi la democrazia licatese, la città dovrà da questa trarre i suoi auspici per l’avvenire, lo Stato, invece, la sua lezione premonitrice.
La «rivoluzione senza barricate» del popolo licatese se da una parte è affermazione di spirito comunitario, come unità e forza, dal punto di vista dello Stato essa deve essere guardata nel suo aspetto negativo e considerata il campanello d’allarme che preannuncia come, col mutar dei tempi, anche le rivoluzioni mutano la forma e il loro significato tradizionali. La marcusiana concezione concernente la crisi in cui si dibatte la società odierna, mira soprattutto, a dimostrare come l’industrialismo avanzato ha degradato l’uomo all’unica «dimensione economica», privandolo di ogni possibilità di scelta, rendendolo prigioniero della datità. Contro questa forma di totalitarismo economico l’unico e solo rimedio rimane il ricorso a quegli ultimi residui di negatività che (ancora per poco) caratterizzano la soggettività umana. Solo la forza negativa del pensiero è in grado dl invertire le parti e preparare una nuova rivoluzione nel mondo della positività.
Questi gli effetti e i rimedi rispettivamente constatati e proposti nell’ambito di una società a forte sviluppo economico in cui il procurarsi i mezzi per fronteggiare i bisogni, cosiddetti repressivi, è relativamente difficile. Ma quali sono, invece, gli effetti di tale totalitarismo nell’ambito di una società in cui, pur difettando le fonti di lavoro, esso non si rifiuta di entrarvi? La risposta è semplice: Nei paesi del benessere gli effetti più immediati si possono (almeno temporaneamente) circoscrivere al solo annientamento del soggetto come persona, come pensiero; in quelli meno progrediti, invece, si ha la sfida allo Stato, ai suoi poteri, alla sua classe politica. Nei primi non vi è scelta da parte degli uomini, essi sono impietriti e in ginocchio nell’atto di adorazione dei beni dl consumo, la libertà come autodeterminazione esistenziale è ormai svanita; nei secondi, non essendovi equilibrio tra mezzi dl sussistenza e beni di consumo, vi è tensione tra soggetto e realtà, qui è tale il fascino che desta l’oggetto da indurre gli uomini a veri atti di follia, con ripercussioni irreparabili in campo politico e sociale.
Le eroiche giornate di giugno non registrano soltanto una pagina meravigliosa dl spirito comunitario licatese, ma credo, soprattutto, una rivoluzione il cui movente, forse, è senza precedenti nella storia. L’ 11 giugno 1967 rappresenta la rivoluzione delle rivoluzioni. La società licatese ridotta all’unica dimensione economica, avvinta e costretta da una lunga catena di bisogni, la maggior parte dei quali manipolati e imposti dall’industrialismo avanzato, si lancia disperatamente nella lotta con il solo unico intento di far fronte ad essi. Dall’emigrazione, fonte precaria (anche se non sterile) di mezzi per fronteggiare le nuove esigenze sociali, i licatesi passano alla rivoluzione, unica e sola alternativa possibile per affermare un’esistenza in un mondo ormai dominato dalla «ragione scientifica».
Ho voluto chiudere il presente lavoro dedicando un intero capitolo al problema mafia la cui soluzione, a mio modo di vedere non rientra nelle possibilità di uno Stato il cui governo può essere il più democratico o la più oppressiva delle tirannidi. Come mentalità, come costume, essa invece, trova il suo annientamento nella società repressiva odierna il cui autoritarismo economico è tale da trasformare, forse in peggio, lo spirito degli uomini. A Licata si è ormai ben lontani dal pericolo del risorgere della romantica mafia; questa, si può dire, abbia trovato la sua propria negazione in una forma di gangsterismo che ha avuto il suo epilogo nel processo di Salerno. Ma non è detto che forme similari di delinquenza non possano ricomparire nella nostra città.
Il popolo di Licata, tutto Intero, l’11 giugno scelse la via politica per porre fine alla depressione economica e sociale, ma se lo Stato si ostina a sfruttare l’industria dell’emigrazione e a considerarci ancora i mercenari del lavoro mondiale, le conseguenze gravi a cui possiamo andare incontro sono di portata incalcolabile.
Per ora non ci rimane che sperare nella lotta politica per indurre lo Stato ad un’opera di effettiva giustizia sociale soprattutto nell’equa distribuzione del lavoro nazionale. Se la classe dirigente licatese è ancora disposta, come l’11 giugno, ad assumersi con le masse le dovute responsabilità la nostra città potrà molto sperare per l’avvenire. Il naufragio sociale del passato è principalmente dovuto al completo distacco dei ceti intellettuali dalla massa lavoratrice, la quale, sola e non guidata nel problema delle scelte, è rimasta vittima della demagogia e della falsa propaganda.
Se gli intellettuali licatesi si impegneranno a mettere la propria cultura al servizio della collettività e non isolarsi dalle masse, si può sperare, almeno per i nostri figli, che i problemi di Licata, un giorno, avranno la loro soluzione.
Giuseppe Peritore